STORICI DUALISMI 11
ENRIQUE OMAR SIVORI/DIEGO ARMANDO MARADONA
di felice magnani
Due campioni, per quanto simili, non saranno mai uguali, la differenza è in mille cose: nel dna, nel tipo di cervello, nel coordinamento, nella predisposizione, nel tipo di piede e nel come lo usi, nel carattere, nel tipo di personalità, nel fisico, nella volontà, in quello che si vede e in quello che non si vede. Campioni si nasce o si diventa? Se la risposta sta nell’unicità della tipologia, allora è semplicissima: Sivori e Maradona sono nati con un destino segnato, essere grandi nel mondo del calcio. Quando ti soffermi a osservare un calciatore o un aspirante, se hai un minimo di sensibilità ti rendi subito conto di che tipo hai o avrai di fronte, non ci vuole molto capirlo. Il rapporto con la palla all’inizio e con il pallone subito dopo è già stato determinato da qualcosa di misterioso che sovrintende la vita, il suo modo di essere, la sua immagine, il suo valore, il suo significato, capisci che quello stile e quel modo di essere sono davvero unici, soprattutto se si tratta di due mancini, due campioni che avevano l’arma vincente nel piede sinistro, nella parte sinistra della sfera cerebrale. Di solito i grandi campioni giocano bene sia col destro che col sinistro, ma quando ne incontri due come Enrique Omar e come Diego Armando ti rendi conto che due così, nell’arco di settant’anni, non li avresti trovati nemmeno col lanternino. Qualcosa di comune hanno avuto: uno stile unico, inimitabile, elegante, brillante, straordinariamente fantasioso, uno stile da palcoscenico, sì ma del tipo Metropolitan di New York. Chi ha avuto la fortuna di vederli giocare entrambi per molti anni, qualcosa di veramente fondamentale lo ha capito e cioè che i fuoriclasse sono nati fuoriclasse e lo sono rimasti sempre, fino a quando hanno deciso di appendere le scarpe al chiodo. Enrique Omar e Diego Armando, due argentini che hanno spopolato, lasciando il mondo con il fiato sospeso in epoche molto diverse, l’uno protagonista degli anni cinquanta – sessanta e l’alto degli anni settanta – ottanta, due fantasisti del calcio, capaci di incantare le platee di tutti gli stadi, capaci di inventare e di creare al momento, con quella rapidità d’esecuzione che esclude ogni possibilità di previsione. Con loro due era molto difficile prevedere quale fosse la giocata, quindi assolutamente imprevedibili. I difensori con loro due diventavano matti, le strategie contavano pochissimo, dovevi essere molto fortunato o sapere in anticipo che quel giorno non avevano energie sufficienti per esibirsi a grandi livelli. Omar era un giocoliere nato, uno che era capacissimo di farti annusare temporaneamente il pallone per poi farlo sparire all’improvviso, lasciandoti con un palmo di naso e senza la capacità di capire come avesse potuto. A volte dovevi lasciare spazio all’immaginazione, lasciare che fosse il pensiero a suggerirti il tipo di combinazione e la direzione presa. Omar era il tipo che era capace di portarsi a spasso tre, quattro giocatori, senza permettere loro di toccare la palla, poi arrivava davanti al portiere, lo invitava a uscire da una parte e lo infilava dall’altra. Cose dell’altro mondo. Con la Juventus ha vinto tutto e tanto, insieme al gallese John Charles ha formato una coppia d’attacco perfetta, impostata sull’acume intellettuale di Giampiero Boniperti, il giocatore che cuciva i rapporti, li consolidava e li potenziava, fino a farli diventare perfetti come le lancette di un orologio svizzero e in alcuni casi sostituendosi ai due fenomeni per mettere in difficoltà l’avversario. L’avvocato Agnelli lo amava, anche se ogni tanto el gran Zurdo gli creava qualche problema di troppo sul piano disciplinare, sul campo. El cabezon aveva infatti un “caratteraccio”, era sempre molto nervoso, teso, ma lo si poteva anche capire, perché gli avversari dato che non riuscivano a fermarlo gli spaccavano le gambe, era quasi sempre per terra. Le sue lotte con i diretti avversari sono passate alla storia, soprattutto quelle con Ferrini del Torino e con Panzanato del Napoli sul terreno del san Paolo. Come i suoi amici argentini, definiti il trio dalla faccia sporca, era bravissimo, unico, ma guai se qualcuno ardiva a mancargli di rispetto, avrebbe potuto fare di tutto, proprio come fece con Helenio Herrera, il grande allenatore dell’Inter che ebbe l’ardire di qualche sottolineatura di troppo dentro e fuori dal campo, dove spesso gli antagonismi un po’ gonfiati rischiano di creare il tempo e lo spazio per risse di ogni tipo. Con la Juve ha vinto tutto quello che poteva vincere, persino il pallone d’oro nel 1961, è stato il vero pilastro della vecchia Signora, ma è stato anche il fantasista che ha fatto capire che oltre le pianificazioni e le strategie bisognava avere i numeri per cambiare il volto di una squadra e di una città che credeva nello sport. Finita la carriera ne ha iniziata una nuova come allenatore, nel frattempo nasceva e cresceva il nuovo astro del calcio argentino e di quello mondiale, un mancino dalle doti straordinarie, con un livello di fantasia pari a quello di Omar, ma con una velocità di esecuzione che non faceva vedere la palla all’avversario. Intuitivo, attentissimo, perfezionista al limite, abilissimo palleggiatore e inventore, capace sempre di sorprendere anche il difensore più agguerrito. Per Napoli e per l’Italia intera vederlo giocare è stato un lusso, un lusso che succede molto di rado e in circostanze particolarissime. Meno elaborato sul piano della fantasia personale rispetto a Omar, era ineguagliabile nella capacità di pianificare in frazioni di secondo quale fosse la strada più adatta per fregare l’avversario e arrivare in prossimità della rete. In questo era davvero un missile. Le sue giocate erano sulle frazioni di secondi, se lo perdevi di vista anche solo un attimo lui faceva gol, ma non potevi minimamente immaginare in che modo. Con il Napoli grandissime stagioni, con vittorie su tutti i fronti. Napoli con Maradona è rinata, è entrata a far parte del gotha mondiale del calcio, ha vissuto grandi momenti di passione e di entusiasmo, perché Diego Armando, el pibe de oro, era capace d’incantare, dava al gioco del calcio una parvenza radicalmente diversa da quella praticata dal mondo tradizionale, dimostrava che la differenza la facevano i fuoriclasse, quelli che oltre ai doni di madre natura, avevano ricevuto la non facile eredità di appassionare il pubblico, cambiandogli in meglio la vita. Il processo d’immedesimazione di Napoli con Maradona è stato assoluto, la gente si è sentita rappresentata, ha visto in quel piccolo funambolo argentino la freccia che sapeva arrivare fino in fondo al cuore della gente, entusiasmandola. Anche Diego come Omar era un tipetto da non sottovalutare, uno che sapeva farsi rispettare soprattutto sul piano del gioco e con la forza di una classe immensa. Forse meno rissoso di Omar, più vincolato all’idea di essere riuscito a interpretare nel modo giusto la volontà popolare napoletana, quella per cui si esibiva in giocate da mille e una notte. Quello di Enrique Omar e quello di Diego Armando è stato il calcio dei fuoriclasse unici, nati e cresciuti per far sussultare gli stadi di tutto il mondo, per dimostrare che oltre le regole e le strategie, la differenza la fa soprattutto la classe che porti in campo, quella che non ha eguali, perché è davvero unica. Due mancini abilissimi anche di destro, ma con uno stile, un’eleganza e una rapidità di esecuzione che lasciava interdetti gli avversari e migliorava lo stato di salute mentale della gente che li aspettava la domenica negli stadi d’Italia, d’Europa e del mondo. Fortissimi nelle squadre di club, nelle rispettive nazionali, hanno lasciato un ricordo indelebile nel cuore di chi il calcio lo ha amato e continua ad amarlo davvero nella sua essenza, che s’identifica con quella bravura che non ha bisogno di strategie per attivarsi, quel calcio genuino, un po’ all’antica, fatto di tanto impegno e di tanta bravura, di voglia di vincere, di fare bella figura e di far divertire la gente.