Da una nicchia del suo animo che sa di tepore ancestrale è scaturito “Le va me’r vent e altri modi di dire”, edito da “Menta e Rosmarino”, ultimo di una serie con cui l’autore ha fissato sulla carta l’anima del nostro lago. Verrà presentato sabato 1° dicembre alle ore 17 nel teatro dell’oratorio a Cazzago Brabbia da Betty Colombo, attrice e sua allieva fin dai tempi in cui frequentava le scuole elementari. Non può esistere miglior connubio tra una ricerca che sa di sapienza, cultura, spasso e che lascia trasparire la sacralità della parola e una voce che sa interpretare nei più recondi palpiti l’anima di un luogo da cui trae le radici. Il filo rosso, infatti, che li unisce sta in quell’angolo del lago di Varese, che risponde al nome di Cazzago Brabbia. “I modi di dire, lascito della tradizione e fissati nel lessico perché condivisi, aiutano la memoria e coinvolgono l’emotività dell’intelocutore, straripanti come sono di espressioni “forti”, scrive l’autore nell’introduzione, offrendo un buon viatico per una lettura che si rivelerà un viaggio-sorpresa, tra testi e commenti. Sono le immagini “a volte fantasiose e sempre “memorabili” a venirci incontro, colte “nel giardino dell’oralità”. Ora si apre la porta dell’humor “Indrè me i ball di can” (indietro come i testicoli dei cani): “L’incredibile arretratezza dei loro testicoli -scrive- è rimbalzata sull’arretratezza dell’uomo, nel doppio senso di tonto e di ignorante”, ora quella che ci dà un saggio della ricerca dell’autore lunga anni, meditata, ponderata su testi di linguistica: “Vèss ladin” (essere scorrevole, svelto): “L’aggettivo ha una etimologia sorprendente -scrive- Da “latino”, passato al significato di “facile” nei territori in cui la lingua di Roma si trovava a contatto con lingue straniere, difficili perché non comprese” (Antonioli-Bracchi). Scorrono gli ambienti e le vicende di un mondo di povertà endemica da cui ha avuto origine l’attuale: dall’osteria “università della scopa scientifica”, ai boschi, che non mancavano, ma erano del padrone e la gente doveva accontentarsi dei rami secchi caduti dagli alberi. Il cibo ha il suo spazio in queste pagine con un modo di dire la cui origine è una sorpresa: metterla giù dura (“métela giò dura”). “E’ detto -scrive- di chi si comporta e si esprime con un’improbabile aria di superiorità. Ma il pronome “la”? Per me, sottintende la cacca; e mi spiego. Il piatto quotidiano dei nostri vecchi era una minestra brodosa di erbe selvatiche, una dieta che escludeva la possibilità di “metterla giù dura”: chi lo dava a intendere, voleva far credere di mangiare cibi sostanziosi e non la solita “burlànda”. C’è una vena delicata in queste pagine che tocca le corde intime di ogni vissuto: “vultaa via” si dice in dialetto “morire”, “come se il morto fosse scomparso dietro l’angolo. E seppellire si dice “mètt via” come dei soldi e delle sementi; qualcosa di prezioso, che la comunità conserva nel ricordo. Non solo, ma il seme fa pensare alla pianta che sboccia, alle nuove genereazioni che rinnovano la presenza degli antenati”. Sono loro, infatti, a cui attribuisce nelle ultime righe del libro un valore sacro: nell’illustrare “I ùrr ribaten ne volta sola” (le ore ribattono una volta sola) scrive: “Il ribattere è un’esortazione a risolvere per tempo le questioni aperte e a vivere in pace, conbsé stessi e con gli altri. Ritrovo nel modo di dire tutta la prudenza degli antenati, una “moralità” di cui si sono perse le tracce”.
Federica Lucchini