Un “Cristo serenamente dolente”, acquistato non come oggetto di fede, ma per quella sua espressione che contrastava con il fanatismo di chi lo aveva condannato alla croce. Un lascito particolare, discreto, ma significativo, ben visibile nella chiesa di san Celso: incarna la filosofia di vita del donatore che ha vissuto sulla sua pelle le intolleranze, fin da giovane, lasciata la nativa Zara come profugo nel dopoguerra. E anche più tardi dal 1983, quando fu il primo giornalista italiano sulle pagine del mensile di “Storia illustrata” a raccontare la tragedia delle foibe. Antonio Pitamitz (1936-2022) era affezionato, nonostante il suo agnosticismo, a quella antica scultura lignea, acquistata da un antiquario a Zagabria nel 1992, durante uno dei suoi viaggi per approfondire il tema-cardine del suo lavoro, la Jugoslavia di Tito. Lo aveva seguito in tutto il suo peregrinare come quegli oggetti di cui si ha estrema cura, ma si pronti a donare quando si intravede un futuro consono alla loro natura. A Comerio, sua ultima residenza, incontrò il giornalista Paolo Costa, suo amico, e un gruppo di credenti. Comprese che affidato a loro avrebbe avuto una collocazione degna del suo significato e lo donò. Era il 23 gennaio 2014. Da allora il Cristo senza croce, di origine boema databile fra fine Settecento e Ottocento e creato per essere esposto su un pulpito, ha trovato una nicchia adeguata dove emanare la sua serena sofferenza.
Fu il primo a scrivere che dentro quei grandi inghiottitoi naturali, ci finirono fascisti, innocenti e partigiani che non condividevano la linea filo-jugoslava sposata da Palmiro Togliatti. Fu lui che raccontò la vicenda di Norma Cossetto, divenuta la figura emblema delle crudeltà dei titini nell’ottobre 1943. La sinistra non glielo perdonò e anche all’interno della redazione del suo stesso mensile fu isolato. “Eppure -continua Giannantoni- divenne il faro culturale di questa grande tragedia. Era un uomo difficile, segnato dall’esilio, dalla fame, dalla solitudine, ma di una forza etica straordinaria”.
Lo si vedeva camminare, ultimamente con passo incerto nel breve tratto di strada che da casa sua a Comerio conduce all’edicola. Incuteva rispetto. Aveva uno sguardo che andava oltre. Quando l’anno scorso ebbi il privilegio di leggere le uniche copie che gli erano rimaste dell’inchiesta sulle foibe, capii che cosa gli era costata: trasudava precisione e sofferenza. Quella intima, che giunge dai recessi dell’anima e non ha parole: me lo disse con uno sguardo che la penna difficilmente sa rendere. “Tutte le volte che ebbi occasione di parlare e lavorare con lui ho sempre ricevuto degli stimoli intellettuali di grande levatura che andavano al di là dello storico raffinato” spiega il fotografo Carlo Meazza. Lo ricorda, in occasione di una intervista a Trieste a un ex prigioniero di Tito, affrontare due spie jugoslave. Poche parole secche a cui seguì il loro allontanamento. A conclusione di queste righe il ricordo pieno d’affetto dei figli Vera e Sergio: quel ticchettio della Olivetti lettera 32 alla sera che loro sentivano prima di addormentarsi. Il papà stava ultimando il suo lavoro di inviato.
Federica Lucchini