E’ piacevole ogni tanto sfogliare vecchi ricordi sotto forma di testimonianze, racconti, poesie, regali ricevuti, ripercorrere momenti di vita condivisa con persone che hanno contribuito ad arricchirla, a renderla più degna di essere vissuta. Questa mattina mi è scivolato tra le mani un pezzo di carta da pacco, su cui sta scritto: “Spero di aver interpretato la tua sensibilità al problema della ripresa dei vecchi valori. Auguri. Zia Pinuccia”. Un dono di compleanno da parte di una zia che ha accompagnato una parte molto bella della mia vita, quella che si lega all’affetto parentale, al rispetto della vecchiaia, a una sensibilissima complicità di anime che insieme, in alcuni momenti, rilanciano sentimenti ed emozioni legati alla bellezza del vivere quotidiano. Il libro, scritto da Roberto Gervaso, intitolato VOGLIA DI CUORE, edito da Bompiani, è bellissimo. Ci sono pennellate di saggezza distribuite col sentimento di chi ha voglia di lasciarsi andare, di dare via libera a quei valori che ancora oggi rappresentano la forza e la bellezza dell’esistenza. Il ritorno dei sentimenti nella vita di ogni giorno è terapeutico e lenitivo, rende tutto più umano, gradito, piacevole, contribuisce a spezzare quei muri che ci impediscono di osservare, di godere, di vivere con gioia il breve tempo dell’esistenza. E’ in questo clima familiare che lascio scivolare una bellissima pagina d’amore filiale radicata e profonda, che tutti dovrebbero leggere, per riconquistare quei valori che, se ben compresi e amati, alleggeriscono le nostre ansie, i nostri dubbi, i nostri egoismi. Inizia così:
“Nel salotto della mia vecchia casa torinese, dove trascorsi l’infanzia e l’adolescenza, mio padre, ormai ottantaduenne, mi parla del suo passato. Ricorda lucidamente e in ogni dettaglio quello remoto, ma la memoria talvolta s’incespica su quello più recente. Lo ascolto come un figlio deve ascoltare un padre: con attenzione, con rispetto, con riconoscenza. Mi parla, lo lascio parlare, e gli faccio tante domande, ma solo quelle cui può darmi una risposta. Mi piacciono questi suoi monologhi, che, pur fra lacune e amnesie, ancora m’insegnano qualcosa.
Di questa attenzione e dedizione anche lui mi è grato. Non me lo dice, per quel pudore che gli anziani hanno verso i giovani, i genitori verso i figli; ma mi è grato, e me lo rivela spiando ogni mio sguardo, ogni mio gesto. Sa che la nostra conversazione, cioè i suoi monologhi che affettuosamente incoraggio, avranno fine, che, a un certo punto, mi alzerò per congedarmi, lasciarlo, tornare a Roma. Spia i miei sguardi e i miei gesti perché vuol essere lui, quando mi avvierò verso il guardaroba, ad aiutarmi a indossare il soprabito. Per mio padre, un ennesimo segno d’affetto; per me, una manifestazione d’amore, tanto più toccante, quanto più discreta.
Finalmente ci salutiamo, e lui mi domanda sottovoce quando ci rivedremo. Dice d’avere ancora tante cose da raccontarmi, perché non ricorda di avermi già raccontato tutto. E’ un modo di sentirsi vicino a me e di farmi sentire vicino a lui. In fondo, quel passato non è solo suo. E’ anche mio perché, almeno in parte, insieme l’abbiamo vissuto. I momenti difficili di un genitore sono anche i momenti difficili di un figlio. Quante cose mio padre mi ha dato, senza mai chiedermi nulla in cambio, senza mai impartirmi lezioni, senza mai farmi prediche: solo con l’esempio, cioè con l’adempimento integrale del proprio dovere. Devo tanto a mio padre, che crede, alla sua età, di dovermi, lui, ancora qualcosa. Mia madre ha settantotto anni. E anche lei crede di essermi sempre debitrice, mentre mi ha dato tutto quello che un figlio può ricevere da una madre. Non mi deve più nulla anche perché m’ha dato una cosa grandissima: una presenza quasi medianica. Posso esserle lontano migliaia di chilometri, ma lei è sempre vicina, in una sorta di magica simbiosi: i miei sono diventati i suoi pensieri, i suoi valori, i suoi ideali. Reciso, alla nascita, il cordone ombelicale che a lei mi univa, ne è rimasto un altro che nessun bisturi potrà mai amputare. Mia madre mi ha insegnato la pietà per chi cade, la clemenza per chi sbaglia, la carità per chi ha bisogno, l’umiltà di fronte ai deboli, la fierezza di fronte ai potenti e ai prepotenti. Mi ha fatto capire – e non è stato facile – l’importanza di essere sempre me stesso, di non mostrarmi diverso da ciò che sono, di non tradire mai quei piccoli e grandi valori o ideali che sempre dovrebbero ispirare le nostre azioni. Mi ha fatto capire che se non diamo un senso alla vita, questa non sarà mai degna d’esser vissuta. Nell’umanità mia madre crede ciecamente: basta sentirla quando ne parla. Con gli occhi del cuore, cui nulla sfugge, essa se ne scorge il bene e il male, gli eroismi e le miserie, le grandezze e le grettezze; e tutto cerca di comprendere, e tutto perdona. Crede nell’umanità, e vorrebbe che ci credessero gli altri ma, soprattutto, che ci credessi io, suo figlio. Io però, qualche volta, ho paura di non crederci abbastanza, e allora mi assalgono i rimorsi e mi sento in colpa. E non tanto verso l’umanità (quanto è astratto questo concetto!), ma verso mia madre, che in essa sa scoprire il bello, mentre io vedo soprattutto il brutto, o, comunque, essa mi appare peggiore di come mia madre la immagini. Chi mi conosce bene, dice che somiglio a mia madre; e questo mi riempirebbe d’orgoglio, se non sapessi che non le somiglio proprio nelle cose che in lei più ammiro: l’altruismo, l’ottimismo, la fede nell’uomo, l’impegno sociale. A mia madre devo la disciplina quotidiana: “A quest’ora fai questo, a quest’ora quest’altro”; le devo la corroborante esortazione: “Fai ogni giorno una cosa per il semplice motivo che preferiresti non farla”; le devo il monito buddista: “Semina un’idea e nascerà un’azione; semina un’azione e nascerà un’abitudine; semina un’abitudine e nascerà un carattere; semina un carattere e nascerà un destino”; le devo la grande verità siddhartiana: “Nella mente ha origine la sofferenza dell’uomo e nella mente trae principio la sua cessazione”. Amiamo, dunque, i genitori, onoriamoli e ricordiamoli; in fondo, dopo averci dato tutto quello che potevano darci, ci chiedono di poterci dare ancora, di poterci guidare coi loro suggerimenti, confortarci con la loro parola accompagnata da un sorriso, da una carezza, da una mano sulla spalla. E più ci hanno dato, più si sono silenziosamente sacrificati, più credono di non aver fatto abbastanza il loro dovere.Ci hanno dato, e ci danno, quello che abbiamo loro chiesto, ma anche quello che loro avrebbero voluto che noi gli chiedessimo. Ci hanno dato la vita e sarebbero pronti a rinunciare alla loro per rendercela ancora più bella, più ricca, più piena, più gioiosa. Non sanno – questo davvero non sanno – che senza di loro sarebbe stata più brutta, più povera, più vuota, più triste. I genitori non presentano mai i conti, non avanzano mai pretese: donano, e basta. L’amore che ci portano è il più disinteressato. Le loro parole rivelano tutto e non sottintendono nulla: partono dal cuore, puntando direttamente a quello nostro. I loro consigli sono il risultato d’una preziosa esperienza, viatici per noi insostituibili; e noi sbagliamo per non averli tenuti nel debito conto. Ma i genitori perdonano, e continuano a volerci bene. Dopo essere stati, negli anni infantili e giovanili, il nostro guscio e il nostro rifugio, diventano, con il tempo, la nostra ancora e la nostra bussola. Quando tutti si dimenticheranno di noi, o ci volgeranno le spalle, loro ci saranno sempre. Anche vecchi, malati o invalidi, non ci negheranno nulla di quello che ancora siano in grado di dare. Ci vogliono bene, e non si chiedono perché: è la loro missione e la nostra fortuna finché vivono. Ed è la nostra pena, quando non ci sono più”. Rileggendo queste pagine stupende di un grandissimo autore come Roberto Gervaso, non posso non ricordare anche quello che scrivere san Giovanni Paolo II sulla famiglia:“Occorre davvero fare ogni sforzo, perché la famiglia sia riconosciuta come società primordiale e, in un certo senso, “sovrana!” La sua “sovranità” è indispensabile per il bene della società. Una Nazione veramente sovrana e spiritualmente forte è sempre composta da famiglie forti, consapevoli della loro vocazione e della loro missione nella storia. La famiglia sta al centro di tutti questi problemi e compiti: relegarla ad un ruolo subalterno e secondario, escludendola dalla posizione che le spetta nella società, significa recare un grave danno all’autentica crescita dell’intero corpo sociale”.