L’ACQUA DI LOURDES
Non credo ai miracoli e non ci ho mai creduto; non credo neppure che le preghiere possano essere utili. Hanno pregato tanto i miei genitori quando ero bambina e anch’io ho pregato quando sono cresciuta, ma non è servito a nulla. Porto su di me il segno indelebile lasciatomi dalla malattia; si chiama encefalite, fa dolere la testa e ogni parte del corpo, fa salire la febbre; poi sparisce perché a volte le medicine, quelle sì, fanno il miracolo, ma non sempre risolvono tutto. A me è rimasto il marchio della sventura, sotto forma di una gamba che si muove a fatica. Chi vuole essere gentile con me dice che non si nota, ma io la sento quella gamba maledetta che resta dietro quando cerco di allungare il passo, che mi costringe a salire e scendere le scale un gradino alla volta, che mi impedisce di fare le cose normalissime che fanno i giovani e i meno giovani, come una partita a tennis, un’escursione in montagna o una corsa nel prato. Dicono che tutto sommato sono una bella ragazza, i capelli sciolti sulle spalle, lo sguardo profondo, la pelle ambrata, ma io sostengo che sono soltanto una mezza ragazza, perché la mia normalità si ferma all’altezza delle cosce e questo è quanto basta agli uomini con cui ho a che fare; chiunque si vergognerebbe di me il giorno in cui fosse costretto ad accompagnarmi lungo la scalinata della chiesa per condurmi all’altare: al suo fianco si trascinerebbe la storpia, la zoppa, la derelitta, colei che sì può sposare soltanto per compassione, mai per amore.
Cos’è per me la normalità? L’orgoglio mi suggerisce che è la rinuncia a ricevere pensioni di invalidità o altri generi di sussidio dalla pubblica amministrazione e trovare invece il coraggio di cavarmela da sola nella vita: in questo sono normalissima e non devo dire grazie a nessuno, ho studiato abbastanza per trovarmi
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