STORICI DUALISMI 6
NIBALI/ARU
di felice magnani
Dopo i grandi del ciclismo, con Marco Pantani in testa, è arrivato lui, lo squalo dello Stretto, a mettere le cose in chiaro. Un siciliano tutto d’un pezzo, serio, di poche parole,capace con i fatti di risollevare l’entusiasmo popolare di uno sport che ha la formidabile capacità di far ritrovare la fede, quando la democrazia soffre di depressione e le sue frustrazioni sono all’ordine del giorno. Si è capito subito che era un predestinato, uno che coltivava fantasia e passione, energia e impegno, uno che fin dall’inizio si era posto con un’eleganza e uno stile particolari. Professionalmente molto corretto, ligio alle imposizioni di turno, ma se lasciato libero pronto a spiccare il volo con quella propensione verticale che gli concedeva fin da giovane di sparire dove la fatica diventava impossibile e inseguire un sogno di mezz’estate. Con Vincenzo Nibali da Messina abbiamo ricominciato a emozionarci, a vivere un ciclismo d’altri tempi, quando sulle Dolomiti o sulle Alpi non c’era bisogno di grandi studi o di grandi progetti o piani particolari per sapere come e chi doveva vincere, il ciclismo tornava così a essere quello che era sempre stato, un mondo dove la forza delle gambe faceva la differenza e dove ci si giocava tutto pur di movimentare la corsa, di entusiasmare il pubblico, di dimostrare quel tipo di bellezza che non è mai sistema, strategia, matematica della realtà, ma cuore, amore e fantasia. Vincenzo Nibali è un atleta fisicamente perfetto, che sa far tesoro delle generose concessioni di madre natura, unendo a una naturalissima predisposizione per la bici, una geniale e creativa intelligenza pratica, sorretta sempre da una condizione mentale adeguata. Spuntava nel frattempo sulla scia dello squalo di Messina un ragazzo sardo fresco di liceo classico, preparato negli studi, fisicamente molto ben in linea, forte in salita, un temibile concorrente per tutti. Per il ciclismo italiano una grande fortuna, l’idea di poter contare su due atleti di grande valore, capaci di inquadrare le velleità del ciclismo anglosassone, di quello nordico e di quello caliente del sud, con la Spagna in prima linea e con una Colombia sorprendente per la bravura dei suoi atleti. L’interesse ciclistico degl’italiani si posizionava così su due giovani isolani di grande avvenire, pronti a raccogliere i frutti di stagioni vissute per acquisire tecnica, furbizia e maturità. Due campioni di classe che hanno imparato a soffrire e ad affrontare di petto i confronti complicati, quelli che ti fanno capire chi sei, quanto vali, dove vuoi e puoi arrivare. Due abituati a dare tutto, a dimostrare che la classe non è acqua e che per vincere bisogna attrezzarsi al punto giusto, bisogna associare alle qualità innate la pura passione per uno sport che, quando ce l’hai nel sangue, non ti molla più. Quello di Nibali e Aru è il ciclismo che ti tiene incollati al video, che non puoi lasciare neppure per un attimo, perché lo scatto bruciante, quello che lascia in braghe di tela gli avversari, può arrivare da un momento all’altro e non te lo puoi assolutamente perdere, perché è roba d’altri tempi. Attenti a qui due, direbbe qualcuno. Loro sono fatti così, appena la strada s’impenna si accende quel motore che fa volare. Vincenzo, sul piano sportivo, è forse il più maturo dei due, ha più esperienza, conosce molto bene il mistero della moltiplicazione dei pani e dei pesci, quello che ha in mente lo capisci dallo sguardo, dalla compattezza della posizione in sella, da come si leva sui pedali, da come mulina le gambe, insomma è riconoscibile, puoi solo aspettare che tiri fuori le unghie e imponga il suo diktat. Anche nello sforzo Vincenzo è molto coordinato, ti rendi conto che è in forma perché non fatica, va via liscio, brillante e leggero. Anche il “Cavaliere dei quattro mori” non scherza quando la strada s’impenna. E’ fortissimo sulle pendenze che vanno dal sette all’otto per cento, ha messo la firma su la Vuelta a Espana del 2015, si è piazzato secondo al Giro d’Italia del 2015, terzo al Giro del 2014, è stato campione d’Italia nel 2017, è il giovane campione su cui i tifosi ripongono le loro speranze. Nibali una certezza, Aru il futuro. Nibali una classe assoluta e ampiamente dimostrata, Aru una nobiltà ancora da coltivare. Nibali l’uomo delle classicissime, Aru l’uomo che può sempre sorprendere. Nibali l’erede dei grandi del passato, Aru l’erede di Nibali? Vincenzo è forse più fortunato, non ha avuto malanni rilevanti, mentre Fabio ha dovuto affrontare seri problemi che lo hanno tenuto fermo per parecchio tempo. Tra i due c’è sempre stato e continua a esserci un rapporto di reciproco rispetto, se le cose fossero andate secondo le previsioni l’Italia avrebbe avuto due campioni sempre pronti alla conquista delle grandi vittorie finali. Vincenzo ha vinto moltissimo, due Giri d’Italia, un Tour de France, una Vuelta a Espana, Milano Sanremo, Giri di Lombardia, ha vinto senza mai lasciare dubbi, le sue sono state vittorie che hanno esaltato l’entusiasmo popolare. E’ molto lineare, sempre ben preparato, difficile prenderlo in castagna, dotato di una grandissima forza mentale che gli permette di superare anche le situazioni difficili con una certa facilità, è uno che è abituato a fare autocritica senza scompigliare, uno che se sbaglia lo ammette, senza piangersi addosso. Su questo piano forse Aru deve lavorare ancora per acquisire esperienza. Se Vincenzo Nibali esprime sicurezza e la trasmette, mantenendo sempre alto l’interesse del pubblico, Aru crea momenti di attesa, di suspence, quell’incertezza che ti lascia col cuore sospeso e che in alcuni momenti genera un senso di empatica frustrazione. Si tratta comunque di atleti che hanno dato tanto al ciclismo e ancora abbastanza integri e forti per poter dire la loro, per dimostrare che gli anni, se ben gestiti, non sono un peso, ma quel valore aggiunto da poter spendere. Il ciclismo italiano di oggi ha molti giovani bravi, capaci di aggiudicarsi vittorie importanti, ha anche uomini capaci di poter vincere un giro, ma la presenza di Vincenzo Nibali e di Fabio Aru è fondamentale nell’economia di un ciclismo italiano forte, perché sono ancora due macchine da guerra che possono cambiare il volto di una classifica generale o mettere in difficoltà giovani troppo giovani per ambire a condizionare giri e classiche. Li vedremo in corsa alla fine dell’estate, quando l’aria comincerà a essere un pochino più frizzantina, li vedremo nei grandi giri con lo spirito di chi corre ancora vincere, per testimoniare che la classe fa sempre la differenza. Nibali e Aru hanno ancora tante carte da giocare, carte importanti, di due campioni che sanno muovere il cuore della gente anche di quella meno tifosa, meno vincolata all’euforia del ciclismo e lo sanno fare benissimo, con quello stile e quell’eleganza che danno un tocco d’immagine a un mondo sportivo sempre più vivo e attivo, che non dimentica mai chi lo fa sognare, regalando un pizzico di gioia e di voglia di vivere anche a chi, per l’età o le condizioni fisiche, è costretto a stare seduto tutto il giorno su una poltrona. Questa è la vera forza dei grandi campioni, quella di saper risvegliare e rimettere in moto emozioni e valori abbandonati per troppo tempo nel solaio dei ricordi, perché le emozioni aiutino a ricordare che la vita resta sempre un bellissimo sogno da coltivare.
Vincenzo Nibali e Fabio Aru in azzurro
Fabio Aru e Vincenzo Nibali, due grandi del nostro ciclismo
STORICI DUALISMI 8
CONTINI/HINAULT
di felice magnani
La pagina storica di un ciclismo senza pietà, che non ha il tempo di osservare e di capire cosa passa nel cuore e nella mente di un giovane che all’improvviso vede accendersi una luce e si sente affascinato, è come se in quell’istante capissi che quel mondo è un po’ anche tuo, perché te lo sei meritato. Poi, d’un tratto, quel cielo che ti appariva azzurro come non l’avevi mai visto, diventa plumbeo e la nebbia calata all’improvviso, ti impedisce di continuare il sogno. Quando il sole ti sveglia di nuovo vedi che le “bleireau”, quel tasso francese di nome Bernard, corre verso la vittoria finale, quella che immaginavi fosse già tua, godendo magari del vocio fraterno di quella gente di lago che ti ha coccolato come un figlio fino all’ultimo tornante della montagna, dove pensava che quel ragazzo di nome Silvano potesse aprire le ali, per planare vittorioso sulle Prealpi lombarde. Una pagina di sport vero, dove due grandi campioni, uno già affermato e l’altro in fase di arrivo, capiscono forse per la prima volta quanto sia imprevedibile la vita, quanto sia importante avere accanto qualcuno che creda in te e ti accompagni dove ti aspetta un destino. Una pagina che, forse avrebbe potuto cambiare il volto di una vita o forse l’avrebbe resa ancora più difficile, ma una cosa è certa, il campione di lago ha fatto tremare l’impero e il suo imperatore, per la prima volta il mitico re del Tour capiva che il mondo non andava sempre dove voleva e da vero campione ha saputo risorgere in pochissimo tempo, dimostrando che mai nulla è scontato. Bernard e Silvano, il supercampione d’oltralpe, l’uomo che vinceva tutto e il nuovo mito della Bianchi, la marca di bici dell’airone volante, quel Fausto Coppi che ha fatto capire all’Italia il senso di una pacifica e appassionante rivoluzione. Che Silvano Contini fosse l’astro nascente l’avevano capito tutti, “persino” quel grandissimo campione bergamasco, gran scopritore di talenti, di nome Felice Gimondi, l’avevano capito anche quei tifosi che presi come non mai dalla gioviale baldanza esplosiva del campione di Leggiuno, vedevano in quel viso pulito e gagliardo il senso di una storia che, forse, avrebbe cambiato il volto di una nazione alle prese con un sacco di problemi di altra natura. Bernard e Silvano, due ciclisti nati per correre, per creare emozione, per rinnovare un ambiente fin troppo condizionato da ragazzi in gamba in fase di crescita, due modi diversi di correre, due squadre diverse, due caratteri diversi, l’uno “cattivo” e determinato, con un motore potentissimo, assatanato di vittorie, l’altro, il Silvano di Leggiuno in provincia di Varese, la nuova luce che fa brillare le attese di un popolo assiepato, che aspetta si compia il miracolo. Una faccia da bravo ragazzo, di uno che sa quello che vuole, anche dopo il professionismo. Un limite? Forse o forse la maturità di un uomo che sapeva già guardare oltre il ciclismo e i suoi miti, mettendo dei punti fermi nella sua vita privata. Certo un momento difficile. In quel ciclismo c’erano ragazzi che erano già campioni, capaci di sfruttare il benché minimo errore, programmati e forti come macchine da corsa, gente che sapeva vincere un po’ dappertutto, nei Giri, al Tour, nelle classiche, nelle corse infernali del nord, giovani che guardavano avanti alla ricerca di uno spazio per dimostrare che lo sport ha spazio per tutti, per chi ha carattere e ci crede, per chi non molla mai, neppure quando sembra che il mondo giri le spalle e ti lasci solo a rimuginare suoi tuoi problemi. Aprire il curriculum vitae di Bernard Hinault c’è da spaventarsi, un mare di vittorie, cinque Giri di Francia, tre Giri d’Italia, due Vuelta a Espana, un Campionato del Mondo, il Gran Premio delle Nazioni, il Giro di Lombardia, nel suo palmarès puoi trovare di tutto, in tempi in cui oltre a Silvano Contini correvano campioni nostrani del calibro di Francesco Moser e Giuseppe Saronni, tempi in cui una vittoria valeva una vita. Ed è proprio in tempi come questi che il campione prealpino sfiora le cinquanta vittorie da professionista, vincendo gare ritenuto impossibili, come la Liegi-Bastogne-Liegi, il Giro di Germania, il Giro del Lazio, il Giro dei Paesi Bassi, il Midi Libre, il Trofeo Baracchi, il Giro del Piemonte, il Gran premio di Camaiore il Tour de l’Aude, la Coppa Bernocchi. E’ un giovane che sa farsi valere su qualsiasi percorso, in montagna, in pianura e soprattutto nelle volate. Spesso le vite sportive di Bernard e di Silvano s’incontrano e s’incrociano, c’è spazio per l’uno e per l’altro, succede che il campione lombardo batta in volata il tasso francese, si tratta di vittorie che hanno il sapore di una sfida procrastinata nel tempo. Bernard Hinault è il mito, l’uomo della storia del ciclismo mondiale, il campione che resterà per sempre nel cuore dei francesi, Silvano Contini è la piccola vedetta lombarda che ha saputo stanare il tasso e parecchie volpi, dimostrando di avere il giusto profilo del campione di casa, capace di grandissime imprese, ma anche avvolto da quella familiare forma di provincialismo lombardo in cui il pragmatismo va oltre il mito, alla ricerca di una vita che sappia ripagare di sacrifici e assenze. Bernard è ancora il re del Tour, lo dirige e lo amministra, Silvano Contini ha scelto la via di un lavoro che ha sempre amato, quello del falegname, non ha voluto abbandonare la vita semplice, quella che lega i valori alla bella famiglia che ha saputo costruire e a quel lavoro a cui pensava anche quando l’unico pensiero sarebbe dovuto essere quello di vincere e diventare famoso. Due personalità, due modi diversi di vivere la vita e di ricordare un passato fatto di mille soddisfazioni e di tante vittorie. Due corridori che prima ancora di essere atleti avevano nel cuore l’umanità e l’intelligenza necessarie per costruire un’esistenza equilibrata ed armonica, dove ci fosse spazio per tutto ciò che dà alla vita il sapore del valore e della bellezza.
Silvano Contini in azione
Il giovane Bernard Hinault