«Sono cresciuta senza bisogno di integrarmi, fino a un momento preciso: quando cioè ho deciso di coprirmi i capelli e ho deciso di mostrare la mia fede». Houda Latrech ha 19 anni, musulmana, frequenta la Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Milano. Abita a Travedona Monate da quando aveva 4 anni, dopo aver lasciato il Marocco. Nell’ambito dell‘incontro “Similmente diversi, organizzato da Religions for Peace, dall’associazione culturale “I care“ e dal cineteatro Santamanzio dove si è tenuto il momento centrato sulla fede per cogliere la bellezza della diversità avvicinando popoli e culture, il suo intervento ha illustrato il cambiamento di atteggiamento nei suoi riguardi in un’ottica di difficoltà iniziale, poi superata grazie all’impegno nel manifestare la sua fede.
«A Travedona ho frequentato le elementari e le medie – racconta — Sono cresciuta tra l’affetto e la diffidenza dei miei vicini di casa, persone di tutte le età e soprattutto di una certa età che presto hanno superato ogni
pregiudizio per vedermi uguale agli altri figli dei vicini, una dei numerosi nipoti. E anche chi rimane oggi più diffidente, non riesce proprio a fare una colpa della mia identità. La mia storia è quella di un’adolescente che di punto in bianco non si trova più accettata dalle persone con cui prima non aveva nessun tipo di problema.
Eppure non sono mai cambiata con le mie timidezza e con il mio essere estroversa, con le mie certezze, le mie insicurezze, prima del velo e dopo il velo. Perché un velo sulla testa non cambia ciò che c’è nel mio cervello. Perché la fede non ti esclude di per sé. La fede, i segni della fede non sono mai un ostacolo, che siano un velo, una kippah o un crocifisso»
«Sono innumerevoli le persone che mi si sono avvicinate per chiedermi come si chiamasse il pezzo di stoffa che ho in testa – ha continuato – e con cui alla fine ho finito per avere lunghe conversazioni, spesso sfociate in vere amicizie. Ma non tutti hanno avuto lo stesso atteggiamento. Eppure ero sempre me stessa: la mia timidezza è stata interpretata come oppressione, la mia solitudine segno di sottomissione. Non capivo cosa ci fosse di strano in me, cosa ci fosse di sbagliato.
L’esterno mi ha fatto sentire esclusa, mentre dentro ero sempre la stessa. Dopo 11 anni che vivevo nel mio paese, mi si chiedeva di integrarmi, mi si
diceva che mi era stato imposto un filtro che mi faceva giudicare le persone, anche se in sé quello che dicevano era un giudizio, e un giudizio negativo». «E’ stata la fede a salvarmi – continua – la fede a farmi avvicinare alle persone, ad aiutarmi a spiegare, a uscire dalla mia solitudine. Mi ha fatta accettare tutti, anche me stessa.
La fede non è una colpa. E integrarsi non significa cancellarsi. L’Italia è il mio paese, un paese accogliente a dispetto di ciò che oggi alcuni movimenti vogliono affermare — conclude – nonostante le spinte e i vattene a casa. Casa mia è Travedona».
Federica Lucchini