Uniti nel cognome Zanetti. Uniti nella consapevolezza di essere portatori di un Dna che ha radici profonde nelle acque del lago di Varese. E per questo, ancora più uniti nella salvaguardia di ogni documento e di ogni oggetto costruito dai pescatori professionisti. Quelle reti, quelle aguglie, quei modani, donati dai famigliari degli scomparsi -i Giorgetti, i Bossi, i Maroni, i Nicolini- che hanno condiviso la scelta della conservazione, sono lì in quell’archivio a testimoniare che non sono strumenti dimenticati. Semplicemente inutilizzati, ma ricchi di quel vissuto che merita grande rispetto, sintesi di quella manualità intelligente e arguta di chi considera il lago luogo dell’anima e di vita. Tiziana, Manuel, Cristian: l’una ricercatrice dell’Istituto di Antropologia per la Cultura della Famiglia e della Persona e studiosa del diritto dei beni culturali, l’altro che ama arricchire di foto quel patrimonio della famiglia formato da articoli di giornali risalenti agli anni Settanta, da una quantità innumerevole di cartoline del lago a partire dall’inizio Novecento, disposte accanto a libri riguardanti lo stesso argomento. E l’altro ancora, pescatore dilettante, che fin da bambino ha appreso il sapere della pesca da papà Gianfranco e lo sta trasmettendo al figlio. Tre cugini uniti, ognuno nel proprio ambito, a dare una risignificazione a quel patrimonio spirituale che continua a permanere nel loro sangue. C’è da meravigliarsi a conoscere la sapienza nel costruire una rete. Fra le tante colpisce una persichiera, all’interno del loro luogo di raccolta, ancora con i 100 sassolini (negli anni Sessanta sarebbero stati sostituiti da anelli in ferro zincato) che con 70 tavolette di sughero, ricavati da tappi provenienti dalle osterie, e posizionati nella parte opposta, hanno tenuto in verticale la rete. Un perfetto equilibrio ottenuto da una sapienza antica. Nel libro “Confesso di aver pescato”, il pescatore Ernesto Giorgetti ricorda che il padre consumava una tenaglia ogni inverno per incidere i sassolini e ricavare il taglio per legare il cappio. E poi si osservano gli aghi per tessere le reti, le aguglie per dare le dimensioni alle maglie. Dietro a un bertovello c’è la storia dell’astuzia dei pescatori che ne mettevano 40-50 anche più nei canneti del lago, ognuno sulla sua riva. E per ricordarsi il punto dove erano posizionati tagliavano leggermente le canne, con segnali che solo loro sapevano, per non dare nell’occhio ai bracconieri. Bastano i libretti dei pescatori, tutta la strumentazione per capire la natura di un pescatore? “Il lago sa tutti i miei segreti -spiega Cristian che continua ad andare sul lago con il suo barchetto ogni giorno appena gli è possibile- Gli parlo e lui mi ascolta. Bisogna amarlo e capirlo. Socchiudo gli occhi e lo scruto. E’ una sensazione difficile da descrivere. Noi apparteniamo al lago. Guardo il cielo e vedo una nuvola spinta dal vento che spira dai monti piemontesi. E’ meglio che torni a casa, mentre quando l’acqua è increspata perché dalla Schiranna arriva la cosiddetta Bergamasca, che è una coda della bora triestina, posso stare tranquillamente con il mio barchetto”. “I pescatori -interviene Tiziana- affinando i loro sensi, sono riusciti a mettere a punto sistemi straordinari nel pieno rispetto dell’ambiente”. E ricorda un’intervista, registrata e conservata in archivio, a Daniele Bossi, il pescatore che ha perso la vita sul lago il 23 dicembre scorso. “Aveva uno straordinario modo di raccontare il lago -continua- al punto che era in grado di capire la personalità di un pesce, ad esempio se era un solitario o amava stare in gruppo, addirittura da come muoveva le canne, dal modo in cui saltava”. Le pagine del lago continuano aa aprirsi e incontrano degli ottimi interpreti che si conformano alle loro esigenze.
Federica Lucchini