RICORDO DI UN INCONTRO
BRUNO LAUZI
“Bruno Lauzi, autore, interprete, cantante, scrittore, attore e poeta, un “vagabondo per amore del mondo””.
Arrivo a Sestri Levante in un caldo pomeriggio d’agosto. Confermo la mia presenza come d’accordo, prendo posto al Gourmet e aspetto. Bruno non si fa attendere. L’intervista? Mi fa un cenno, no dentro, sì fuori, dov’è possibile respirare da vicino la curiosità della gente, è un modo per essere sempre accanto a quel pubblico che gli ha fatto respirare la riconoscenza, che ha saputo apprezzare la sua voce, i testi delle sue canzoni, il suo amore per il racconto e per la poesia. Quando sa che il pezzo che scriverò andrà sulla Prealpina sorride soddisfatto, Varese gli ricorda infatti quindici anni molto intensi: “Ci sono stato dalla maturità, che ho superato come privatista al “Cairoli” e ci sono rimasto fino alla nascita di mio figlio, dal 1956 al 1970. Sono stati quindici anni di profonda infelicità sentimentale, ma di grande creatività”. Mentre imposto l’intervista, la gente gli passa accanto e pronuncia il suo nome: “Ma quello è Lauzi!” Lui è felice, capisci al volo che la Liguria gli vuole bene, lo sente come suo, è il cantautore che ha accompagnato il cammino di nomi storici della nomenclatura canora e culturale di Genova e dintorni, cantanti e autori che hanno riscosso applausi e condivisioni in ogni parte del mondo, interpreti di una italianità ricca di unicità e racconti, della particolarissima capacità di conservare quella caratterizzazione espressiva e sentimentale che la rende unica nel mondo. Bruno è una persona molto preparata, senti che ha una solida preparazione di base, è uno che sa far valere all’occorrenza la sua umanità, il suo amore per le cose e per la vita, è il rappresentante di una cultura molto radicata nel cuore della gente, è uno che non si lascia guidare, che preferisce chiarire e proporre, dimostrare che il mondo è bello se lo sai amare, capire, sollecitare, ma anche se lo sai rispettare, se lo sai ascoltare e comprendere, Bruno è il tipo che non si lascia condizionare. Quando gli parlo di poesia in una dimensione leggermente adulatoria, mi richiama a una netta distinzione tra testo poetico e canzone, garbatamente mi porta dentro i suoi testi mettendo alcuni puntini sulle i. <“La poesia è una forma d’arte in cui la parola ha una valenza tale, che può stare in piedi tranquillamente da sola. Il testo di una canzone è un po’ come essere invitati a una festa a patto che si porti anche la sorella…”buona”. Le mie canzoni sono tristi, portano al suicidio. Negli spettacoli dico sempre che scrivo canzoni tristi, perché quando sono allegro…”esco”>. La verità è che le canzoni di Bruno Lauzi arrivano dritte al cuore, sanno emozionare, sanno interpretare fino in fondo il carattere di una terra e di una cultura, sanno diventare esaustive senza mai scadere in una sorta di esagerazione ossessiva. Lauzi, un autore e un cantante con la forza espressiva di un poeta o di un pittore impressionista, un conoscitore profondo della natura musicale dei sentimenti che alimentano l’esistenza, soprattutto quando la sua musica e i suoi testi si tendono, fino a lasciar trasparire i suoi valori più raccolti e quelli più nascosti, al punto che per emergere hanno bisogno di essere conosciuti e amati. Lauzi è l’autore che apre le porte della fiaba e del racconto, mettendo a nudo i segreti di una natura umana che sa cogliere il movimento e il calore anche di quel mondo animale che accompagna i momenti magici della cultura classica, quella che non si dimentica mai la forza di un’affinità o di un’appartenenza, elementi che manifestano apertamente una loro comunione d’origine o provenienza o anche solo l’idea che là, dove c’è movimento, c’è anche la possibilità di capire meglio di che pasta è fatta l’umanità. Mi piace ritrovare la risposta che m’induca ancora una volta a riflettere sulla sua capacità di amare e di non dimenticare. Alla domanda, Genova, ce l’ha nel cuore? Ecco la risposta: “Prima di risponderle vorrei completare il pensiero precedente. Nel disco più marino che io abbia fatto e che pochissimi conoscono e che si chiama, “Canzone per l’America e “Genova e la luna”, che sono di mare, profondamente di mare. Una parla di un marinaio camoglino che parte per terre sconosciute (autobiografica)e l’altra è una descrizione quasi fisica della città. Veniamo a Genova. Ho inventato un escamotage per starci abbastanza. Ho spostato, infatti, molto del mio interesse e del mio lavoro, sulla piazza genovese e cerco di passare più tempo possibile qui a Sestri Levante, che è un luogo stupendo. Qui vedo la Francia, le Alpi Marittime, vedo tutto il golfo della Liguria e mi sembra di esserne in qualche modo padrone”. I musicisti e i cantanti degli anni Sessanta arrivavano al successo dopo anni di difficoltà esistenziali, dopo aver vissuto e provato la povertà, la fame e la disoccupazione. In alcuni casi queste esperienze diventavano la forza di un testo o di una voce. Quanto conta, oggi, il vissuto personale nella vita di un artista e quanto il “miracolo d’amor” che lei ha scritto nello “Straniero”, cantata da Moustaky? “Quello che era un sacrificio, cioè l’apprendistato nella nostra epoca, era contemporaneamente la fortuna nostra e quella dei discografici, perché uscivano con due 45 giri all’anno, ci volevano tre anni per fare sei 45 giri, cioè 12 pezzi per fare il primo album. In questi tre anni noi facevamo televisione, ci “sgrezzavamo”. Potevamo cambiare il tiro da un disco all’altro”. Le risposte di Bruno hanno il dono della sintesi, riflettono l’immediatezza di un pensiero leggero e trasparente, ma sempre assai efficace. E’ piacevole intervistarlo, quello che dice non è mai scontato, ha il valore genuino della verità, una verità che può anche far male, ma che aiuta a pensare e a riflettere sui principali valori della vita, in particolare su quelli che si legano all’educazione, all’impegno, al sacrificio, all’amicizia, alla bellezza del dono musicale e del canto. Dei suoi genitori apprezza la capacità di averlo lasciato libero nelle sue scelte interiori, quelle che si legavano alla sua vocazione musicale, al desiderio di avere tra le mani le corde di una chitarra, in un momento in cui avere tra le mani uno strumento musicale costava una vita di sacrifici. L’ho sentito molto vicino quando era impegnato a lottare contro il Parkinson, quando nonostante al malattia era in prima linea con i suoi concerti, con la sua voglia di dialogare e parlare con quella gente che amava la sua velata malinconia, la concretezza della sua terra, quella sua voglia di scrivere e di pensare, di depositare garbatamente la sua vena poetica nei versi di una poesia umanizzante, capace di far emergere i profumi e gli odori di una terra come la Liguria, alla quale si sentiva famigliarmente legato. Non mi ha mai fatto mancare la sua sensibilità. Ancora oggi stringo tra le mani i suoi Versi Facili, la sua vena poetica, sapientemente limata durante la sua collaborazione giovanile con Piero Chiara, ancora oggi mi piace leggere quella prefazione in cui affermava: “Il bisogno di raccontarsi non s’annuncia, ma prepotentemente si presenta sul limitare dell’anima, entra senza bussare e inizia da subito a farla da padrone. Non resta che accettare di buon grado l’invadenza, interiormente soffrendone l’inopportunità che viene a sconvolgere la pigrizia abituale, ma in fondo benedicendone l’energia che ne discende. Non fossero serviti ad altro, questi facili versi m’hanno aiutato a vivere”. E’ bellissimo come un autore così vero, così genuino, così amato e stimato potesse essere così volutamente umano e semplice nella sua vocazione esistenziale, dimostrando di saper osservare e amare le cose belle, quelle che sfuggono all’occhio disattento o troppo impegnato a idolatrare se stesso. Amo le sue poesie, in particolare quella che recita: “Se tutto il nostro scrivere/potesse/diventare come questo cielo/(se ci riuscisse!),/già sarebbe il cielo/diverso e altrove. /Allora a cosa serve esser poeti/se non per registrare/(e ci fa male…)/l’ennesimo ritardo culturale. Un artista dai mille volti, capace sempre di argomentare un vissuto carico di osservazioni acute e di racconti, capace di vivere intensamente la sua ricchezza interiore, come quando ispirato dalla vitalità umana di Rocchetta Tanaro si mise a scrivere poesie e a fare l’inviato speciale, dal bar del paese, per un quotidiano che poi ebbe vita breve (la Gazzetta del Piemonte). Su quel foglio tutte le domeniche, per circa sei mesi, uscì un pezzo in prima pagina firmato dal “Nostro inviato speciale da R.T”. Quel caldo pomeriggio d’agosto, mi lasciò per una ventina di minuti da solo davanti al golfo di Sestri, andò a casa a prendere i due libri che aveva deciso di regalarmi, uno era VERSI FACILI, l’altro DELLA QUIETA FOLLIA DEI PIEMONTESI. Tornò col sorriso sulle labbra e me li porse con le rispettive dediche. La pagina sulla Prealpina, che gli avevo dedicato, lo aveva elettrizzato, per un attimo aveva di nuovo respirato aria di casa. Ogni volta che ascolto le sue canzoni provo una forte emozione e mi ritengo fortunato di avere avuto l’opportunità di conversare un intero pomeriggio con lui, partecipando della sua sottile intelligenza, della sua capacità di saper emozionare chi gli stava di fronte, con la sua innata, semplice, ma pungente e allo stesso tempo accattivante, verve culturale, con la gentile naturalezza del suo garbato spirito indagatore.