STORICI DUALISMI 1
BENVENUTI/MAZZINGHI
di felice magnani
Si può amare la boxe? Forse sì, ma bisogna sollevarla dalla polvere della violenza, una polvere che l’ha costretta a subire per molto tempo l’incomprensione umana, cristianamente legata ai vincoli del rispetto, dell’arte, di una cultura sportiva rimasta per troppo tempo vittima di scenari violenti, che nulla avevano a che vedere con le regole di uno sport che un giorno sarebbe passato alla storia come nobile arte. Il boxeur non è mai stato figlio di un medico o di un avvocato o di un notaio o di un farmacista, nasceva in una famiglia semplice, legata al lavoro, ai figli, all’amore per lo sport, con un’attenzione particolare per la boxe, soprattutto quando a interpretarla erano uomini che possedevano stile, eleganza, intelligenza, capaci di dare una svolta significativa alla loro vita accettando un preciso sistema di regole. Passare dalla strada alla palestra non è mai stato facile, perché dietro a ogni trasformazione c’era quello che Socrate definiva un chiaro procedimento maieutico, la capacità di guardarsi dentro, di interrogarsi, di posizionare positivamente quell’energia che spesso madre natura elargisce con grande abbondanza. Ma chi è veramente un pugile? Un fallito che si butta sul ring per inseguire un sogno o una persona che sa di poter raggiungere obiettivi elevati combattendo ogni giorno la sua battaglia contro la violenza, l’esuberanza, la sfida e l’orgoglio con quell’energia mentale che, se ben guidata, può aprire le porte di un grande successo non solo sportivo, ma soprattutto morale. Chi ama la boxe difficilmente si lascia coinvolgere da un clima rissoso, osserva, impara, si prepara, cerca dentro di sé le motivazioni che diano un senso a un pugno dato con stile ed eleganza per dimostrare che nella vita bisogna lottare, che la lotta ha le sue regole, i suoi lati toccanti, quelli che ti fanno amare lo sport, soprattutto quando chi lo pratica esprime valori e insegue un destino migliore. Dietro a una grande vittoria sulle bassezze della vita c’è sempre un grandissimo impegno, in cui lo sport diventa come per incanto una missione. Entri in una palestra perché ti senti chiamato, perché hai bisogno di essere seguito, perché quel pugno che vorresti sferrare al tuo nemico del momento si cimenti alla pari con quello degli altri. Senti che la boxe è fatta su misura per te, proprio per questo la devi fare e la devi fare bene, tirando fuori il meglio della tua personalità. Chi ha visto combattere sul ring campioni del calibro di Ray Sugar Robinson, Emile Griffith, Nino Benvenuti, Mohammed Alì, Marwin Hagler, Duilio Loi, Tiberio Mitri, non può non aver provato emozioni fortissime, non può non essersi innamorato di un pugilato che metteva in scena la sua eleganza e la sua energia, la capacità di non essere colpiti, di schivare i colpi, di saper rispondere alle provocazioni con una giusta dose di giustizia sanzionatoria. Il pugile non ha mai avuto una sciabola tra le mani, ma ha dovuto imparare a conoscere i segreti della scherma, cercando di capire chi aveva di fronte, doveva imparare a conoscere molto bene il suo avversario, i suoi punti di forza e i suoi punti deboli, diventare anche un po’ psicologo, non doveva lasciarsi sorprendere, ma essere pronto, soprattutto quando la “sopravvivenza” dipendeva dall’intelligenza, da come sapevi distribuire le tue forze, da come riuscivi a condurre fino in fondo ciò in cui credevi. Il pugilato non è mai rissa, neppure quando la lotta si fa dura, perché ha delle sue regole precise e c’è sempre una giuria pronta a colpire se sgarri. E’ l’arte di saper colpire solo quando è necessario, quando senti che se quel colpo non parte, non parte neppure il sogno di una vita. Nino Benvenuti e Sandro Mazzinghi sono stati due miti della box nostrana, ma anche mondiale: quanto tifo, quanta gente con l’orecchio sulla radio di giorno e di notte, quanta voglia di vederli combattere, quanta speranza in quei due giovani baldanzosi che avevano sposato la vocazione alla boxe. Uno triestino, l’altro toscano. Diversi nel modo di essere, di vivere, di parlare, di affrontare una comunicazione scritta e verbale a tratti spietata, ma uniti nella gran voglia di dimostrare che l’arte, quando è nobile, ti prende e ti emoziona, proprio come faresti davanti a un dipinto di Raffaello. Nino e Sandro, due italiani che hanno fatto emozionare il mondo con il loro modo di essere, il loro slancio, la loro generosità, la loro voglia di dimostrare che gli’italiani sanno sacrificarsi, soffrire, subire, sanno soprattutto dimostrare che si può vincere, ma anche perdere con onore. Nino e Sandro, due pugili con due caratteri forti, dotati di quella giusta ironia che fa sorridere anche quando un uppercut ben dato può svuotare il cervello, far piegare le gambe e lasciarti col cuore sospeso tra la terra e il cielo. Benvenuti e Mazzinghi, due modi molto diversi d’interpretare l’arte della boxe, due scuole, due modi di essere dentro e fuori dal ring, due personaggi che hanno saputo dosare le loro forze, dare e incassare, senza nulla concedere a interpretazioni maliziose, due pugili che hanno fatto del loro mestiere il modo migliore per rispondere alle asprezze della vita, dimostrando che lo sport può fare miracoli, quando lo si sa capire e applicare. Nella loro combattiva diversità c’era il segreto dell’entusiasmo popolare. Nino calcolatore, Sandro picchiatore, uno portato per lo studio, la ricercatezza formale, l’eleganza anche fuori dal ring, l’altro per l’assalto e la sostanza. Nino con un viso da attore hollywoodiano, Sandro con un viso arcigno, duro, di quelli che non sono abituati a sorridere. Nino alla ricerca di una boxe essenziale, decisiva, Sandro soffocante, arrembante, mai sazio. Due modi molto diversi di vivere e di interpretare il gesto sportivo, la ricerca e lo studio della raffinatezza da una parte, l’espressione di una vitalità fisica incontenibile dall’altra. Entrambi hanno raggiunto grandissimi risultati a livello nazionale, europeo e mondiale, battendo i mostri d’oltreoceano. Benvenuti è stato medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma, è diventato campione del mondo dei pesi medi battendo Emile Griffith nel salotto di casa sua, quel Madison Square Garden di New York, santuario della boxe americana e mondiale. Sandro Mazzinghi da spopolato contro avversari fortissimi, conquistando il titolo mondiale dei superwelter al Velodromo Vigorelli di Milano il 7 settembre 1963, contro Ralph Dupas a soli venticinque anni. Si sono incontrati in due memorabili combattimenti. Nella storia della boxe nazionale, fucina di straordinari campioni che hanno dato lustro al pugilato italiano nel mondo, Benvenuti e Mazzinghi conservano quell’ispirazione storica dello sport che non si consuma con il trascorrere del tempo, ma che continua a regalare ricordi di momenti straordinari, quando l’entusiasmo e la passione per lo sport del pugilato dominava le prime pagine dei giornali, la radio e la televisione. Di questi due grandi e indimenticabili campioni conserviamo un ricordo epico che ha accompagnato gli entusiasmi della nostra giovinezza e ancora oggi, ogni tanto, li andiamo a rivisitare nelle pagine di Internet, anche solo per sapere come stanno, come vivono la loro vecchiaia, ma anche per rivederci qualche mitico incontro, di quelli che ci hanno fatto stare con il fiato sospeso. Con loro il pugilato è diventato una rivincita sul disagio e sulle asprezze della vita,a dimostrazione che lo sport, quando è ben rappresentato e guidato, può anche fare miracoli.
STORICI DUALISMI 2
RIVERA/MAZZOLA
di felice magnani
Il calcio è una follia che porti dentro da sempre, da quando qualcuno ti ha messo tra i piedi o nelle mani una palla con cui giocare. E’ una follia che stimola lo stupore e la meraviglia, la fantasia e la furbizia, appartiene una delle sette meraviglie, qualcosa di cui non potresti fare a meno. Quella palla che mulina, balza e rimbalza tra mani e piedi scatena un’infinità d’ immagini e di emozioni. Ogni volta vorresti prenderla e colpirla in modo diverso, vorresti accarezzarla, indirizzarla con una precisione assoluta nella rete della porta avversaria. Vorresti trattenerla e palleggiarla, farla passare tra le gambe dell’avversario, vorresti lanciarla con quella perfezione che si conviene a chi distribuisce con raffinata eleganza il proprio intuito. C’è chi ha iniziato a giocare nella cameretta disubbidendo ai richiami materni, chi ha iniziato nel cortile di casa con gli amici, chi ha provato fin da subito l’ebbrezza di un campo in erba, chi giocava nei campetti spelacchiati di periferia, chi vicino a una ferrovia e chi sfruttava i campi con l’erba appena tagliata e con il rischio di essere rincorso dai proprietari. Ognuno ha una propria storia e dentro questa storia c’è il sogno di un pallone che s’infila nel sette della porta avversaria. Molti ragazzi hanno iniziato giocando negli oratori, nei collegi, sperando un giorno di imitare le gesta mitiche di quei campioni che seguivano con l’orecchio incollato alla radio tutte le domeniche, grazie alle voci di cronisti bravissimi e indimenticabili, come Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Roberto Bortoluzzi, Alfredo Provenzali, voci amiche che squarciavano d’azzurro il riposo domenicale della famiglia, esaltando la passione e l’entusiasmo di chi il calcio lo amava davvero. Tra i volti noti che scatenavano l’entusiasmo dei tifosi della domenica c’erano Gianni Rivera e Sandro Mazzola, i cervelli della Milano calcistica, quelli che la classe l’avevano incollata addosso da sempre e che lasciavano il segno ogni volta che il cielo grigio d’autunno aveva bisogno di qualcuno lo rendesse meno frustrante. Gianni Rivera e Sandro Mazzola, due centrocampisti straordinari, in grado di guidare il gioco con un’intelligenza tattica unica nel suo genere, due giocatori seri, molto educati, amati e apprezzati dentro e fuori il mondo del calcio. Intellettualmente vivi, capaci sempre di rispondere con eleganza di stile, con toni verbali pacati e misurati alle provocazioni di un mondo giornalistico pronto a rilanciare con un pizzico di pepe. Sandro e Gianni hanno incantato le platee italiane, quelle europee e quelle di tutto il mondo, per la raffinatezza stilistica, ma anche per quell’intelligenza distributiva con cui sapevano posizionare le loro abilità e poi per quel misurato contatto comunicativo accompagnato da un elevatissimo approccio educativo e da una consumata saggezza. Giovani, anzi giovanissimi, ma sufficientemente bravi e capaci di anticipare positivamente qualsiasi tentativo di depistaggio. C’era chi li avrebbe voluti sempre insieme in nazionale, chi si è profondamente arrabbiato quando nella finale col Brasile ai mondiali di Messico settanta, Gianni è stato lasciato in panchina. E’ stato forse l’unico, vero momento di rabbia, sembrava infatti impossibile che un centrocampista alla brasiliana come Rivera dovesse restare immobile spettatore di un’ingiustificata esclusione. Campioni di gran classe sempre, tecnicamente perfetti, dotati di una sofisticatissima capacità di capire il gioco del calcio e di anticiparlo, con una visione elevatissima, centrocampisti dotati anche di una raffinata propensione al tiro in porta e al goal. Velocità, dribbling, posizione, scatto, capacità di saltare l’avversario e di infilare assist perfetti per i compagni di gioco. Due carriere importanti nel Milan e nell’Inter, figure leader come giocatori e poi come allenatori e come dirigenti, Rivera è stato anche deputato nel parlamento italiano. Scattanti e misurati, capaci di dire sempre la verità senza eccedere, hanno saputo far tesoro delle loro esperienze per dimostrare che il calcio non è solo essere ricchi e famosi, ma è uno spazio fondamentale della vita in cui s’impara a stare insieme, a condividere vittorie e sconfitte, a capire che il lavoro, anche quando è bello, richiede il massimo dell’impegno e dello spirito di sacrificio. Gianni Rivera e Sandro Mazzola, sono stati due grandi giocatori che non sono mai andati oltre, che hanno vissuto il sogno della loro vita cercando di dare il massimo dentro e fuori dal campo, dimostrando che lo sport va giocato con grande onestà, perché il pubblico osserva e il suo comportamento dipende spesso da come i giocatori stessi lo vivono, da come sanno passare gl’insegnamenti buoni della vita, dall’impegno e dalla correttezza che mettono nelle cose che fanno. Anche nel gioco del calcio l’educazione è un valore che qualifica. Gianni Rivera e Sandro Mazzola sono ricordati non solo per essere stati dei grandi campioni, ma anche per l’onestà che hanno saputo mettere in tutto quello che hanno fatto nel corso della loro vita.
STORICI DUALISMI 3
di felice magnani
MOSER /SARONNI
Che cosa fa la differenza nello sport professionistico? La struttura atletica? La condizione mentale? La passione, l’entusiasmo, l’impegno, lo spirito di sacrificio, la serietà nella vita, la capacità di armonizzare al massimo livello il tuo karma, quello spirito di cui disponi fin dalla nascita? Non è facile dirlo, ma di solito i grandi campioni lo sono diventati pur senza essere stati dei modelli di bellezza o di perfezione fisica, lo sono diventati e basta. Certo qualcosa di molto particolare dovevano possedere in quel corpo e in quella mente che spesso si univano fino a creare un equilibrio perfetto, al punto che nessuno, in quei momenti, sarebbe riuscito a opporsi a quel tipo di strapotere. Saronni? Abbastanza piccolo di statura, piuttosto rotondetto, dotato di una struttura muscolare ampia e ben articolata, un tipetto che si concedeva le sue vittorie sulle più importanti piste nazionali ed europee, forse anche in virtù di quella conformazione fisica e mentale che lo rendeva esplosivo nelle performance di breve durata, dove lo scatto bruciante diventava una potentissima arma da combattimento. Moser? Il gigante trentino, alto, magro, dotato di una muscolatura forte, uno che sapeva coprire bene tutto l’asse della bici, senza concedere nulla alle eccedenze. Era un corridore che stava bene sulla bici da corsa. Non sempre però la forza fisica è vincente se non la sai dosare, gestire, allenare, condurre secondo piani educativi in cui tutto ha la sua importanza, dal cibo, alle cure mediche, dall’allenamento alla bici stessa. Moser e Saronni, due forze della natura, anche se profondamente diversi sotto il profilo estetico, due forze che sapevano essere alternative, supportate da caratteri davvero eccezionali, perché anche nello sport se non hai un cervello che sa gestire con intelligenza tutto il resto corri il rischio di non andare lontano. La condizione nervosa di un atleta, già costituzionalmente forte, ha un’importanza fondamentale, è per così dire l’arma segreta, quella che consente di piazzare il colpo al momento giusto, quando l’avversario meno se lo aspetta. Saronni e Moser, due passisti veloci, forti anche in montagna, adatti alle corse in linea, ma anche molto attrezzati per i lunghi giri, quelli dove ogni giorno ti devi inventare un modo di correre, di stare in sella, di vivere e in qualche caso di sopravvivere senza dimostrare al tuo diretto avversario che stai perdendo colpi. Saronni e Moser, due macchine da guerra guidate da una condizione mentale perfetta, dalla cui cabina di regia arrivavano dritte alle quali bisognava rispondere con la massima tempestività. Quando li vedevi all’opera ti impressionavi, non riuscivi a capire come potessero pedalare a quelle velocità, però, anche se non eri l’esperto di turno, riuscivi a capire che dentro quei due meccanismi umani c’era un cervello che distribuiva indicazioni precise, quelle che avrebbero fatto la differenza. Moser e Saronni, due campioni con un grande carattere, deciso, pronto sempre a ribattere colpo su colpo senza mollare mai. Della corsa non perdevano nulla, sapevano distribuire le loro risorse e i loro talenti con una rara intelligenza tattica, ma soprattutto umana, quelle doti che madre natura aveva consegnato loro con generosità. Moser figlio delle grandi montagne trentine, Saronni delle grandi pianure, entrambi dotati di una volontà di ferro, capace sempre di fare la differenza. La loro presenza confondeva gli avversari, perché dietro quell’avvenenza esplosiva, si nascondeva la finissima capacità di capire molto bene chi avevano di fronte e di conoscere il come, il dove e il quando. Oltre a essere forniti di una straordinaria forza muscolare, erano dotati di una mente molto attiva e molto accorta. Due campioni sempre pronti. Moser aveva il taglio del gran capo, quello che detta legge nel gruppo. Lo vedevi serio e un po’ accigliato tra le sue spalle possenti. Te ne guardavi bene dal mancargli di rispetto. Aveva un carattere forte e deciso, non scherzava, del ciclismo ha aveva imparato tutto ancor prima ancora di cominciare, osservando fratelli famosi come Aldo, Enzo, Diego, campioni che sapevano farsi valere sia nelle classiche sia nei giri. Quella dei Moser è una tradizione che viene da lontano. Anche per Saronni si è trattato di confermare la tradizione di una bella famiglia sportiva. A lui è toccato di mettere il sigillo sulla dinastia, con la bellezza di 193 vittorie raccolte un po’ dappertutto nel mondo, in pista e su strada, nelle grandi corse in linea come nei grandi giri. Giuseppe, Beppe per gli amici, è sempre stato un carattere fermo e determinato, un uomo con la testa sul collo, un freddo ragionatore e di poche parole, quanto bastava per far capire a chi doveva capire. E’ stato grande come campione e grande come dirigente sportivo della mitica Lampre. Con Saronni è come con Moser, sai che è difficile sbagliare, sai che le loro parole hanno il dono della profezia. Moser è stato un gran dosatore, uno che sapeva scegliere come e dove piazzare il colpo, Saronni era un campione che vince a raffica, dotato di un livello mentale sempre altissimo. Moser e Saronni, due atleti di gran razza, due caratteri non facili soprattutto in corsa, quando con la testa e con le gambe bisognava saper distribuire con arguzia e prontezza le proprie forze. La loro diversità è stata la loro forza, perché hanno saputo tenere alto il valore del ciclismo italiano per diversi anni, creando attorno al loro modo di essere e di correre entusiasmi e passioni, facendo apprezzare il valore popolare di quel ciclismo che sapeva regalare sogni e speranze di grande spessore umano all’uomo della strada. Nonostante l’inesorabile trascorrere del tempo sono sempre diversamente abili e sulla cresta dell’onda, uno come imprenditore e l’altro come dirigente, sono due miti che insieme hanno saputo trasformare il ciclismo in un sogno per tutti, ritrovando spesso l’antica amicizia, per parlare del passato e del presente, con l’orgoglio di chi sa di aver sempre fatto il proprio dovere. Moser e Saronni sono una parte fondamentale della nostra vita e della nostra storia, è grazie a loro se abbiamo imparato l’arte e la bellezza della bici da corsa. Sono due campioni felici, che sorridono delle loro storie e che non hanno perso il gusto di una sana pedalata tra le montagne trentine o tra le Prealpi lombarde. In fondo l’orgoglio dello sport è anche questo, quello di offrire a tutti la possibilità di poter vivere un rapporto ideale con quella natura che sorprende sempre con i colori della sua bellezza.
STORICI DUALISMI 4
COPPI/BARTALI
di felice magnani
Un coppia mitica, che faceva sognare quando le strade erano fangose e polverose, quando per rifocillarti durante una corsa dovevi fermarti in un bar con la speranza di trovare un panino col salame, quando per cambiare una gomma bucata impiegavi una vita e dovevi anche essere un bravo meccanico. Coppi e Bartali sono passati attraverso l’inferno, prima di planare verso il purgatorio e il paradiso. Una vita invasa dalla povertà, dalle fatiche dei campi, dalle esigenze di famiglie che avevano bisogno dei figli per sbarcare il lunario, quando la bici, anche quella più vecchia e scassata, poteva sembrare il sogno e anche solo l’idea di pedalare sollevava il pensiero dalle fatiche quotidiane, dalla stalla e dai buoi, dal portare la spesa ai clienti, dal dover correre avanti e indietro per portare aiuto a un genitore in difficoltà. Coppi e Bartali, due uomini con un destino segnato, diventare campioni del ciclismo nazionale prima e poi di quello mondiale. Erano i tempi della radio, quelli di Ferretti, i tempi in cui l’immaginazione volava insieme alla fantasia. Non c’erano i video, i campioni li pensavi, tentavi di collocarli, era come se a inseguirli in certi momenti ci fossi anche tu, magari sul sellino posteriore di una vecchia Guzzi. La voce del cronista non era solo voce, era recitazione, poesia della comunicazione verbale. Nelle loro consumate vibrazioni scorrevano come fiumi le emozioni, riuscivano a scatenare un inferno di pensieri, di volontà, capivi che l’umanità in quei momenti passava anche di lì per farti capire quanto era bella la vita se vissuta con entusiasmo. Non vedevi eppure sognavi e poi bastava un tono di voce un pochino più alto per capire che qualcosa di inimmaginabile stava succedendo. Il tuo campione era in fuga, era passato per primo sul Pordoi e allora l’amore s’incrociava con una strana patologia, incollavi l’orecchio e abbracciavi la radio come fosse una madre, la stringevi, sperando che quel sogno diventasse realtà. Quante sfide, quante avventure, quante storie e soprattutto quanta umanità in quello sport che la gente amava fino all’inverosimile, come se su quei sellini ci fosse anche lei a spingere sui pedali, a fare da cornice allo sport più bello del mondo, a manifestare un segnale di ripresa e di entusiasmo dopo le frustrazioni e le depressioni della guerra. I volti infangati e devastati dei tuoi campioni li vedevi il giorno dopo sulle prime pagine di TUTTTOSPORT o su quelle della GAZZETTA DELLO SPORT, era su quella carta un po’ bianca e un po’ rosea, che sapeva di petrolio, che fissavi per ore i loro corpi consumati dalla fatica e quegli sguardi spenti, sperando un giorno di poterli vedere più da vicino, di essere con loro a festeggiare l’ineguagliabile bellezza del ciclismo. Campioni si nasce? Forse qualcosa di vero c’è in questa frase ripetuta non so quante volte, qualcosa che nasce dal fatto che i grandi, quelli che vincono sempre siano pochissimi, li puoi contare sulle dita di una mano e forse anche meno. Essere campioni è forse un destino o una vocazione occulta che si manifesta con il passare del tempo o una condizione umana da scoprire strada facendo, certamente c’è qualcosa che viene da lontano, una predisposizione fisica e mentale, una forza del tutto particolare e poi quella volontà che fa la differenza , quella struttura muscolare e mentale che va ben oltre i muri del mestiere, che non teme i confronti, sempre pronta a mettersi in gioco senza paura, con la certezza che la vittoria vale più di qualsiasi altra cosa al mondo. Che Bartali e Coppi avessero nel loro dna qualcosa già di per sé molto grande era fin troppo evidente, lo si capiva ogniqualvolta li vedevi all’opera, era personaggi anche se non avessero voluto esserli, lo sarebbero stati ugualmente, perché madre natura li aveva voluti proprio così, bravi, forti, coraggiosi, capaci di superare le mille difficoltà di un ciclismo per certi aspetti assurdo nella sua incredibile difficoltà. Il loro essere eroici nella sofferenza li faceva sembra ancora più grandi, ancora più vicini a quella gente che la sofferenza l’aveva provata sul serio sotto le bombe di una guerra spietata. Quella di Gino e di Fausto era una sofferenza ormai diversa, una sfida alla pari per raggiungere un primato, un duello voluto per ritrovare la forza di reagire, di dimostrare che nella vita si può sempre vincere, magari proprio quando sembra che tutto coli a picco. In palio c’erano coppe, medaglie, un po’ di soldi guadagnati coprendosi il viso di fango e fatica. Vederli correre era un vero godimento. Avevano stile, forza, eleganza, erano superiori a tutti gli altri, in alcuni momenti era come se si alzassero in volo, mantenendo però sempre la testa sul collo e con uno sguardo particolare su chi, durante la corsa, dava l’aiuto necessario. Quello di Coppi e Bartali è un dualismo che nasce da una profonda diversità caratteriale, da mondi per certi aspetti opposti, scanditi da esperienze profondamente diverse, due mondi che si sono incontrati casualmente sulle strade del mondo forse per far capire che oltre il pettegolezzo, l’insinuazione, l’intromissione, la maldicenza e l’irriverenza, che fanno parte delle bassezze umane di un mondo che non ha mai mollato la presa, ne esiste anche uno che ha bisogno di ben altro, di qualcuno che sappia far sorridere, che sappia rimettere in gioco la voglia di vivere quando tutto sembra andare a ramengo, un mondo di sfide umane, in cui l’umanità diventi la via per riconquistare la gioia di vivere, di lavorare e di pensare, di agire, di fare. Coppi e Bartali sono stati proprio questo: la speranza di un’Italia che ha avuto bisogno di loro per ricominciare a credere nella propria volontà e nella propria bellezza.