Spicca in questi giorni fra le quaranta donazioni inedite, antiche e recenti, esposte nella mostra, intitolata “Riscoperte”, allestita all’interno della Fondazione Culturale San Fedele di via Hoepli, un “Calvario” in gesso di grandi dimensioni (cm. 77 x 225,5 x 3,5), realizzato nel 1977 dallo scultore Vittorio Tavernari (1919-1987). Interessante conoscere la sua storia, legata alla nostra terra: infatti, ha avuto origine in quella fucina di arte che è stata la casa studio di Barasso dove l’artista lavorava e riceveva gli amici. Queste sono pagine di ricordi che danno il senso della vivacità culturale di quel luogo, all’apparenza solitario, situato alle pendici del Campo dei Fiori. L’artista con il suo camice bianco e la mascherina qui era dedito alla creazione delle opere, in questi grandi spazi dominati da vetrate, dove anche i tronchi di iroko, dal legno particolarmente duro, provenienti dalle foreste africane, che lui amava scolpire e che avrebbero affrontato le intemperie, se collocati all’esterno, trovavano la loro giusta collocazione. Qui era pronto la sera a ricevere gli amici fra cui Piero Chiara, con il quale aveva trascorso il periodo del militare, Mimise e Renato Guttuso. Un cenacolo di artisti fra loro amici che ascoltavano musica attorno al camino quando Piera Regazzoni, la moglie di Tavernari, si esibiva con il violino, da sola o accompagnata da altri musicisti. Si fumava, si beveva whisky, si discuteva e si seguivano i programmi televisivi di box di cui Guttuso era appassionato. “Dovresti venire per sei mesi all’anno a Roma o andare a Parigi!”, era lo stimolo del pittore siciliano. “Ma mio padre -ricorda Carla- che a Roma era stato e non amava la mondanità diceva: “Questo è il mio mondo. Qui, lavoro bene”. I coniugi Guttuso erano molto generosi: io allora ero bambina e amavo ballare. Di ritorno da un viaggio dalla Spagna mi donarono le nacchere. Andavano a Parigi a incontrare Picasso di cui erano amici”. Come segno della profonda conoscenza dell’arte di Tavernari, Chiara aveva scritto per una sua mostra sui “Calvari”, allestita nel 1966 nella stessa galleria San Fedele: “Nel suo “Calvario” ha inteso il grande dramma non come il sacrificio di un Dio, ma come una sorte comune che coinvolge il giusto e l’empio, cioè tutto l’uomo, tutta l’umanità. Una rappresentazione di tanta assolutezza è raccolta in un breve impasto di materia, è condensata in pochi tratti e semplici profili, dentro quel limite che l’Arte assegna a chi la intende senza delimitazioni e come semplice legge di verità”. Il gesso, esposto fino al 17 dicembre nella mostra attuale, curata da padre Andrea Dell’Asta, dal 1991 fino al 2015, era custodito in comodato presso il comune di Barasso, dove è possibile ammirare altre opere dell’artista. Per desiderio dei figli, Carla e Giovanni, è stato donato al Centro San Fedele per ricordare l’amicizia dei genitori con i padri gesuiti Arcangelo Fàvaro, Giuseppe Pirola e per contribuire all’arricchimento della raccolta.
Federica Lucchini