Era la casa dell’accoglienza, quella grande struttura colonica di proprietà della famiglia Fontanella a Conegliano Veneto. Vi giungevano tanti profughi fiumani, dopo che la Jugoslavia di Tito aveva reso loro impossibile la vita e li aveva costretti all’esodo. Arrivavano con le valigie di fibra, stanchi, disorientati e ripartivano carichi di farina, di generi di prima necessità. E soprattutto di coraggio. Avevano pensato a rincuorarli, Apollonio, detto Polone, Fontanella e sua moglie, Antonia, conosciuta come Nina. Sapevano cos’era il dolore di lasciare una terra amata e di non avere una casa. E’ un ricordo molto vivo quello della loro figlia Gianna, classe 1938, varesina da decenni. In particolare in questo periodo in cui si avvicina il 10 febbraio, giorno del ricordo che coincide con la firma del trattato di Parigi nel 1947 in cui l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara e altre terre vicine, prima italiane, passarono sotto il regime del generale. Lei li ha visti i profughi arrivare, come aveva visto a Fiume, dietro i vetri del negozio dei genitori i militi titini spintonare verso le prigioni gli uomini catturati. Allora era piccola, ma ebbe la consapevolezza di un evento doloroso. Il papà, invece, sapeva: era dovuto scappare dalla città dove era uno stimato esercente. I partigiani titini avevano conquistato l’Istria dopo l’8 settembre 1943 ed era cominciata la caccia al fascista, che in realtà era la caccia all’italiano. Gianna è nata a Fiume, città che ha nel cuore, pur essendo la famiglia originaria di Zoldo, Belluno, il paese dei gelatieri apprezzati oltre confine. Anché Polone, classe 1896, assieme alla moglie decise di iniziare una sua attività nella città istriana dove videro la luce tutti i loro figli. Con l’ingegno e la volontà, in breve aprì una gelateria, lungo il centrale corso Roma, con annessa caffetteria. E con lungimiranza pensò di investire i suoi guadagni non in questa terra di confine già così travagliata, bensì in Italia, a Conegliano. Sono luminosi i ricordi fiumani d’infanzia di Gianna, la passeggiata lungo il mare, le navi in partenza, un amore per questa terra coltivato e trasmesso dalla mamma. Poi la partenza per il Veneto con i fratelli e le sorelle dapprima accompagnati da una zia, poi seguiti da papà. “Dopo l’avvento di Tito l’8 settembre 1943, i soldati spadroneggiavano -afferma lei- “Quelli che arrivavano dal bosco”, come li definiva mio papà, facevano veramente paura. Molti uomini sparivano, senza lasciare traccia. Si seppe in seguito che vennero infoibati, gettati in quelle cavità naturali che sono le foibe. Fu più prudente per lui scappare a Conegliano. La mamma rimase a Fiume e, quando in seguito si ricongiunse a noi, ci raccontò la fuga nei rifugi, durante i bombardamenti alleati, di una pallottola che le sfiorò la testa. Non apprezzava per niente gli spettacoli pirotecnici: le ricordavano i bengala, sganciati per illuminare i luoghi che dovevano essere bombardati a Fiume. E, spesso, sotto la porta, le venivano inviati biglietti intimidatori. Noi intanto, bambini a Conegliano, ci nascondevamo durante i bombardamenti e giocavamo con quelle striscioline di alluminio, trovate nei prati, che venivano sganciate dagli aerei per ingannare i radar. Durante le visite periodiche della mamma, dopo giorni di viaggio, volevamo dormire con lei, chi di testa, chi di piede. Ci mancava troppo. Con una zia, raggiunsi anch’io Fiume: ricordo le macerie di una città amata e quei soldati prigionieri di cui ho già parlato. Quando la mamma ci raggiunse definitivamente – conclude- (le proprietà private erano tutte state statalizzate e quindi anche la nostra) e a casa a Conegliano arrivavano i profughi che avevano potuto partire (tanti erano stati trattenuti per vari motivi, ad esempio perché erano occupati nei silurifici), fra questi, arrivarono due bambini con i nonni. Dei genitori, dopo averli cercati in ogni dove, non seppero più nulla: erano stati infoibati”.
Federica Lucchini