Fra i mille personaggi inventati da Gianni Rodari, molti hanno le caratteristiche di Giulio Bianchi, cameriere gaviratese, già appartenente nel primo conflitto mondiale al Reggimento Savoia Cavalleria, che lui conobbe da bambino e che ebbe modo di frequentare anche quando abitava già a Roma. Una lettera preziosa e autografa, messa a disposizione dal figlio Gianluigi, che lo scrittore gli inviò il 15 dicembre 1959, in occasione della morte del padre, ci svela un aspetto dell’autore estremamente delicato e riconoscente che, senza dubbio, sarà stato motivo di ispirazione: quelle sue qualità che con grande commozione ricordò alla moglie Iolanda e allo stesso figlio sono quelle dei suoi personaggi portatori di bene che popolano le sue opere. Pare di vivere il momento in cui in casa Rodari dove Gianni vive con la moglie Maria Teresa, la figlia Paoletta e la mamma Lena (Maddalena Aricocchi), (in anni, dirà lui, non proprio sereni) si sente bussare alla porta: è Giulio, zio dell’amico Nino, morto nell’affondamento del sommergibile Calipso nelle acque del Mediterraneo durante i primi giorni della seconda guerra mondiale. Una ferita per Gianni mai rimarginata. La visita, quindi, gli è doppiamente cara. “Giulio era per me molto più che un amico –scrive- e io sapevo quanto fosse delicato e generoso, nella sua esuberanza che tanti potevano scambiare per superficialità. Io e Maria Teresa non dimenticheremo mai, mai, le visite che Giulio ci faceva, la domenica e ogni volta che era libero, quando era a Roma. Noi passavamo momenti tristi e difficili, e il suo arrivo era come un soffio di vento: con la sua cordialità e allegria ci rimetteva in piedi. Anche quando si vedeva che era stanco e affaticato, negava sempre, nascondeva stanchezza e pensieri per far coraggio a noi. E quanta premura, quanta tenerezza per la nostra Paoletta, per mia moglie. Quanta gentilezza per la mia vecchia mamma. (ndr. Ma come si fa a non dire che Giulio non è una figura rodariana?). Per me dapprincipio, Giulio era soprattutto il povero Nino, i ricordi della nostra fanciullezza e della nostra giovinezza. Ma ben presto cominciai a desiderare le sue visite: e pensare che lui aveva sempre “paura di disturbare”. Ma io sono certo che sentì la nostra amicizia e quanto era preziosa per noi. Non l’ho mai visto scoraggiato”. Bellissima la descrizione che Rodari fa del nipote Nino, ne “La Grammatica della fantasia”; capace di “cavare dal suo modesto violino, un suono, disse il professore, degno di Vivaldi. Nino. Matto. Mezzo matto. Il solo vestito di nero nelle balere del Varesotto. Unico suonatore di mandolino e studioso di elettronica capace di cacciare dal letto la nonna, la mamma, lo zio per farvi dormire amici, dopo un pasto notturno d’insalata e biscotti al burro”. E’ un Gianni Rodari intimo quello che si scopre dalle lettere: in una non datata, ma chiaramente scritta negli anni Cinquanta al fratello Cesare sottolinea che per la mamma è arrivata una ospite poco gradita, la vecchiaia e “gli anni le cadono addosso quasi di colpo”. C’è poi il saluto agli amici, figure a cui si sarà senz’altro ispirato come debito di riconoscenza morale: “Il mio lavoro procede caoticamente, non ho il tempo di alzare la testa – scrive- Vorrei scrivere a Delio (Gamberoni), al Cech (Francesco Furega), a tutti gli amici. Vuoi mostrargli questa lettera come un saluto collettivo? – chiede al fratello- Comprendendovi, ben s’intende, il Negher (Giuseppe Gerosa), il Carlo De Bernardi, la sua famiglia e anche quel bel lettino dove ho dormito durante la campagna elettorale, risentendomi per una volta gaviratese e anzi fignanese”.
Federica Lucchini