STORICI DUALISMI 10 MERCK/GIMONDI di felice magnani
Eddy Merck e Felice Gimondi due campionissimi che hanno dominato la storia del ciclismo dalla seconda metà degli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta. Un belga e un bergamasco di Sedrina, due giovani dotati di un gran fisico, con una gran voglia di correre e di vincere. Due atleti di poche parole, ma con un rarissimo potenziale esplosivo nelle gambe e nel cervello, due campioni che non si sono mai tirati indietro, ma che hanno onorato al massimo la bellezza dello sport fino alla fine di una carriera splendida, coronata da una serie infinita di vittorie importanti. Quando due campioni s’incontrano, è inevitabile che la sfida si accenda fino ad assumere i toni della leggenda, così è stato per Felice e per Eddy. Cosa avrebbe vinto Gimondi se non ci fosse stato Merck? Probabilmente tutto e non solo, era infatti l’unico che nel massimo splendore del “cannibale” gli poteva tener testa e batterlo se necessario, anche se la diabolica continuità del belga sarebbe stata insostenibile per chiunque, c’è persino chi sosteneva che il grande Eddy avrebbe battuto anche Coppi, Bartali e via via tutti quei bravissimi campioni come Armstrong, Lemond, Hinault, Indurain e company, che hanno monopolizzato per anni Giro e Tour. Una cosa è certa, la continuità vincente di Eddy è stata unica, irripetibile, straordinaria, difficilmente eguagliabile da parte di chiunque. Vincere per cinquecentoventicinque volte, vincere cinque Tour, cinque Giri d’Italia, una Vuelta a Espana, tre Campionati del mondo da professionista e uno da dilettante, quattro Milano Sanremo, tre Parigi Roubaix e poi un’infinità di altre corse è veramente qualcosa che va oltre l’immaginario sportivo, è qualcosa che entra nelle leggenda e nel mito, qualcosa di unico e di ineguagliabile. Ogni volta che Eddy si presentava alla partenza di una gara c’era già qualcuno che sosteneva che non ci sarebbe stata storia, perché l’asso belga era abituato a vincere sempre e tutto. Esagerazione? Eccesso? Certo Gimondi che pure era fortissimo e che in più di un’occasione si è preso la libertà di batterlo, ha sinceramente sempre riconosciuto che quell’atleta era davvero un “cannibale”, uno nato per esaltare la bellezza della vittoria. Felice ha vinto moltissimo, centotrentanove vittorie, tre Giri d’Italia, Un Tour de l’Avvenir, un Tour de France, una Vuelta a Espana, un Campionato del mondo, due Giri di Lombardia, la Parigi Roubaix, la Milano Sanremo e tutto questo, nell’era di Eddy Merck, ha dell’inverosimile. Il popolo del ciclismo li amava entrambi, capiva che erano due grandi con dimensioni e carature diverse, ma si compiaceva di quella loro innata voglia di correre e di vincere esaltando la storia di un ciclismo senza pretattiche, senza vincoli e senza esacerbate pianificazioni, un ciclismo che, grazie a Eddy e a Felice, si legava come ai vecchi tempi alla forza e all’intelligenza individuale, fuori da imposizioni e sottomissioni. Con quei due in corsa il ciclismo diventava storia, si colorava di passione allo stato puro, di entusiasmi e di motivazioni, ritemprava la voglia di sorridere e di gioire di un popolo alle prese con i soliti problemi di natura finanziaria. Hanno dovuto lottare come hanno sempre fatto i grandi campioni, lottare anche contro un destino che in qualche caso si metteva di traverso e imponeva delle verifiche, ma tra loro hanno sempre prevalso l’amicizia, il rispetto, il senso dell’onore, la voglia di essere di esempio per quei giovani che sull’onda delle loro sfide e dei loro successi compravano la bici da corsa e cominciavano una storia fatta di speranze. Eddy e Felice, una vita di corsa, anche dopo il ritiro dal professionismo, una vita dedicata alle manifestazioni sportive, alla bici, alla scoperta di nuovi talenti, alla voglia di rimanere incollati a quel lavoro che li aveva resi famosi e che aveva consentito loro di vivere una vita tranquilla e dignitosa. Ogni volta che s’incontravano sorridevano, si guardavano con quel rispetto e quella serena tranquillità che li aveva sempre accompagnati anche fuori dal mondo delle competizioni. Tantissimi campioni di ieri e di oggi hanno imparato ad amare il ciclismo proprio in virtù delle sfide tra Gimondi e Merck, è infatti in quel clima per certi versi eroico che montava la voglia di inforcare la bici e di salire sulle grandi montagne, per assaporare la bellezza di uno sport che ha sempre vissuto un rapporto diretto con la natura, portandole un grande rispetto. Due storie lunghe quelle di Eddy e Felice, storie di campioni che hanno dominato il mondo del ciclismo per un lungo periodo di tempo, tenendo acceso l’amore per lo sport della gente, la voglia di immedesimazione, di tifare per il proprio beniamino, per dimostrare che l’Italia aveva i suoi portabandiera. Felice se n’è andato troppo presto, mentre stava nuotando nelle acque del mare di Sicilia, a Giardini Naxos, poco prima di partire per il rientro. E’ stato un momento terribile per tutti coloro che lo hanno seguito e amato, per un attimo anni di entusiasmi e di passioni hanno lasciato il posto a una profonda tristezza. Eddy non ha partecipato al funerale, era distrutto, ha voluto incontrare la famiglia di Felice a Paladina, lontano dal chiasso. Nella solitudine e nel silenzio del ricordo, ha voluto onorare il suo vecchio amico campione, accanto alla sua famiglia, a quella famiglia alla quale Gimondi era fortissimamente legato.
Gimondi batte Merck allo sprint (Twitter)
STORICI DUALISMI 7 ALI’/FOREMAN di felice magnani
Muhammad Alì e George Foreman, i due grandi della notte di Kinshasa, per la conquista del titolo mondiale dei pesi massimi. Alì e Foreman, due simboli di una nazione che ha cercato nello sport una rivalsa sull’odio e sul razzismo, due giganti del pugilato mondiale nati con il colore nero sulla pelle, costretti a sopravvivere in un mondo dominato dalla prevaricazione e dalla violenza, due ragazzi che hanno dovuto difendersi subito dalle prepotenze di chi si credeva superiore, di chi voleva imporre la sua legge violando quella dello stato. Muhammad Alì l’uomo del rifiuto, il campione olimpico che ha sfidato l’America del Vietnam, l’uomo che ha pagato un prezzo altissimo pur di essere fedele ai suoi principi e ai suoi valori, pur di dire no all’idea di dover uccidere il nemico. Quattro anni di esilio forzato, rinunciando volontariamente a un titolo mondiale che gli avrebbe consentito di guadagnare palate di dollari in ogni parte del mondo. George Foreman il grande campione olimpico, un fisico eccezionale, un atleta nato per combattere, dotato di una forza mostruosa, l’uomo che non sopportava la sopraffazione, che lottava fin da ragazzo per difendere i diritti dei più deboli, per non permettere alla presunzione di prendere il sopravvento. Una vita dedicata al pugilato, alla palestra, allo sport, una vita vissuta all’insegna di quei valori che aveva appreso da una famiglia che ha sempre amato e lottato per l’onestà dei rapporti familiari e sociali, il pugile che ha voluto abbracciare la fede come simbolo di una vita di dedizione ai valori simbolo dell’umanità. Se Muhammad e George non avessero incontrato il pugilato forse non sarebbero usciti da quel mondo coperto di ombre che impedisce a una parte dell’umanità di essere quella che vorrebbe essere, libera, rispettata, con una gran voglia di fare, vivere, dialogare, parlare, lavorare, come fanno tutte le persone di questo mondo. Alì e Foreman due atleti straordinari, dotati di una scherma raffinata, elegante e pungente, capaci di qualsiasi risultato, capaci di trasformare uno sport duro come il pugilato in una ricerca di fantasia e d’ironia, a voler dimostrare che la via della vittoria passa sempre e comunque attraverso una professionalità che non ammette disattenzioni e che costringe a inventarsi la possibilità di poter sopravvivere in un mondo difficile, dominato spesso da chi fonda il proprio potere sulla negazione della libertà altrui. La notte di Kinshasa, di fronte a un pubblico in delirio, è stata la prova che il pugilato non mente, non conosce mezzucci o vie traverse, è l’espressione più vera e più pura della capacità di dimostrare che la forza non basta, c’è bisogno d’altro, di qualcuno che la sappia trasformare in energia allo stato puro. Nel regno dello scontro frontale, dove una primitiva predominanza tende a sovrastare, è ancora l’intelligenza che domina, è la capacità di non cedere all’eccesso di una passione priva di umanità. Parlare di umanità in uno sport come il pugilato potrebbe sembrare ipocrisia, eppure non è così, là dove ci sono regole e principi, là dove lo sport è riconosciuto nella sua identità significa che c’è qualcosa di più che fa la differenza, qualcosa che ha a che vedere con l’educazione che lo sport ha saputo insegnarti perché diventassi migliore di quello che eri. Molto bello l’aver paragonato Alì a una farfalla che danza, ma che al momento giusto diventa ape e punge, dimostrando che nello sport contano leggerezza e fantasia, ma anche la capacità di saper stare con onore nella danza quotidiana dell’esistenza, distribuendo con equità le proprie risorse e i propri talenti. E’ un po’come nella vita,dove idealità e pragmatismo diventano fondamentali per una unione perfetta, che valorizzi al massimo la straordinaria espressività dello spirito umano.
ABC news
STORICI DUALISMI 5 PANTANI/TONKOV di felice magnani
Chi sarebbe diventato realmente Marco Pantani se avesse vinto anche il secondo Giro d’Italia del 1998? Certamente avrebbe affrontato un grande Tour e molto probabilmente lo avrebbe vinto, pareggiando il Giro e Tour dell’anno precedente. Era un atleta ormai giunto al massimo livello sul piano delle grandi prestazioni, era fisicamente e psicologicamente molto carico, pronto per vincere anche le classiche più ambite. Era un atleta che sapeva dimostrare a se stesso e al pubblico di avere un grande coraggio, volontà, forza d’animo, classe, personalità, capacità di essere anche un po’ teatrale, quel tanto che bastava per mandare in visibilio non solo i tifosi del ciclismo tradizionale, ma anche gli amanti della televisione in generale, quelli che vanno alla ricerca di emozioni per risollevare una vecchiaia in certi casi priva di stimoli, abbandonata, sola e depressa. Vedendolo all’opera sulle strade del Giro o su quelle del Tour gl’italiani si ringalluzzivano, empaticamente se lo mangiavano, perché Marco era capace di interpretare nel modo più convincente possibile le aspirazioni della gente comune. Non aveva la compassata freddezza di Pavel Tonkov, il campione arrivato in Italia dalla grande madre Russia, sempre perfettamente serio, poco incline al sorriso che illumina, all’impennata improvvisa che esalta. Pantani e Tonkov, due giganti piazzati sul palcoscenico dei grandi Giri per alimentare una sfida sportiva d’alto livello, forse per far ritrovare al popolo del ciclismo un passato che sembrava sepolto per sempre. Due caratteri molto diversi e per certi aspetti persino opposti. Marco figlio delle bollenti estati adriatiche, delle discoteche, degli amici che s’incontrano nei bar del lungomare, il campione che sa impegnarsi, soffrire e sorridere, che non teme di presentarsi per quello che è, Pavel perfettamente impostato per essere atleta, figlio di un’educazione che non lascia spazi a ricercati libertinismi. Pantani e Tonkov, la leggerezza della disincantata follia romagnola contro l’esasperata ricercatezza di un gesto destinato alla storia. Due uomini, due atleti di grande classe, uniti da un destino comune, dimostrare sul campo chi era il più forte. Se Tonkov rivelava una massa scultorea scolpita per piegare la resistenza di chiunque osasse sfidarlo sulle grandi salite, Pantani è stato il grillo parlante di un ciclismo che aveva il potere di sorprendere per quella sua naturalezza espressiva ed esplosiva contemporaneamente, che ti incantava, lasciandoti col respiro in gola. Lo stile di Marco Pantani è stato unico nella storia del ciclismo, uno stile fatto di eleganza, plasticità e potenza, mai prolisso, mai noioso o ripetitivo, ogni sua impresa era un’impresa a sé, qualcosa d’inimitabile, qualcosa che solo lui sapeva fare. E’ riuscito a far scattare in piedi ottantenni ormai incollati alla poltrona, è riuscito a riempire di voglia di bici tutti quanti, anche quelli abituati alle comodità motorizzate, risvegliando una gran voglia di socialità sportiva, di amore di patria, di voglia di stare in casa per seguire da vicino forse il mito più grande della nostra tradizione sportiva. Quando si alzava sui pedali, con le mani basse sul manubrio, scattando a ripetizione, sembrava una mitragliatrice. Era l’immagine che non si era mai vista prima. Lo seguivi senza distogliere lo sguardo, spalancando gli occhi e non ti sembrava vero che ci fosse qualcuno così bravo da riuscire a farti dimenticare persino i grandissimi Bartali e Coppi. Mentre il fortissimo Tonkov pedalava con uno stile e una compostezza intellettuale, misurando il percorso, Marco bruciava la strada, lasciando che le gambe girassero come la ruota di un mulino. Nella classe energica di Pavel troneggiava la sua indole, il senso di un’educazione priva di dissennati fraseggi, concentrata al massimo sull’obiettivo da raggiungere. Della sua potenza fisica ti accorgevi subito appena lo vedevi, il suo sguardo non tradiva emozioni o distrazioni, era terribilmente concentrato, distaccato dalla naturale bellezza di quella montagna dolomitica che accompagna come una sposa l’amore per il ciclismo. Marco Pantani e Pavel Tonkov erano due scalatori pronti a tutto, sapevano perfettamente che su quel terreno, il loro terreno, si decideva la vittoria finale, proprio come nel Giro d’Italia del 1998, quando la classe immensa di Marco prese il volo con quella leggerezza che lo faceva apparire una gazzella o un ghepardo. Per il bravissimo Pavel a quel punto non c’era più storia, il suo sguardo si perdeva nel sacrificio struggente di un’immensa fatica. Pantani era l’ attore che sapeva strappare l’applauso al momento giusto, con quello sguardo aperto, ma anche un po’ sornione, sempre pronto a indagare la storia della corsa. Era un atleta che credeva nell’onestà della sua missione sportiva, anche quando il destino gli giocava brutti scherzi. Pavel Tonkov è stato il cavaliere della steppa capace di imprese titaniche, di far capire che per vincere bisogna prepararsi e impegnarsi a fondo, dare sempre tutto senza sottovalutare nulla e nessuno. Marco Pantani e Pavel Tonkov sono stati due grandi campioni del ciclismo che ci hanno regalato emozioni allo stato puro. Con loro il Giro d’Italia ha regalato un pizzico di orgoglio a chi pensava che i campioni fossero figli di altri popoli o di altre nazioni.
(Pinterest) Pavel Tonkov e Marco Pantani