LA SOTTOMISSIONE? UN ESERCIZIO DA VALUTARE
C’è stato un tempo in cui essere sottomessi era normale. La sottomissione era figlia di una tradizione gerarchica dove il più forte governava sul più debole, il ricco sul povero, l’uomo di cultura sull’ignorante. Un tempo in cui era davvero difficile poter entrare in sintonia con la comunità o aspirare a diventare qualcuno, tutto era subordinato a tradizioni che si legittimavano strada facendo. Era molto difficile uscire dal nido e cominciare a volare, il mondo era fatto su misura per i fortunati, per tutti coloro che avevano i santi in paradiso, per chi poteva permetterselo, i pianeti della cultura erano riservati; per il figlio dell’operaio o dell’impiegato la vita era spesso un salto nel buio, una speranza e in molti casi una pia illusione. La società aveva il piglio di un sistema consolidato, immobile e inamovibile, l’obbedienza, spesso cieca e imposta, ne era il collante. A scuola dovevi obbedire, idem a casa, in ufficio, in caserma, in oratorio, l’adulto doveva essere rispettato, i capi erano spesso degli incalliti impositori, con il potere tra le mani potevano fare il bello e il cattivo tempo. Obbedire era un normalissimo atto di giustificata subordinazione, ma spesso chi subiva non capiva, nessuno infatti spiegava le ragioni di un perché, tutto rimaneva sospeso e nella maggior parte dei casi l’obbedienza si trasformava in rabbia e l’insubordinazione diventava logica conseguenza. Uno dei grandi limiti dell’educazione è stato quello di non essere riuscita abbastanza a far ragionare le persone, condannandole o assolvendole, a seconda dei casi. Usare la ragione è una straordinaria possibilità offerta a una natura umana troppo spesso abbandonata al proprio destino e quindi incapace di riconoscere e saper utilizzare le proprie ricchezze, che sono davvero tante. Ecco perché il compito della scuola diventa determinante. Nella sua complessità assolve una miriade di problemi, fornendo alla persona la possibilità di capire e di agire in modo adeguato. Non una scuola pianificatrice, ma stimolatrice di spirito comunitario, una scuola che sappia ascoltare e governare, che sappia distribuire con saggezza quel mondo dei valori di cui in molti casi diventa paladina e interprete, senza imporre una univoca visione del mondo. Mentre la pandemia tende inesorabilmente a comandare, la scuola propone la sua democrazia di fondo, il suo modo di essere in un mondo che cambia. Lo fa senza paura, ma con molta pacata determinazione, adottando un sistema di comunicazione capace di restituire fiducia e speranza a un mondo, quello giovanile, oberato da un’infinita miriade di problemi. Nell’epoca del Covid 19 la scuola diventa ancora più importante, una scuola dove cultura, istruzione, socializzazione, collaborazione e dimensione critica ripropongono il tema di una presa di coscienza solidale del proprio essere e degli obiettivi da raggiungere, una scuola che non ha paura, ma che forte più che mai della sua consolidata vocazione, si accinge a dare un volto nuovo, più consapevole e attuale a una società in cerca di nuovi valori e di armonia. La scuola non è mai stata molto democratica, occorre avere il coraggio di riconoscerlo, si è dimenticata spesso di essere la base su cui costruire la vera democrazia, quella che va dritta alla sostanza e che sviluppa una dimensione critica della vita, quella che permette all’essere umano di sentirsi veramente umano, senza paure di troppo, ma dotato della ferma convinzione di essere perno di un sistema che mette al centro l’umanità, il lavoro, la collaborazione, il rispetto, le regole, l’impegno, la solidarietà, la capacità di interagire con la comunità per migliorarne la qualità. Una scuola di natura ampiamente popolare, capace di progetti e di programmazioni, svincolata da troppo tradizionali convenienze, fucina di idee, di invenzioni, di collaborazioni con il mondo del lavoro e con la società civile, una scuola viva, capace di rispondere sempre alle necessità della comunità e a quelle del singolo, una scuola che aiuti a capire il senso della vita, che sia proprietà comune e di cui tutti si sentano parte. Una scuola che non sia solo quella dei soloni o quella di una sparuta oligarchia di abbienti, ma una scuola aperta, forte, solidale, con una bella autostima, che sappia trovare le chiavi per aprire le porte della vita a tutti, ai ricchi e ai poveri, ai figli dell’aristocrazia come ai figli della comunità umana, una scuola che si costruisca strada facendo, che sappia far tesoro di tutto quello che incontra, che sappia individuare gli obiettivi veri, senza i quali non esiste nessun tipo di libertà cosciente. Anche per questo la scuola deve insegnare a vivere, deve mettere in condizione le persone di essere felici, di vivere coscientemente la propria condizione, di andare alla scoperta della propria interiorità, senza il pericolo di diventare una chiusa oligarchia. La scuola non è sottomissione, ma apprendimento nella convinzione, è certezza di poter essere, di poter fare, di poter ambire, di giocare con la cultura la più avvolgente partita della vita, in compagnia di uomini e donne che conducono il gioco nel rispetto delle anime e degli spiriti, cercando di guidare alla conoscenza di sé e alla convinzione che le regole non siano opprimenti muri irremovibili, ma strumenti di interpretazione e di attuazione, capaci di far vivere con gioia la vita in tutte le sue forme. I giovani amano la scuola, ma forse la vorrebbero un po’ diversa, più capace di capirli, di camminare con il loro passo e con le loro ambizioni, più accogliente, meno demotivante e più stimolante. La scuola del passato ha dato moltissimo sotto l’aspetto contenutistico, ma si è spesso lasciata fuorviare sotto l’aspetto umano, ha spesso giudicato in modo troppo matematico, senza porsi in un atteggiamento di ascolto, ha voluto mantenere la distanza anche quando avrebbe dovuto entrare con garbo nell’animo umano per risvegliarlo, per consentirgli di dimostrare che si può fare molto per distribuire la voglia di amare. Siamo stati spesso testimoni di una scuola elitaria, molto giudicante e a tratti anche un po’ sprezzante, più attenta a consolidare un potere che a capire la mutevole ricchezza della natura umana. La pandemia ha dimostrato quanto sia fondamentale guidare le giovani generazioni verso una seria presa di coscienza di quel preziosissimo bene che è la vita, con tutti i suoi pro e i suoi contro, ha dimostrato quanto sia importante aprire i cuori e le menti, consentire un volo radente sui bisogni e le necessità, sul desiderio di vivere un’esistenza a misura d’uomo, dove i sentimenti abbiano la meglio sulla paura, mettendo in chiaro che l’educazione è prima di tutto conoscenza e presa di coscienza, capacità di saper distinguere il bene dal male, di corrispondere ai bisogni di una società che vuole essere coesa, unita, solidale, capace di trasformare la disonestà e l’arroganza in una sobria lezione di altruismo. Niente sottomissione dunque, ma obbedienza convinta, ragionata, spiegata, fatta amare, soprattutto quando tocca le corde più riservata di una umanità che non finisce mai di stupire.
ADOTTIAMO IL SILENZIO
I rumori sono la morte dell’anima, generano inquietudine, disapprovazione, nervosismo, alimentano la confusione mentale, fanno male al cuore, alla mente, alla circolazione, impediscono all’essere umano di vivere una lettura pacata e significativa della vita, destabilizzando lo spirito comunitario e la sua preconfigurata armonia. Chi pensava che il dopo Covid 19 avrebbe potuto generare una nuova aspirazione di benessere si sbagliava, il dopo ha accentuato una generale decomposizione dell’aspetto regolativo della società, mettendone a nudo una luciferina invadenza e tracotanza e così in questa tormentata confusione il rumore ha imposto la sua ingerenza. Con quale esibizione? Imponendo una fitta sequenza di violazioni e trasgressioni, che vanno dall’urlo prolungato, al lamento di animali che non essendo stati educati emettono suoni tormentati e poi ci sono le persone, che passano per le strade come se fossero i corridoi di casa. L’urlo è diventato una vera e propria malattia contagiosa, così come la parolaccia, come l’uso spropositato dei mezzi più comuni, come la moto, lo scooter, la macchina, per non parlare di quella maleducazione che striscia silente, ma che invade in modo ossessivo la libertà altrui, costringendola a una ingrata sottomissione. Di questo generale declassamento fanno parte anche quei luoghi e quegli spazi che un tempo era considerati sacri, i fatti dimostrano che non si educa e che là dove si dovrebbe educare, si educa pochissimo e male o non si educa affatto. Il Covid 19 doveva essere l’occasione più propizia per trasformare il becero contenuto del consumismo in una nuova e moderna presa di coscienza, poteva essere l’occasione per guardarsi dentro e prendere atto di chi siamo, di quali siano i nostri compiti, di che cosa sia la libertà, di che faccia abbia quel mondo morale che dovrebbe soprassedere ai disagi di una natura spesso ignorante delle proprie ricchezze, doveva essere l’insegnamento più redditizio, quello che consente di uscire dalla banalità e dalla superficialità, per prendere in mano la propria coscienza e orientarla. Non c’è come il male per rimettere in gioco il bene, non c’è come la malattia per capire esattamente il vero valore di una cura. Osservare il silenzio non significa come l’ignoranza comune vorrebbe dimostrare essere schiavi di una servitù morale, ma insegnare che il sussurro può essere molto più significativo ed educativo di un urlo spropositato. La scuola ha una funzione determinante nel far prendere coscienza attiva a una popolazione giovane che si affaccia alla vita con l’idea di apprezzarne e viverne la bellezza, ha lo straordinario compito di far emergere la capacità di pensare, di ragionare, di proporre, di agire, è proprio la scuola che determina l’evoluzione sociale di una comunità che vuole crescere, dimostrare la propria umanissima ricchezza, è grazie all’amore di uomini e donne dediti all’insegnamento che la natura umana impara a conoscersi meglio, a capire quale sia il vero segreto di un benessere e di una felicità a cui la gente comune tende. Forse è arrivato il tempo di puntare decisamente all’orgoglio di essere italiani, di essere persone che non disprezzano, ma che amano di vero cuore tutto quello che parla il dolce linguaggio dei sentimenti e quello dei valori, è forse arrivato il tempo per trovare il giusto spazio per riflettere e ragionare, per abbandonare gesti e comportamenti malsani, che ci fanno apparire per quello che non siamo. Educare è compito di tutti, in particolare da parte di chi porta sulle spalle il peso di una ripartenza verso traguardi più appetibili, più capaci di riformare un modo di essere sbagliato, una confidenza ingiusta. Forse è tempo di essere giusti e affermativi, decisi a entrare nel cuore e nella mente di chi ci sta di fronte come un fratello che cerca ospitalità, per essere parte attiva di una comunità che vuole davvero crescere, adottando l’unico sistema possibile, quello di saper ascoltare e di rispettare il prossimo.
VALE PIU’ LA FORMA O LA SOSTANZA?
Si è spesso dibattuto sugli aspetti che caratterizzano la natura umana, in particolare sulla forma e sulla sostanza, in molti casi come se fossero espressioni diverse oppure opposte, in altri come se fossero sintesi perfetta d’ immagini e caratteri. Si è dibattuto spesso sulla base di culture, senza arrivare mai, però, a una contrapposizione netta, perché nell’articolata complessità dell’unione vitale non possono esserci separazioni troppo nette, ma modalità e stili compensativi per esprimere la bellezza di ciò che siamo e che rappresentiamo. Dalla forma si evince la sostanza e la sostanza si manifesta in virtù di un atto formale che ne configura l’immagine, la sua interlocuzione esistenziale. C’è stato un tempo in cui forma e sostanza dovevano procedere di pari passo, era l’educazione a definirne la rappresentatività. Nel mondo della scuola di una volta dovevi presentarti curato, pulito, stirato, ben pettinato, con il grembiule perfettamente in ordine, con la camicia bianca in odore di detersivo, con le scarpe lucide, con la brillantina sui capelli e quando non c’era la brillantina la mamma prendeva in prestito qualche goccia di olio d’oliva. C’era un’attenzione massima per l’ordine, l’ordine esteriore s’intende, quello che ha un impatto visivo immediato, che induce immediatamente a un primario giudizio formale. Era un po’ così per tutti, anche le persone meno abbienti avevano una divisa nascosta in qualche vecchio armadio, che indossavano la domenica, negli incontri e nelle feste comandate. Non importava se il colore fosse leggermente sbiadito, se qualche cucitura non fosse perfetta, l’importante era indossare indumenti curati, dimostrare che anche nelle semplicità fioriva la voglia di essere attenti, più belli, più capaci di cancellare ogni piccola forma di negligenza. Ricordo a questo proposito di un giovane che veniva a scuola sporco, con abiti sgualciti e non curati, ricordo il suo stupore quando lo invitavo a pensare, a scegliere una via d’uscita da una situazione che lo faceva apparire negativamente diverso dai suoi compagni. Così come io aiutavo il suo impegno scolastico, magari con qualche giudizio più affermativo del dovuto per incoraggiarlo, così gli chiedevo di essere collaborativo nel suo modo di presentarsi in classe. Cercavo di fargli capire che la cura non dipendeva da fattori di ordine estetico o economico, ma che si poteva essere formalmente ordinati anche indossando una semplicissima camicia ben lavata e stirata, una giacca magari più larga del previsto, ma ben spazzolata e senza macchie. Anche così la forma e la sostanza andavano a braccetto, si compenetravano in una visione meno esasperante e più umana, più capace di conciliare i giudizi, di dimostrare che in molti casi basta davvero poco per adottare forme comuni di rispetto. Dunque nella forma la sostanza si incarna, si realizza, si manifesta, rende più forte la capacità dell’essere umano di essere accolto e apprezzato non solo per come si presenta sotto l’aspetto estetico, ma per la sua capacità di saper rispettare le regole societarie, anche quelle più comuni, quelle che fanno fare un passo avanti sulla strada di una corretta presa di coscienza civica e sociale. E’ giusto fare sempre un passo avanti? Cercare sempre di migliorare? E’ giusto imparare che il rispetto che riceviamo sia anche quello che sappiamo donare? E’ importante evitare di destabilizzare il prossimo e l’armonia comunitaria con atteggiamenti formalmente sbagliati? Insegnare ai giovani il rapporto che esiste tra forma e sostanza, aiutarli a prendere coscienza del valore della vita e di che cosa significhi vivere in una comunità è fondamentale, ma stranamente la società troppo spesso non sente, non vede, non prende posizione, diventa presuntuosa e saccente preferisce voltare le spalle e lasciare che il mondo si consumi in mille rivoli che non portano a nulla. Oggi sono prevalenti l’indifferenza e una paura alimentata da chi invece di affrontare la complessità dei problemi, allertando tutte le principali agenzie, evita il contatto, soprattutto quando diventa necessario giocarsi in prima persona le responsabilità. Una delle grandi carenze della società di oggi è che pensa e agisce senza affrontare la realtà nella sua dimensione comunitaria, senza offrire un terreno di gioco su cui posizionare una politica educativa seria, capace di riportare salvezza e speranza là dove le condizioni sono paurosamente precarie. Manca una visione comunitaria dei problemi e in questa visione i giovani hanno una parte secondaria, soprattutto là dove dovrebbero trovare aiuto, accoglienza, spazi adeguati e fermezza educativa. L’educazione di un paese o di una città non è infatti un optional o un problema che riguarda solo qualcuno, ma espressione della maturità civica di tutte le forze rappresentative della comunità. Purtroppo la determinazione in questo senso è sempre meno presente, lo si può notare nei comportamenti quotidiani, quelli che cadono direttamente sotto lo sguardo delle persone. Basta frequentare le vie o le piazze, basta tenere una finestra aperta, basta porgere l’orecchio per capire quanto il sistema abbia bisogno di uomini e donne che sappiano mettersi in gioco per costruire una realtà più democraticamente corretta, fondata sulla coscienza che le negatività si ripercuotono sulle famiglie e soprattutto sui più piccoli. Insegnare è fondamentale, la figura dell’educatore è essenziale nello sviluppo di un sistema che vuole cambiare in meglio la propria vita. Chi può veramente aiutare una comunità a puntare più decisamente verso la conquista di una sana libertà cosciente? Famiglia, scuola, oratorio, associazioni, la storia di una comunità è fatta soprattutto di componenti che sanno mettersi insieme, che credono nella collaborazione, nella voglia di cambiare, di far crescere una gioventù più forte, più moderna, più cosciente delle proprie capacità e delle proprie possibilità e soprattutto più capace di diventare forza attiva di una trasformazione sociale in senso positivo, dove le persone, tutte le persone, chiunque esse siano, diventino strutture portanti di un ritrovato e cosciente stato di responsabilità. Forma e sostanza si compenetrano, trovano l’una nell’altra la forza di cementare una vocazione, un desiderio, una riflessione, per questo vogliono andare oltre la statuaria espressione di una filosofia, vogliono unirsi, compenetrarsi e contare nella comune definizione di un sistema educativo fondato sulla centralità della persona, sulla capacità di saper rispondere con coraggio e determinazione alle chiamate della società civile. Rimettersi a educare, far capire, parlare, raccontare, ascoltare la voce di un mondo giovanile represso dai contagi e dalle paure è importantissimo, per questo bisogna che tutti si rimettano a fare il proprio dovere, promuovendo fiducia e speranza, evitando che le energie si disperdano per strada e che diventino il motore sempre acceso di una comunità che vuole ripartire. La tecnologia può aiutare, giocare a calcio può scaricare le tensioni, ma non dobbiamo mai dimenticare che alla base di tutto c’è un esercizio educativo costante, quotidiano, fatto di mille cose, senza le quali ogni novità resta fine a se stessa.
MANZONI INSEGNA A LOTTARE PER CAMBIARE LA SOCIETA’
I Promessi Sposi sono stati definiti il primo, vero, grande romanzo storico della nuova Italia, fortemente impegnata nella sua ricerca di identità politica, storica, letteraria, umana, sociale e culturale. Un’Italia che prende coscienza di sé e che affida alla sua gente il prezioso messaggio dell’unità nazionale. Un nuovo mondo si raccoglie e si riconosce in una millenaria tradizione, evocata per dimostrare che l’aspirazione alla libertà è legittima e che il prezzo che si deve pagare rientra nella sfera dei doveri umani, gli unici in grado di restituire dignità a chi ne è stato privato. Il popolo manzoniano dei Promessi Sposi si muove in mezzo a mille difficoltà, ma si muove. Tra sopraffazioni, violenze, prevaricazioni, guerre, pestilenze e arroganze di ogni genere, il sentimento si fa strada, sorprende per la sua genuina freschezza e per la sua innata determinazione. C’è un aspetto del problema che merita un’attenta osservazione, perché ci introduce nel punto nevralgico della storia italiana, quello educativo e formativo. La pedagogia evocata dal grande scrittore lombardo, passando attraverso la storia e la letteratura, forma l’uomo nuovo, colui al quale viene affidato il compito pratico di costruirne l’identità. Pur in condizioni storiche del tutto diverse, non siamo molto distanti dalle necessità della società attuale, disorientata e confusa, incapace di fornire modelli affidabili, preda di diverse forme di schiavitù, una società che ha perso per strada la capacità di vivere i grandi ideali della storia. Dipendenza, strumentalizzazione e demagogia, falsità e ipocrisia, brama di possesso, ricerca del piacere fine a se stesso, esaltazione del successo, sono i demoni che caratterizzano una società decadente, che ha costruito forme di capitalismo esasperato, alimentando la frantumazione di quei valori che ci hanno permesso di essere amati e rispettati nel mondo. I Promessi Sposi indicano una via che potrebbe essere percorribile e che potrebbe fornire validi strumenti di riappropriazione e di rinascita morale, quella che si lega indissolubilmente ai grandi valori cristiani, gli unici in grado, forse, di sostanziare la ricchezza di un popolo geniale e costruttivo, portato in certi casi a estremizzare la propria libertà, fino a farla diventare un bene personale, facilmente addomesticabile. Ripartire significa giocarsi la credibilità con l’esempio, un prezzo molto alto da pagare, ma l’unico che possa restituire il senso della trasparenza e della moralità alle giovani generazioni, quelle più esposte alla decadenza. Ritrovare i valori cristiani non significa diventare schiavi della chiesa o peggio retrocedere su posizioni oscurantiste e medievaleggianti, ma capire che possono essere ancora oggi i pilastri sui quali ricostruire la nostra identità, la nostra storia personale, non finalizzata all’abito firmato acquistato in una boutique del centro, ma alla certezza e consapevolezza di scelte fondamentali per la vita dei singoli e della collettività. Padre Cristoforo e l’Innominato ci dimostrano chiaramente quanto sia labile la condizione umana e quanto sia bello riconquistarsi, ritrovando in vesti nuove un’ accettabile forma di vita, proiettata verso finalità degne di essere vissute. Il problema di Manzoni è proprio quello di dare un senso all’esistenza, di dimostrare che la vita è bella anche quando è destinata a lottare per affermarsi. In questo generale risveglio di coscienze sta l’opera dello scrittore lombardo, preoccupato di una unità che non sia soltanto delegata alla forza delle armi, ma alla convinzione di avere un’ identità e di affermarla per il bene del paese. Uno dei meriti del romanzo è stato quello di incarnare il nuovo attraverso l’opera intellettuale e morale dei suoi figli, proiettati al recupero della storia italiana. Nel mezzo di una grande confusione di popoli e di lingue, di leggi e di valori, Manzoni è riuscito a dimostrare che il cambiamento è sempre possibile, anche quando le condizioni politiche, istituzionali e culturali sembrano confermare il contrario. La garanzia della libertà di un paese nasce dalla consapevolezza che tutte le forze in campo debbano dare il loro contributo. Sul fronte dell’unità, nel romanzo, vediamo schierati gl’intellettuali e il popolo. Cultura popolare e cultura pedagogico letteraria s’incontrano per dare vita alla cultura della liberazione e della ricostruzione. Valori di civiltà si fondono insieme per formare le coscienze di un popolo che anela all’affrancamento dalla schiavitù materiale, morale, politica e militare. L’intuizione manzoniana è un grande insegnamento per la storia italiana attuale, dominata dalla frammentazione, dalla confusione, dalla preponderanza dell’interesse privato rispetto a quello pubblico. Viviamo in un sistema popolato da un associazionismo esasperato, che impedisce di vedere i problemi nella loro dimensione globale. L’effetto di questa frammentazione è l’ingovernabilità, la perdita graduale di quei valori che hanno fatto grande la storia del nostro paese. Ecco dunque l’insegnamento: partire dalla comune volontà che la svolta sia possibile soltanto se il popolo saprà riunire le sue risorse e i suoi talenti, mettendoli al servizio del paese. Superare una visione individualistica ed egoistica della storia, per concorrere a ricomporre pezzi di civiltà gettati in pasto ad un terribile vuoto esistenziale, potrebbe essere l’imperativo categorico del nostro tempo. Manzoni ci induce a riflettere sull’importanza dell’opera letteraria in un periodo di decadenza morale. Il richiamo alle origini, alla sensibilità umana e letteraria, al valore epico della poesia e del racconto, il desiderio di ritornare al pensiero come forma d’indagine e di rinnovamento, definisce la saggezza di un autore che scrive sfidando il pericolo per finalizzare la sua intelligenza e la sua opera alla costruzione dell’unità del paese. Lottare per la libertà e per la difesa di valori fondamentali come patria, vita, famiglia significa rendere una grande testimonianza di fede e di saggezza, amare svisceratamente la propria storia per rafforzare l’intesa con quella presente e quella futura. Viene da domandarsi cosa avrebbe pensato e fatto Manzoni di fronte ai grandi problemi del nostro tempo, in particolare a quelli legati alla giustizia, alla corruzione, alla inaffidabilità della politica, alla spregiudicatezza di un linguaggio che scade sistematicamente nell’offesa e nell’oltraggio, al tema di un’ immigrazione spesso disperata, privata di logiche organizzative comuni, lasciata spesso al caso o al volontario di turno. Certamente avrebbe dato fiato alla sua pedagogia della ricostruzione, mettendo in campo i valori di una Provvidenza che non abbandona mai chi la cerca per convertirsi e riconvertire. Avrebbe sicuramente lottato per difendere i più deboli, per dare voce a chi ne è stato privato. Un Manzoni di sicuro più rivoluzionario, meno ancorato alla conservazione dottrinale, più attento al sistema dell’educazione e a quello della formazione. Avrebbe sicuramente difeso una italianità più consapevole, più attenta ai problemi degli altri, meno rintanata nelle sue nicchie, nel suo perbenismo, nella realizzazione dell’interesse personale. Sarebbe stato un Manzoni prima maniera, meno cattolico e più laico, meno vincolato ai timori prudenziali della sua fede, più esposto sul fronte della riunificazione morale. Manzoni ci ha insegnato a non aver paura di coloro che attentano quotidianamente la nostra dignità e la nostra integrità. Lo avrebbe fatto anche oggi in nome di un’Italia libera da qualsiasi sorta d’iniquità.
IL VALORE UMANO DELLA PREGHIERA
La preghiera un freno? Un aiuto? Un conforto? Una risposta al dubbio? Una conferma? Un monito? Nella tradizione del cristianesimo popolare, quello professato dalla gente comune, la preghiera ha sempre avuto un ruolo fondamentale, un monito cui appellarsi al termine di una giornata e all’inizio di un’altra, il modo forse più semplice di creare una corrispondenza ideale e non solo con i misteri del mondo, con l’inquietudine esistenziale dell’uomo, i suoi timori e le sue paure, fino alla sua sublimazione nella quotidiana ricerca di Dio. C’è nella preghiera la parte più spirituale della natura umana, quella che crede, che non si accontenta, che vuole avere una relazione di fede costante con chi, di quel mondo che le gravita attorno, è formalmente il grande generatore. C’è nella forza umana della preghiera la continuità di un sentimento popolare vissuto nell’insegnamento di uomini di chiesa e di famiglie che hanno insegnato la possibilità di vivere un’altra condizione, più equilibrata, armonica, meno egoistica e approssimativa, più legata a un senso profondo e cristiano dell’esistenza. Nella maggior parte dei casi abbiamo dovuto impararla a memoria a catechismo, sotto l’attenta direzione morale di sacerdoti o insegnanti molto determinati. Un tempo davvero unico e incredibile, in cui l’educazione non era un optional, un fai date o una condizione arbitraria fondata sul prendere o lasciare, era un dovere morale per tutti. Il catechismo era strettamente collegato a quello familiare, la solennità dell’uno era sincronica a quella dell’altro, c’era un’attenzione reciproca, c’era sempre qualcuno a cui dovevi rendere conto, anche in presenza di un’assenza. Non esistevano forme interpretative o filosofiche o teologiche o nazional popolari che vantassero un primato, l’educazione era educazione uguale per tutti e il dovere veniva prima del resto. Nella pienezza di una naturale e commisurata corresponsabilità gli adulti e i giovani crescevano fermi nella quotidiana forza taumaturgica della preghiera, anche nei casi in cui perdeva la sua sostanza etica e morale, diventando routine quotidiana, lasciando così per strada quella solennità che le veniva ampiamente riconosciuta. Nelle famiglie, soprattutto la sera prima di coricarsi, ci si riuniva intorno al tavolo e si recitava il Rosario. Anche nelle forme meno esigenti e un pochino più arbitrarie, la mamma richiamava i figli al pensiero serale sulla vita, sulla necessità di amare, di fare bene, di avere sempre un’attenzione viva nei confronti di Dio, della Madonna e dei Santi. C’era insomma una cintura di sicurezza dalla quale era difficile poter uscire senza aver fatto fino in fondo il proprio dovere. Dunque la preghiera era anche un dovere. Eravamo ancora lontani dall’autorevolezza di natura strettamente teologica o filosofica, la paura di Dio formalmente fondata su una cultura clericale che informava la società post bellica, negarla significava non fare il proprio dovere, mancare di rispetto, esercitare una trasgressione. L’incidenza dell’educazione sentimentale, di quella religiosa e di quella familiare era molto forte, uscirne significava entrare in conflitto aperto con se stessi, con la famiglia, con la chiesa e con il mondo, erano molto pochi quelli che lo facevano senza subire contraccolpi di natura psicologica, sociale o morale. Nella vita delle persone la preghiera è stata comunque fondamentale, nella maggior parte dei casi è stata una terapia non solo per il raggiungimento della salute interiore o della santità, ma anche soltanto nella ritrovata pace morale e mentale. Pregare nel silenzio o nella solitudine, trovare un rapporto individuale con Dio o anche di natura corale ha favorito la possibilità di aprire porte e finestre all’idea che non di solo pane vivessero gli esseri umani. Non si prega solo per ottenere o per avere infatti, si prega anche per mantenere vivo un equilibrio, per rinsaldare un’armonia, per fare posto a quei pensieri positivi che allietano la vita, soprattutto quella quotidiana, fatta spesso di bisogni, necessità, di incertezze e di insicurezze. La preghiera aiuta, aiuta anche solo a pensare positivo, a iniziare una mattina o un cammino con lo spirito giusto, quello che inclina verso la forza intellettuale e quella morale. Che nella preghiera ci sia anche una poderosa forza intellettuale è accertato, se per intelletto immaginiamo la possibilità di essere coscienti dell’autorevolezza di quello che facciamo e del perché lo facciamo. Ci sono diversi tipi di preghiere, quelle che abbiamo ereditato dalla nostra tradizione di fede, legate alla figura di nostro Signore e quelle che ci siamo inventate per essere genuini e spontanei, per abbreviare umanamente quella distanza che intercorre tra la terra e il cielo. Entrambe sono un tesoretto di grande rilevanza, una porta sempre aperta per ridare ogni giorno un senso alla nostra vita, a quello che siamo e a quello che ci attende.
VALORIZZIAMO QUELLO CHE ABBIAMO, L’EDUCAZIONE E’ ANCHE QUESTO
Sembra così difficile valorizzare eppure è la chiave di lettura di molti dei fallimenti della condizione umana, una condizione sempre più rivolta verso il basso, incapace di lavorare con entusiasmo e determinazione su se stessa prima di tutto e poi su quella sua straordinaria vitalità creativa che l’ha resa famosa nel tempo. Ci si domanda spesso come mai un paese come l’Italia non si sappia voler bene, non si sappia apprezzare, stimare per quello che realmente è e per quello che realmente vale. Un atavico complesso d’inferiorità? L’idea che essere intelligenti sia una colpa? Il fatto di non sentirsi sufficientemente sicura per dimostrare tutto il suo valore in ogni campo del sapere teorico e pratico? E’ possibile che il paese di Dante Alighieri, di Leonardo da Vinci, di Raffaello e di Brunelleschi, di Manzoni e di Leopardi non sia più capace di recitare una parte di primo piano, mettendo a disposizione del nuovo mondo tutta la sua ricchezza artistica, filosofica e morale, sostituendola a quel terribile marchio di una delinquenza organizzata che la fa sfigurare in tutte le parti del mondo? Come mai una nazione amata, stimata e benvoluta non è capace di scrollarsi di dosso quei mali che vorrebbero distruggerla, brandendo con energia, forza ed entusiasmo quella volontà di fondo che le consente di concorrere alla pari con le più blasonate democrazie internazionali. Come mai resta vittima predestinata di una democrazia che di veramente democratico non ha più nulla o quasi, se non la vergogna che prova ogni qualvolta il potere del malaffare la vorrebbe condizionare al punto di impedirle il sacro esercizio delle proprie qualità storiche,costituzionali e morali? Eppure una via d’uscita ci sarebbe e cioè quella di ricostruire una democrazia vera, ferma, decisa, capace di imporsi senta tentennamenti, con la convinzione di essere una fondamentale conquista storica, dentro la quale non c’è posto per chi coltiva propositi di sistemica depredazione? Dov’è la filosofia dantesca, la sua capacità di saper distinguere il bene dal male, la sua fermezza decisionale nella condanna del male e nella premiazione del bene. Dove risiede la meritocrazia dantesca se non nell’aver insegnato all’uomo, a tutti gli uomini indistintamente, che il bene porta verso il paradiso e il male condanna l’uomo alle fiamme dell’inferno? E’ davvero straordinariamente bella la sua rivalutazione della conoscenza come liberazione dall’ignoranza. Ecco dove sta il merito, nel riconoscere una volontà quando si fa analisi introspettiva, quando si confessa, s’interroga, offre una speranza, una via d’uscita per rimettere la vita con le sue bellezze al centro della storia umana. E qual è il merito di Giacomo Leopardi, se non di aver insegnato all’umanità la via della redenzione attraverso la musicalità del verso poetico? L’Italia è stata e continua a essere un grandissimo patrimonio elettivo di valorizzazione artistica, ma soprattutto umana, raccolta tra le pagine di una storia dominata sempre da una sottile, ma decisa impronta pedagogica, attraverso la quale si legge lo spirito di un paese che nella nuova visione del mondo e delle cose piazza sempre una piattaforma educativa sulla quale e con la quale misurarsi sempre, soprattutto quando i cambiamenti arrivano improvvisi e rischiano di sorprendere e di annientare. Sull’onda del merito leopardiano ancora oggi cerchiamo nella poesia quello spazio spirituale che un materialismo gretto e inetto vorrebbe annientare, per lasciare il via libera alle multinazionali del malessere, ai venditori di morte, agli sfruttatori delle povertà altrui, ai millantatori di verità. E’ anche attraverso la poesia che ci riappropriamo della nostra anima, della nostra libertà interiore, della nostra voglia di volare verso orizzonti più puliti, dove sia ancora possibile respirare la bellezza di un’identità perduta tra le illusioni di chi vorrebbe farci apparire un mondo che non esiste o che esiste spogliato della sua umanità. Se non partiamo da una condivisa piattaforma educativa, difficilmente riusciremo a raccordare la struggente bellezza della nostra storia, riabilitando il valore di tutto ciò che abbia salvato e ricostruito, ma senza la presunzione di esserne i padroni, bensì con l’attenzione e il garbo di chi non vuole che si perda per strada tutto ciò che di buono è stato fatto, riconsegnando all’Italia i suoi meriti e le sue convinzioni. Oggi si valorizza pochissimo, prevalgono antagonismo e arroganza, invidia ed egoismo, si opera più sulla base di interessi personali o di gruppo che non in nome di un grande paese mediterraneo ed europeo contemporaneamente. In un mondo in cui il dio denaro sembra essere diventato dominante nelle relazioni umane, gli uomini si attendono valori di ben altra natura, valori che hanno imparato a conoscere quando la ricchezza era pochissima e la povertà moltissima. Ma quanta riconoscenza, quanto amore, quanta meritocrazia c’era nella volontà umana, nella sua voglie di essere al servizio di tutti, perché tutti ne potessero attingere, quando nelle corti di campagna si respirava l’aria di un paese povero ma unito, capace di riannodare, di collaborare, di unire, anche quando i punti di vista erano diversi, ma l’obiettivo era uno solo: salvare il paese dalle prevaricazioni altrui. Quanto amore per la campagna, quanta attenzione e quanti sacrifici per una vendemmia o per una trebbiatura, quanta trepidazione per una raccolta, quante speranze e quanti racconti strappati a una semplice società protesa alla speranza. Quel paese è cresciuto, ha lasciato che la sua intelligenza si ampliasse e si realizzasse, ha concesso che lo sforzo fosse unanime, che la gente potesse sentirsi fiera per il contributo dato, salvo poi prendere atto che non sempre a un esagerato benessere corrisponda una cosciente acquisizione di fatti e risultati. I mali del benessere in molti casi sono peggiori di quelli che l’hanno preceduto, sono mali morali, che riguardano l’intimo, che si fanno strada tra il cuore, la mente e l’anima, mettendo letteralmente a soqquadro un modo di essere e di pensare, un livello esistenziale, creando un mare di interrogativi ai quali non è sempre facile concedere una risposta. In questi anni di mancanza di valorizzazione, dove spesso la conquista è diventata un fatto del tutto personale o di gruppo, assistiamo a una concorrenza spietata, dove spesso a un amabile confronto si sostituisce una radicata volontà di sopraffare l’avversario e dove l’impegno comune rischia sempre di più di diventare strumento divisivo nella mani di persone che hanno perso di vista il senso e la finalità ultima del servizio. Dare spazio alla meritocrazia non significa mandare avanti i più bravi, significa sottolineare con gesto semplici e semplici parola la voglia di fare, quel senso del dovere che ogni tanto ha bisogno di sentirsi amato e protetto, perché non è sempre facile coltivare quando i terreni sono minati e i rischi si saltare in aria da un momento all’altro sono reali. Eppure la meritocrazia ha una sua valenza pedagogica ed educazionale, perché offre la certezza che quello che fai ha comunque un valore che, se portato avanti con intelligenza e determinazione, merita un incoraggiamento, una generosa pacca sulla spalla. Ci sono persone, grandi o piccole che siano, che grazie a un semplice riconoscimento, hanno dato la vita, l’hanno spesa interamente per ciò in cui credevano, anche nell’obbedienza, nella rinuncia, nella fede, nella fedeltà, nelle certezza di dimostrare quanto sia importante sapere che gli altri ti vogliono bene per quello che sei, per quello che fai e per quello che vali. Nella democrazia degli accesi antagonismi, dove i valori sono spesso personalizzati, vincolati a interessi di natura individuale, si fa sempre più fatica ricreare, ricostruire, ridare un senso a cose che sembravano acquisite da tempo. Ci si trova spesso spiazzati da comportamenti privati della loro fedeltà storica, della loro autenticità, messi in campo da chi inneggiando alla democrazia la tratta poi come una serva o una prostituta da usare in tutte le salse. La democrazia nasce da una volontà popolare e come tale ha il sacrosanto dovere di essere concreta nella sua generosa attuazione, non può essere una cosa per gli uni e un’altra per altri, le regole, quando sono regole scritte e comprovate, valgono per tutti, nessuno escluso. Dire che la democrazia è figlia di una universale volontà educativa significa attribuirle il grande valore che le spetta, quella di essere garantista, legittimista, ma anche decisionista, capace quindi di confermare o annullare, ma sempre in sintonia con il battito di quella volontà comune di cui è figlia. Oggi ne abbiamo un gran bisogno, ma perché ciò avvenga si rende necessario che a promuoverla e a conservarla ci siano persone molto preparate, con una grande visione storica, capaci di capire e intuire quali siano le domande e quali debbano essere le risposte. Non basta sbandierare regole scritte in epoche passate, bisogna dimostrare con i in fatti che il passato ha ancora un valore di tipo propulsivo e propositivo, sia ancora in grado di conservare, proteggere e innovare, senza la paura di sentirsi tradito. Cambiano le società, il tempo corre via veloce, l’intelligenza creativa coltiva i suoi simboli e le sue passioni, resta comunque tutta quella stupenda parte interiore dell’umanità che ha bisogno di sentirsi alimentata, oltre i sogni e le illusioni di chi vorrebbe, in nome di un non ben definito potere, cancellare ogni forma di libertà. Che cosa ha l’Italia di così importante da valorizzare? Tantissimo, ma soprattutto ha una storia millenaria che si lega alla sua bellezza, alle cose che ha saputo creare, alla sua genialità e a tutto quello che ha insegnato, alla sua intelligenza, all’amore per l’arte in tutte le sue componenti e sfumature, alla sua capacità di valorizzate un territorio baciato da una particolarissima generosità creativa. C’è solo un piccolo problema che chiede giustizia e cioè quello di cominciare a ragionare da nazione, da popolo, da civiltà, convinta che i valori, quando sono così grandi, meritano di essere valorizzati sempre, soprattutto quando i concorrenti si dichiarano formalmente riconoscenti, salvo poi prendere le distanze quando il paese ha un bisogno estremo di aiuto. In questi momenti di drammatica lotta contro il Covid 19 quel mondo che doveva essere solidale nella sua totalità si comporta con diffidenza, come se l’Italia non fosse parte fondamentale di quell’Europa che, senza il nostro paese, sarebbe ostaggio di un freddo struggente in quasi tutte le stagioni dell’anno, senza la possibilità di vivere almeno una volta nella vita la bontà del cibo italiano, la generosa bellezza dei suoi mari e delle sue colline, l’ospitalità della sua gente, una gente che deve spesso lottare contro l’ingratitudine e contro la noncuranza di chi non ha sufficientemente a cuore l’ospitalità del paese. Per tutte queste ragioni e per mille altre il nostro paese deve essere valorizzato, fatto uscire con somma attenzione da una condizione di prigionia procrastinata nel tempo, che crea un oceano di frustrazioni e di privazioni.