Nessuno può scordare che l’emigrazione fu un fenomeno terribilmente serio e, sul quale, potrebbe essere di cattivo gusto scherzare.
L’aneddotica popolare ha però eseguito un’operazione per certi versi strana. Essa ha voluto cancellare dalla memoria molte delle pagine tristi relative a questo tema e ci ha tramandato storie perlopiù divertenti. Succede un po’ la stessa cosa anche in alcune situazioni della vita: quando superiamo un momento difficile siamo disposti a riparlarne scherzandoci sopra volentieri, forti soprattutto del fatto che la situazione è ormai superata e forse non si ripeterà più.
Storie di emigrazione (in quel di Caldana)
Un nostro emigrato, un certo Fedele, (un nome che è tutto un programma) tornò per convolare a giuste nozze con la fidanzata che, il giorno della partenza, aveva lasciato in lacrime. Tuttavia la lontananza, come si sa, gioca brutti scherzi e questa, nel frattempo, si innamorò di un altro; quando seppe del rientro, tagliò la corda e andò a nascondersi per un certo periodo da una zia di Olginasio. Il nostro povero Fedele restò ammutolito: oltre al dispiacere per la cosa in sé, si vergognava al pensiero di tornare in Francia senza la promessa sposa; lo smacco di fronte ai compagni di lavoro sarebbe stato troppo cocente e, allora, si rivolse ad un marussee (sensale).
“Vöreria töo miee” – chiese il Fedele.
“Lassa faa de mi” – rispose il marussee.
“Si, ma gho de faa isvelt parchè de chi e du dì me scaad ul bigliet de ritorno” – replicò il Fedele.
Il sensale non perse tempo e formulò la sua proposta: “Go ‘ne tosa che va ben par ti. Anzi ghe n’ho do. In do surel de Urin che vurerien met su cà. Te podet catà fö“.
Due giorni dopo, il nostro eroe e la sua bella (si fa per dire) erano sul treno per la Francia.
Di loro si seppe che si sposarono a Besançon e poi non si seppe più nulla.
La voglia di espatriare era dettata da una effettiva necessità; le risorse locali non erano infatti sufficienti a mantenere un tenore di vita decoroso. Se si voleva allontanare lo spettro di una vita fatta solo di miserie, bisognava partire.
Attratto da queste prospettive partì anche un certo Angelo De Maddalena e andò a fare il muratore in Sguizera. Mentre tutti gli emigrati risparmiavano la quasi totalità dei guadagni per inviarli a casa, il nostro Angelo impegnava i suoi guadagni in ardite operazioni commerciali con l’Italia. Ma non ne azzeccava una: arrivava a comperare partite di profumi o casse di saponi non appena avevano raggiunto il prezzo massimo, per poi rivenderle quando il prezzo toccava il fondo!
Per questa caratteristica non poté sfuggire alla pungente ironia dei suoi compagni emigrati i quali non persero occasione per affibbiargli un meritato soprannome. Lo chiamarono
Salam. Lui soffriva molto questo appellativo e non voleva che alcuno lo pronunciasse.
Lo infastidiva a tal punto che nemmeno lui osava pronunciare quell’infamante parola; quando andava a comperare il cibo per il pranzo ordinava “du ghei de pan, du ghei de vin e un eto de chel rop”. Il negoziante capiva al volo.
Caro Salam, non offenderti (se mai ci si possa offendere ancora, lì dove sei), ma la tradizione orale è spesso pettegola e ci ha voluto, bonariamente, tramandare anche la tua storia.
L’ultima vicenda di emigrazione che voglio raccontare contiene degli elementi perfino storicamente rilevanti. Descrive, infatti, il primo caso di sciopero nella storia di Caldana.
Siamo nella Francia centrale. Era successo che alcuni emigrati caldanesi, in seguito alla lunga astinenza matrimoniale, si erano concessi una notte d’amore con un paio di sgualdrine di Francia. La circostanza non era del tutto inusuale tra coloro che prendevano la strada dell’emigrazione tanto che, nei periodi che precedevano le grandi partenze, il parroco teneva frequenti sermoni su questo tema. Egli temeva che le mutate condizioni dell’ambiente potessero indurre i poveri emigrati a cadere in quelli che erano considerati i due grandi pericoli di quel tempo: le idee socialiste e le gambe delle donne.
Si legge nel Cronicus Parrocchiale della Parrocchia di Carnisio che “se da un lato l’emigrazione porta discrete somme di denaro, dall’altro porta un indebolimento nel sentimento religioso e morale e aumenta il pericolo dell’infatuazione socialista etc..etc..”. Quella notte, quindi, non era accaduto un avvenimento del tutto straordinario, ma la vicenda ebbe una coda fra il patetico ed il divertente. Uno di quei mariti birichini dovette ritornare in Italia e, in un momento di sconforto e pentimento, decise di confessare tutto a Don Leone.
(In quei tempi a Caldana c’erano ben tre sacerdoti: Don Magni, Don Leone e Don Mezzera!). Quando Don Leone seppe della scappatella in terra di Francia si incollerì talmente tanto che ne parlò nella messa domenicale, in barba a tutti i segreti confessionali.
Per via dell’abito che indossava fu costretto ad usare un certo riserbo, ma tutti capirono tutto. Capirono molto bene anche le mogli di quegli sventurati. Queste si incontrarono tra di loro ed escogitarono un piano per dare una lezione esemplare ai mariti. Se si erano comportati con leggerezza, se avevano voluto concedersi quegli stravizi. era giusto che ora pagassero. “Ghe famm passaa nunch i scalman!” (Gli facciamo passare noi i bollori!). Strinsero un patto d’acciaio e, quando i mariti fossero rientrati in Italia, decisero tutte insieme di negare loro il debito coniugale. Decisero cioè di incrociare le gambe e misero in atto, in tal modo, per la prima volta nella storia di Caldana, uno sciopero vero e proprio.
O meglio: una serrata.
Queste storie della tradizione caldanese (e tutte quelle che da sempre vado divulgando) mi sono state raccontate dal signor Franco De Maddalena il quale, grazie ad una straordinaria memoria, in parte dovuta a una sopraggiunta cecità, ha saputo trasmettermi una ricca aneddotica circa le vicende del mio paese.