RACCOLTA DI ARTICOLI SULL’EDUCAZIONE
di
Felice Magnani
PREFAZIONE
Una società che sa educare è una società che promuove il benessere morale, sociale, culturale ed economico dei propri cittadini, è una società che costruisce giorno dopo giorno la libertà e la democrazia, che mette in pratica le regole contenute nella Carta Costituzionale, è una società che eleva sistematicamente il livello della propria coscienza civica, la propria capacità di conoscersi e di interagire, di rafforzare quell’armonia che nasce, cresce e si sviluppa nella consapevolezza collaborativa e nella capacità di costruire una forte solidarietà sociale. Potenziare l’educazione di un paese significa dotarlo di tutti quegli strumenti necessari che gli permettono di realizzare quell’armonia che crea equilibrio, conoscenza, cultura, desiderio di fare, di migliorare, di rafforzare quella voglia di operare e di operare bene a cui l’essere umano tende per realizzare una rete matura e duratura di rapporti interdisciplinari, su cui si fonda la sicurezza personale e quella collettiva. Essere educati significa mettere in pratica con coscienza i propri doveri, sapendo che è dalla natura dei doveri che prendono forma i diritti, quei beni che rendono più completo e rassicurante tutto il nostro sistema esistenziale, la nostra voglia di migliorare sempre un pochino di più il nostro livello societario. In una società proattiva le differenze, le diversità, le appartenenze, sono elementi che favoriscono il raggiungimento di un equilibrio stabile che coinvolge tutti, che consente a tutti di essere protagonisti di una storia che ha radici profonde. I valori, soprattutto nella loro naturale diversità, sono approdi sicuri che permettono all’umanità di riflettere, di ricercare, di unire, di consolidare, di creare sempre nuove opportunità che trovano nella sfera educativa la loro civile coesistenza, l’humus per riattivare e ricostruire, puntando decisamente verso una società nuova, che sa riconoscere il giusto dall’ingiusto, ciò che è utile da ciò che è inutile, le cose buone dalle cose cattive. Lavorare sui temi dell’educazione significa aggiornare sistematicamente la propria presenza nella comunità, tentare di costruire realtà che sappiano rispondere in modo esaustivo a quella voglia di unità e di progresso che anima le volontà dell’essere umano.
INSEGNARE L’EDUCAZIONE E’ UN DOVERE
Ci sono valori che sono validi sempre, anche quando il mondo cambia per rispondere in modo più deciso e diretto alle necessità di uomini e donne che sono alla ricerca di una identità. Il primo, il più importante, è il rispetto. Rispettare se stessi e gli altri è fondamentale se si vuole costruire una comunità che sia veramente a misura d’uomo. Chi ha il compito di insegnare il rispetto? La famiglia innanzitutto, quindi la scuola, le comunità religiose, le associazioni e quel mondo adulto su cui dovrebbe appoggiarsi il futuro dei nostri figli. Cosa significa insegnare il rispetto? Significa far capire che ogni persona, grande o piccola che sia, bianca o nera, bella o brutta, intelligente o ignorante, merita di essere trattata con umanità e attenzione, di essere accolta, capita, aiutata, ma anche sollecitata a essere coerente con le regole della comunità. L’armonia si costruisce con la fermezza dei doveri, con la volontà e con l’entusiasmo di contraccambiare l’aiuto ricevuto con un impegno quotidiano forte e determinato. Una comunità deve essere capace di dimostrare che le regole valgono per tutti e che tutti hanno il dovere di rispettarle per rendere più equilibrata e armonica la vita stessa della comunità. Ripartire dalla famiglia per tentare di rimettere in moto un sistema educativo è un dovere civico. Per questo occorre puntare decisamente sulla formazione di un chiaro senso di responsabilità, riattivando sensi e significati, volontà e creatività. Una comunità è tanto più bella, civile e armonica, forte e coesa, quanto più diventa capace di rafforzare con l’esempio la fede in quei valori che stanno alla base del bene comune. Il rispetto nasce da una organizzazione solida, capace di consegnare a ognuno un ruolo preciso, una responsabilità da gestire e da realizzare, un impegno da assolvere. Bisogna rafforzare i diritti e i doveri, dimostrando che nulla arriva per caso e che dietro a ogni conquista c’è un impegno quotidiano costante e determinato. E’ importante che ciascuno torni a fare il proprio dovere esercitando con autorevolezza l’impegno personale, la capacità di saper trasmettere esempi chiari, attendibili e credibili. Ogni cittadino deve imparare a gestire con determinazione il ruolo che ricopre all’interno del sistema societario, deve imparare a osservare e a capire quali siano le aspettative e i bisogni, orientando positivamente le proprie capacità. Una società che vuole modificare in meglio il proprio profilo ha bisogno di persone capaci, solidali, ferme, decise, pronte a dimostrare il proprio valore in ogni situazione e circostanza, soprattutto nei casi in cui la barca stenta a rimanere a galla. Nessuno può permettersi di fare quello che vuole, perché in questo modo danneggia gli altri, la nostra libertà finisce infatti dove inizia quella del nostro prossimo. Per troppo tempo sono state adottate forme di buonismo che hanno offerto un’immagine distorta della realtà. In una società civile l’educazione deve essere la struttura portante della comunità che vuole diventare capace di generare felicità e benessere. Viviamo un tempo in cui esplodono contraddizioni, ipocrisie, fragilità e dove diventa sempre più difficile capire e spiegare da che parte stia il buon senso, per questo è oltremodo fondamentale rimettere in campo l’educazione, richiamando i cittadini a compiere con grande impegno i propri doveri, nell’interesse della collettività. Dopo anni di qualunquismo e di relativismo, dopo momenti di grande confusione sulla strada da intraprendere, dopo la presa d’atto che una società priva di un chiaro indirizzo educativo non avesse la capacità di essere sul pezzo, la cultura italiana si sta attivando con grande fatica, con l’intento di rimettere in campo un’attenzione massima sui temi e sui problemi che riguardano il mondo giovanile, la scuola, la famiglia, la società civile, le agenzie educative, le organizzazioni civili e quelle religiose, con l’intento di riposizionare valori come l’autorità, l’autorevolezza, il rispetto, la collaborazione, una cultura che non sia solo individualismo elitario, ma capacità di saper distribuire la forza inventiva e creativa di una nazione che ha sempre sviluppato una forte capacità di saper offrire risposte adeguate a interrogativi complessi. Oggi il sistema educativo riapre una nuova epoca, figure rappresentative si mettono in gioco sulle pagine dei giornali, sui telefonini, sulle pagine dei computer, in televisione, il mondo dell’educazione abbandona per un attimo le comodità di una società fortemente individualista per diventare inclusivista, per dimostrare che gli uomini hanno bisogno di riattivare quel tempio della coscienza in cui la storia ha animato la sua energia creativa, la sua capacità di pensare e di giudicare, la sua voglia di saper rispondere ai mille perché che animano le nuove generazioni, molto spesso inchiodate a varie forme di schiavitù. Insegnare l’educazione torna a essere un dovere fondamentale dopo anni di eccessi di buonismo, di paure e di profonda crisi d’autorità. Parlare di nuovo di autorità non significa ridisegnare pezzi di storia ormai passati e privi di una qualsiasi attinenza con il mondo moderno, ma riportare sul terreno il valore morale di un sano esercizio democratico, quell’esercizio sul quale e in virtù del quale il paese ha ripreso a funzionare dopo gli anni disastrosi della guerra civile. Dunque l’educazione va insegnata, bisogna parlare con i giovani, far capire loro che la vita è fatta di sensi, di motivazioni profonde, di autorevolezza, di rispetto e di unione e che in tutto questo la famiglia e la scuola esercitano una funzione fondamentale, senza la quale si apre l’accesso a varie forme di disagio e di anarchismo. Democrazia e libertà si alimentano quotidianamente, hanno sistematicamente bisogno di essere valorizzate sul campo, di trovare sempre nuovi adepti e nuovi controllori che le sappiano far conoscere in tutta la loro bellezza e quindi che le sappiano rilanciare con uno spirito nuovo, adatto ai repentini mutamenti dei tempi e soprattutto alle aspettative dei cittadini.
A CHI SPETTA IL COMPITO DI EDUCARE?
L’impressione è che l’educazione, intesa come capacità di tirar fuori il meglio da ognuno, sia volata via, respinta da un mondo che non l’ama, che preferisce fare da sé, senza l’aiuto di valori, principi, regole, calandosi spesso in una visione anarchica della vita, dove ognuno tende a fare quello che gli pare. Il problema è che il mondo adulto, cui spetta il delicatissimo compito di costruire e di lasciare una testimonianza, spesso non lo fa, non solo, in molti casi si è dimenticato che i figli sono allo sbando, non hanno obiettivi, non sanno come liberare positivamente quelle energie che sono parte viva e attiva del loro patrimonio genetico. Uno dei più grandi problemi educativi della società in cui viviamo è l’immaturità di genitori che si dimenticano troppo spesso di quali compiti abbiano nel delicatissimo incontro con la vita. Il sistema educativo, in particolare per quanto concerne l’aspetto formativo, è quasi del tutto inesistente, la società non è più in grado di proporre modelli accettabili e quando cerca di farlo viene respinta perché giudicata non adatta, troppo coercitiva, troppo storicamente dittatoriale. Per questo motivo è molto difficile far passare principi e valori che non trovino riscontri pratici e diretti nella vita quotidiana. La famiglia, in particolare, sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia, in molti casi brancola nel buio, non sa come educare i propri figli e quando tenta di farlo diventa aggressiva e dominante, considera i figli come un patrimonio da proteggere sempre, ha perso col passare del tempo quella sua serena visione delle cose e del mondo che le consentiva di essere punto di riferimento costante per i figli e per la comunità. Siamo passati da forme culturali imposte a varie forme di libertarismo protezionista, ci troviamo cioè nella condizione di chi non sa più gestire con sufficiente obiettività e senso di responsabilità, quella libertà che qualcuno molto prima di noi ha conquistato sul campo con tanta fatica e tante rinunce. Di libertà si è parlato tantissimo in termini di affrancamento da varie forme di tirannia, ma non se ne è parlato abbastanza come strumento di emancipazione morale, di conquista etica, di capacità di saper entrare nella storia con uno spirito nuovo, rigenerativo, capace di far cambiare in meglio la società. Quanto contano la famiglia e la scuola nello sviluppo educativo della società? Tantissimo. Scuola e famiglia saranno buone educatrici se sapranno coniugare educazione e formazione, se sapranno aprire la cassaforte della vita, consentendo alle nuove generazioni di guardare avanti senza perdere mai di vista quei valori che alla vita sovrintendono per custodirla e promuoverla. La scuola diventerà tale se imparerà a riconoscere quell’immenso patrimonio di valori che alberga nella condizione umana, se saprà cogliere l’energia positiva delle cose, se saprà stimolare la via della conoscenza con la consapevolezza di essere parte fondamentale di un grande impegno comunitario. Gli esseri umani dispongono di tutto ciò che è utile per vivere bene, hanno strumenti molto importanti, primo fra tutti l’intelligenza, quindi la fantasia, la creatività, la capacità inventiva, hanno tutto ciò che può consentire all’essere umano di impostare una vita dinamica, attiva, ricca di tante possibilità. E’ fondamentale pertanto tornare a educare con impegno e determinazione a tutti i livelli, riabilitando la disciplina, l’educazione civica, il rispetto, la collaborazione, mettendo le persone, soprattutto i giovani, di fronte alle proprie responsabilità. L’autorità deve recuperare la propria identità, la legge deve sovrintendere le relazioni comunitarie, deve far capire che è compito di ogni cittadino collaborare per la costruzione del bene. Un eccesso di garantismo e di buonismo produce danni irreparabili, perché passa l’idea che all’interno di una certa area d’età si possa fare tutto quello che si vuole. Una società che vuole riemergere deve mettere i propri cittadini di fronte alle loro responsabilità, facendo capire che l’equilibrio sociale dipende dalla buona volontà di tutti, nessuno escluso. La famiglia deve tornare a stare vicino ai propri figli, con amore, non con un amore cieco e passivo, ma con un amore che sappia trasmettere sicurezza, entusiasmo, fiducia, rispetto in se stessi e nel prossimo.
L’EDUCAZIONE E’ ALLA BASE DI UN GRANDE RINNOVAMENTO
Viviamo un tempo che ci pone di fronte a grandi problemi, un tempo in cui riesce umanamente difficile capire e orientarsi, dare risposte immediate, scindere la verità dall’errore. Siamo un po’ tutti vittime e protagonisti di mutamenti che portano con sé un senso di indefinito, di realtà che superano di gran lunga le certezze alle quali ci eravamo abituati, facendole diventare muri protettivi della nostra vita, come se nulla potesse smuoverli o farli crollare. Quando si è dentro una forza dinamica che si muove rapidamente riesce difficile o addirittura impossibile decodificare, sdoganare, affidare a una razionalità certa il destino di una realtà in rapidissima trasformazione. Viviamo un’epoca di grandi fermenti: gli uomini si muovono, la natura stessa si muove, il clima cambia rapidamente, il sistema delle relazioni sociali si complica, la geografia e la storia determinano nuovi posizionamenti e contenuti ai quali non eravamo abituati. Il cambiamento ci coglie di sorpresa, come se volesse confermare la nostra condizione di precarietà. E’ in questi momenti che si pensa a chi è fragile, a chi vive nel disagio, a chi ha bisogno di capire da che parte va il mondo, per poter predisporre risposte adeguate. E’ in queste situazioni che si moltiplicano le responsabilità, la capacità di distribuire certezze, la voglia di riprendere quell’umanità che ci contraddistingue quando dobbiamo rispondere alla voglia di cuore. E’ in queste situazioni che i giovani, in particolare gli adolescenti, cercano di leggere la realtà osservando i genitori, gl’insegnanti e tutti coloro che incontrano sul loro cammino. Ricreare un sistema educativo convincente è fondamentale per mantenere viva una relazione generazionale fondata sulla fiducia e sulla collaborazione. I giovani hanno più che mai bisogno di credere nel mondo adulto, di avere termini di confronto forti e credibili, per evitare di cadere nelle maglie della delinquenza, della droga, della maleducazione. Hanno bisogno soprattutto di genitori che facciano i genitori, che stiano vicini ai propri figli, che li sappiano incoraggiare, spronare, stimolare, che non facciano loro provare quel deserto dell’indifferenza che apre spesso le porte di un disagio profondo. La famiglia ha un peso immenso nella vita delle persone e in quella della società. La sua presenza è garanzia di coesione, di sviluppo culturale e di rispetto generazionale, di unione solidale, di giustizia e di legalità, di collaborazione e di solidarietà. Se la famiglia funziona tutto l’asse educativo tiene, assolve con la dovuta determinazione il peso dell’emancipazione sociale delle persone. In molti casi la famiglia da sola non basta, ha bisogno dei supporti necessari per poter svolgere appieno la sua funzione educante, ha bisogno di educatori autorevoli che sappiano essere credibili, che sappiano dimostrare sul campo che la Costituzione italiana non è solo un esemplare testo scritto da appendere nelle sedi istituzionali. E’ un tempo questo in cui è necessario affidarsi alla fantasia e al buon senso, alla consapevolezza che il futuro dipende da come sapremo leggere, interpretare e applicare il nuovo che avanza. L’educazione potrebbe essere la piattaforma ideale su cui posizionare l’ansia di rinnovamento che anima tutti coloro che guardano oltre la siepe con fiducia e speranza, ma ha bisogno di educatori che ci credano e che sappiano essere testimonianza concreta della loro fede.
LA FAMIGLIA? CI SIAMO ACCORTI DELLA SUA BELLEZZA ANCHE NELLE PROVE DIFFICILI
La famiglia è sempre stata la punta di diamante della nostra società, sempre, anche nei momenti grigi, quando una pioggia di riforme o presunte tali le toglieva una parte della sua integrità costituzionale, sottoponendola a un vero e proprio lavaggio del cervello, come se all’improvviso una libertà esagerata rivendicasse il suo primato. Nella famiglia abbiamo imparato a piangere e ad amare, a soffrire e a rispettare, a gioire e a sognare, mettendo sempre davanti a tutto e dentro a tutto quell’amore che scuote anche quando pensiamo di essere diventati troppo grandi o intelligenti per riconoscerne la bellezza e l’importanza. La famiglia è stata ed è ancora il nostro sostegno, la culla nella quale abbiamo imparato a chiamare il mondo per nome, spostando la nostra curiosità anche in virtù dell’esempio di genitori e fratelli impegnati a rispondere concretamente ai mille perché della vita. Nella famiglia abbiamo imparato a riconoscere gli affetti profondi, quelli che tutti vorrebbero avere e che rappresentano quel vissuto solidale su cui abbiamo costruito le nostre speranze, il nostro desiderio di diventare migliori. Nella famiglia abbiamo riconosciuto i nostri limiti e quelli delle persone con le quali abbiamo condiviso una parte fondamentale del nostro cammino esistenziale. Li abbiamo riconosciuti e li abbiamo vissuti, ma non per questo il nostro amore si è dissolto anzi, proprio nelle difficoltà ha dimostrato la sua vera natura, quella che va oltre il materialismo della condizione umana. In quel nucleo così apparentemente eterogeneo e variamente composto abbiamo riconosciuto e ricomposto l’immagine della dignità umana, delle sue disperazioni, della sua voglia di lottare e di emergere, di non cadere sotto l’impietosa arroganza del male. Nella famiglia abbiamo imparato a perdere per guadagnare, abbiamo capito l’importanza del sorriso di una madre e l’autorevole fermezza di un padre. Una volta all’anno le riserviamo uno spazio straordinario, sicuri che la famiglia di Nazareth sia stata e continui a essere l’esempio più adatto per dimostrare quanto possa incidere sulla vita individuale e sociale delle persone e delle società. Abbiamo imparato ad amare la famiglia mettendola bene in evidenza nei presepi ad esempio, riservandole un angolo particolare, l’abbiamo condivisa mettendone in luce l’origine divina e la sua determinazione umana. Ci siamo accorti della sua bellezza nelle sue prove, quando ci siamo sentiti cadere il mondo addosso, quando abbiamo capito che eravamo veramente innamorati dell’amore e che, per quell’amore, eravamo decisi a fare qualsiasi cosa, persino diventare volontari a casa nostra, rinunciando alle inutili frivolezze del mondo. E’ sulla famiglia di Nazareth che la Chiesa, insieme ai suoi interpreti e rappresentanti, ha impostato la sua catechesi, la sua capacità di ricreare nella famiglia umana lo spirito di quella divina. E’ nella forza della coesione affettiva, che va oltre la sua natura estetica o materiale, che si protende a dimostrare che nelle piccole comunità cristiane si crea e si sviluppa la religione della continuità. Un amore, quello della famiglia, che non vive solo di rappresentatività o di visibilità, ma che cresce e si misura in tutta la sua estensione, con la sua capacità di essere risposta ai bisogni e alle necessità del genere umano, un genere che gode di un grandissimo dono, quello di avere a sua disposizione la forza di una grazia che aiuta a camminare sulla strada giusta, anche quando il mondo perde una sua chiara capacità visiva. Per questo la famiglia ha un estremo bisogno di essere valorizzata, di conoscere bene fino in fondo quali siano i suoi valori, quelli sui quali dovrà costruire tutta la sua esistenza. La famiglia ha bisogno di essere costruita, accompagnata, aiutata, ha bisogno della forza morale e intellettuale di una società che crede nella propria missione. Per noi che siamo nati tra il sorriso di una madre e la fermezza protettiva di un padre la famiglia è qualcosa di più di una scommessa, è la certezza che dentro la sua storia ci sia anche la nostra, con la sua ampiezza e con i suoi limiti, con la sua capacità e spesso anche la sua incapacità di saper rispondere alla chiamata dell’amore. La si può ritoccare, ridefinire, perfezionare, potenziare, ma non alterare, perché nella sua storia millenaria c’è il segreto della sua vera natura, della sua identità. L’unicità della famiglia umana risiede nella convinzione che nulla può sostituire l’amore avvolgente di una madre che sollecita e protegge, il rimprovero fermo e amorevole di un padre che scuote l’operosità di un figlio o di una figlia e la forza profonda dell’amore filiale, quello che osserviamo e viviamo nello sguardo delle persone che qualcuno ha voluto mettere sul nostro cammino per renderlo più sicuro. La famiglia è la nostra vita, il nostro passato, il presente e il nostro futuro, dobbiamo aiutarla, rafforzarla, capirla meglio, distribuirla con maggiore sapienza, con lei accanto tutto diventa più umano, meno incomprensibile, meno ingombrante, con lei abbiamo l’opportunità di estendere quel desiderio di felicità che è parte integrante del nostro dna.
LA FAMIGLIA NEL PENSIERO DI GIOVANNI PAOLO II, 1994 anno della famiglia
“…In che cosa consiste l’educazione?
Per rispondere a tale domanda vanno ricordate due verità fondamentali: la prima è che l’uomo è chiamato a vivere nella verità e nell’amore; la seconda è che ogni uomo si realizza attraverso il dono sincero di sé: Questo vale sia per chi educa, sia per chi viene educato. L’educazione costituisce, pertanto, un processo singolare nel quale la reciproca comunione delle persone è carica di grandi significati. L’educatore è una persona che “genera” in senso spirituale. In questa prospettiva, l’educazione può essere considerata un vero e proprio apostolato. E’ una comunicazione vitale, che non solo costruisce un rapporto profondo tra educatore ed educando, ma li fa camminare insieme verso un traguardo di reciproca soddisfazione”
L’Educazione è…
“…L’educazione è allora prima di tutto un’ “elargizione” di umanità da parte di ambedue i genitori: essi comunicano insieme la loro umanità al neonato, il quale a sua volta dona loro la novità e la freschezza dell’umanità che porta con sé nel mondo…”.
Il noi…
“…Il <noi> dei genitori, del marito e della moglie, si sviluppa, per mezzo della generazione e dell’educazione, nel <noi> della famiglia, che s’innesta sulle generazioni precedenti e si apre ad un graduale allargamento. Al riguardo, svolgono un ruolo singolare, da un lato, i genitori dei genitori e, dall’altro, i figli dei figli…”.
L’itinerario educativo conduce…
L’itinerario educativo conduce verso la fase dell’autoeducazione, che si raggiunge quando, grazie a un adeguato livello di maturità psico-fisica, l’uomo comincia ad <educarsi da solo>. L’autoeducazione supera, col passare del tempo, i traguardi precedentemente raggiunti nel processo educativo, nel quale tuttavia continua ad affondare le sue radici. L’adolescente incontra nuove persone e nuovi ambienti, in particolare gli insegnanti e i compagni di scuola, i quali esercitano sulla sua vita un influsso che può risultare educativo o diseducativo. In questa tappa, egli si distacca in qualche misura dall’educazione ricevuta in famiglia assumendo talora un atteggiamento critico nei confronti dei genitori. Nonostante tutto, però, il processo di autoeducazione non può non essere segnato dall’influsso educativo esercitato dalla famiglia e dalla scuola sul bambino e sul ragazzo. Perfino trasformandosi e incamminandosi nella propria direzione, il giovane continua a rimanere intimamente collegato con le sue radici esistenziali…”.
E’ il vangelo dell’amore…
“…E’ il vangelo dell’amore l’inesauribile sorgente di tutto ciò di cui si nutre la famiglia umana come “comunione di persone”. Nell’amore trova sostegno e senso definitivo l’intero processo educativo, come frutto maturo della reciproca donazione dei genitori. Mediante le fatiche, le sofferenze e le delusioni, che accompagnano l’educazione della persona, l’amore non cessa di essere sottoposto ad una continua verifica. Per superare quest’esame occorre una sorgente di forza spirituale che si trova solo in Colui che “amò sino alla fine” (Gv 13,1). Così l’educazione si colloca pienamente nell’orizzonte della “civiltà dell’amore”; da essa dipende e, in grande misura, contribuisce a costruirla…”.
La famiglia è…
“…La famiglia è una comunità di persone, la più piccola cellula sociale, e come tale è un’istituzione fondamentale per la vita di ogni società. Che cosa attende la famiglia come istituzione dalla società? Prima di tutto di essere riconosciuta nella sua identità e accettata nella sua soggettività sociale. Questa soggettività è legata all’identità propria del matrimonio e della famiglia. Il matrimonio, che sta alla base dell’istituzione familiare, è costituito dal patto con cui “l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione alla prole”. Solo una tale unione può essere riconosciuta e confermata come “matrimonio” nella società: Non lo possono invece le altre unioni interpersonali che non rispondono alle condizioni sopra riportate, anche se oggi si diffondono, proprio su tale punto, tendenze assai pericolose per il futuro della famiglia e della stessa società…”.
Quell’amore a cui…
“ …Quell’amore a cui l’apostolo Paolo ha dedicato un inno nella Prima Lettera ai Corinzi – quell’amore che è <paziente>, è <benigno> e <tutto sopporta> (1Cor 13, 4.7) – è certamente un amore esigente. Ma proprio in questo sta la sua bellezza: nel fatto di essere esigente, perché in questo costituisce il vero bene dell’uomo e lo irradia anche sugli altri. Il bene infatti, dice san Tommaso, è per sua natura <diffusivo> ( Summa Theologiae, I, q.5,a.4,ad 2). L’amore è vero quando crea il bene delle persone e delle comunità, lo crea e lo dona agli altri. Soltanto chi, nel nome dell’amore, sa essere esigente con se stesso, può anche esigere l’amore dagli altri. Perché l’amore è esigente. Lo è in ogni situazione umana; lo è ancor più per chi si apre al Vangelo. Non è questo che Cristo proclama nel <suo> comandamento? Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente, perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia, un fondamento che è capace di <tutto sopportare>. Secondo l’Apostolo, l’amore non è in grado di <sopportare tutto, se cede alle <invidie>, se <si vanta> se <si gonfia>, se <manca di rispetto> (cf 1 Cor 13,5-6). Il vero amore, insegna san Paolo, è diverso: “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,7)….
FAMIGLIA, MINORI, EDUCAZIONE
In molti casi la famiglia si lascia sorprendere da situazioni che non aveva previsto, ed è così che in molti casi non riesce più a seguire i propri figli, quello che fanno, come lo fanno, del perché assumono certi atteggiamenti, come mai tornano molto tardi la sera, perché non dicono più grazie, non chiedono più scusa e mandano a quel paese chiunque freni la loro smania di potere e di grandezza. In molti casi li difende anche quando hanno torto, quando si mettono fuori dalla legalità. I problemi non nascono all’improvviso, si fanno largo strada facendo, passando per vicoli stretti, dove spesso la luce lascia il posto al buio e dove in molti casi la lealtà si consuma nel piacere di una consumazione che toglie temporaneamente la percezione del dolore, ma crea le basi di un progressivo annientamento. Viviamo il tempo della consumazione, dove tutto ha il sapore di una immediatezza che brucia l’attesa, trascurando la bellezza di un percorso lungo il quale s’impara a osservare, a meditare, a riconoscere e a godere di beni preziosi che contano moltissimo. Ci siamo forse dimenticati di una chiacchierata familiare, di condividere il sorriso di una mamma, di aiutare un padre in difficoltà, di ascoltare il cuore parlante dei nonni, di fare qualcosa di bello per il gusto di sentirci utili, indispensabili, capaci di andare incontro alle difficoltà di chi dopo aver solcato le acque turbinose di una vita intensa è lì, da solo, che aspetta un incontro di conforto. E’ anche in questi casi che la famiglia diventa un argine, il luogo della rivincita, dove le energie si fondono per ricreare la vita, il luogo dove diventa bello ritrovarsi, riannodare, parlare, narrare, confrontarsi, costruire, lasciando che il cuore si riappropri dei propri spazi. Per questo la famiglia va promossa, difesa, protetta, fatta conoscere, deve tornare a occupare quella parte della vita che tinge di colori e di aromi l’esistenza, togliendola dalle inadeguatezze di disagi profondi e illusioni coltivate ad oltranza con l’idea di travolgere il senso delle cose, la loro appartenenza, la forza e la bellezza di una natura umana prodiga di scoperte e di consigli. Nella famiglia ritroviamo la nostra storia, i sentimenti e le emozioni che ci hanno fatto sognare, la voglia di farcela, di non sentirsi mai soli, sapendo di poter contare sempre su qualcuno più grande di noi che conosce le alterne fortune, le vicissitudini, le incongruenze, ma soprattutto come fare per non lasciarsi travolgere, per trovare risposte, per continuare a lottare e a vincere sulle difficoltà, per dare un senso alla nostra vita. E’ con la famiglia che ogni atto si colora di gioia e di speranza, anche quando il cielo diventa grigio e impedisce al viandante di vedere con chiarezza nel proprio futuro.
EDUCAZIONE ALLA VITA
C’è un tipo di educazione di cui si parla pochissimo, ma che riveste un’importanza fondamentale: l’educazione alla vita. Incontrarla, conoscerla, viverla, rispettarla, amarla, condividerla, motivarla, quante cose si possono fare per rendere la vita qualcosa di vivo e di presente, per consegnarle il rispetto che merita, per farla diventare punto di partenza e di arrivo, per darle il senso che le spetta. In molti casi basta poco, basta fermarsi un attimo a osservare, ascoltare, osservare, sentire, provare, basta porgere l’orecchio o inoltrare lo sguardo, c’è sempre qualcosa che colpisce, che fa riflettere, che allarga il pensiero e che alimenta la riflessione. La vita è un dono prezioso e come tutti i doni preziosi ha le sue regole, le sue necessità, richiede che la si comprenda, che si educhino le persone ad amarla. Educare al rispetto della vita non è semplice, si tratta di un percorso articolato e complesso, che richiede competenza, volontà, autorevolezza, passione, entusiasmo, amore, collaborazione e condivisione, capacità di saper entrare là dove il disagio non ha nessuno che lo rischiari. Non è facile dare un senso alle cose che si fanno, imparare a chiedersi il perché si fanno, quale sia la strada migliore, chiedere, confrontarsi, mettersi in gioco, dare il via libera alle risorse che ci sono state consegnate. Uno dei principali problemi di oggi è proprio quello di non saper trasmettere un senso, di non saper o di non voler entrare nel vissuto della nostra storia personale e di quella della collettività nella quale abbiamo avuto la fortuna di capitare, cercandone le ragioni, i motivi di fondo, la bellezza, i problemi. In molti casi si vive alla giornata, come se la vita non avesse un tempo, un cuore, un’anima, progetti e prospettive. La trascuriamo e così la priviamo della possibilità di dimostrarci quanto sia ricca e variegata, piena di risorse, di emozioni, voglia di farci stare bene con noi stessi e con il mondo. Per questo ha bisogno di potersi esprimere, di poter godere di quella libertà espressiva che è condizione fondante della sua storia. La vita va amata, per questo va motivata, fatta conoscere, capita, apprezzata, ha bisogno di conduttori e conduttrici che la sappiano veicolare là dove gli spazi sono molto stretti e la valorizzazione piena non sempre umanamente possibile. La vita va dunque valorizzata, soprattutto quando mostra il volto che amiamo di meno, perché è quello che ci fa soffrire. Imparare a vivere, dare un senso a quello che facciamo, a come lo facciamo, alla finalità per cui compiamo gesti, sviluppare immagini e pensieri, dare un senso allo spazio che occupiamo, al tempo che ci è stato consegnato, è fondamentale. Incontriamo spesso persone, a volte anche molto giovani, che vivono senza dare senso a quello che fanno, come se loro fossero il mondo e tutto il resto non contasse nulla. Si ha la netta sensazione che nessuno abbia mai detto loro qualcosa di importante sul come valorizzare la preziosità di un dono, sul come esprimerlo, conoscerlo, farlo apprezzare. Educare alla vita significa portarle rispetto, favorirne la crescita coltivandola giorno per giorno. Educare alla vita è un passaggio fondamentale verso la maturità, verso la comprensione di sé e degli altri, vivendo secondo un ordine, una prospettiva, un progetto, senza buttare via niente, pronti sempre a riconvertire e a promuovere, mantenendo ferma la convinzione che i doni, quando sono preziosi, devono essere conservati con molta cura. Oggi più che mai il dono della vita diventa importante, diventa importante parlarne, farlo conoscere, educare le persone a comprendere che cosa significhi occuparsene perché sia sempre un pochino migliore. Mai come in questo tempo, dominato spesso dalla follia, diventa importante ridare una dignità e un valore a quel mondo che accompagna i nostri passi, che ci richiama spesso al tema dell’amore, un amore che in molti casi viene violentato e ucciso. E’ davvero incredibile essere testimoni quasi quotidianamente di femminicidi, di uccisioni che hanno come palcoscenico la famiglia e i suoi componenti, che hanno come protagonisti ragazzi giovani che uccidono altri giovani, ragazzi che si abbandonano a terribili atti di bullismo, che non hanno più rispetto di nessuno, che non sanno più distinguere il bene dal male. Viviamo in una società che è stata privata della sua autorità e della sua autorevolezza, una società che cerca disperatamente di sopravvivere, che non sa più come fare per offrire risposte chiare, una società che vive in retrovia, nella paura, che non sa più reagire, che è spesso prigioniera della delinquenza e di una diffusa prevaricazione, che si guarda attorno per invocare un aiuto che spesso non arriva, che si rende conto di una fortissima fragilità sociale dalla quale riesce difficile emergere. Educare alla vita diventa quindi un passaggio obbligato, diventa fondamentale per rimettere a posto una società che non sa più cosa fare per dimostrare la propria fragilità. Educare alla vita significa ripartire dalla famiglia, una famiglia che ha un assoluto bisogno di essere aiutata, di trovare uno spirito nuovo, di trovare dentro di sé la forza di reagire, di dimostrare che nella vita educativa è presente e vuole essere artefice di un positivo e autorevole cambiamento. Educare alla vita significa dare un volto nuovo alla scuola, renderla più attiva e pragmatica, più attenta ai problemi e alle vicissitudini, più vicina ai cambiamenti, più capace di dare risposte concrete a un mondo giovane vittima molto spesso di una società totalmente assente e quindi incapace di dare risposte ferme e convincenti. Famiglia e scuola devono fermarsi un attimo e riflettere, riflettere sulla opportunità di ritrovare la forza di saper essere più vicine a quel mondo giovanile che ha bisogno di essere aiutato a riflettere su cosa significhi vivere, amare, voler bene, collaborare e rispettare.
L’EDUCAZIONE CONTRO IL MALE
La lotta contro il male parte dalla famiglia, continua con la scuola e si rafforza con una coesa e significativa opera di convergenza educativa. Non basta in molti casi ascoltare e prendere atto, bisogna agire e operare, essere attivi nel pensiero e nell’azione sociale. Il vero punto di partenza contro l’aggressività del male è dunque l’educazione e cioè la capacità di saper tirar fuori il meglio da se stessi, imparando a leggere con attenzione la realtà, mettendo così a punto un adeguato sistema difensivo e offensivo, capace di eliminare tutto ciò che impedisce alla democrazia di realizzarsi nel modo più vero e convincente possibile. Per combatterlo, ad esempio, occorre formare cittadini preparati, determinati, convinti e capaci di dimostrare sul campo che al male c’è sempre un rimedio e che bisogna imparare a restituire al bene il suo diritto di esistere e di avere la meglio su chi lavora per distruggerlo. Imparare a parlare, ad ascoltare, a osservare, a confrontarsi, ad avere rapporti chiari e diretti, a non entrare mai in uno stato di sudditanza o di paura, ma essere sempre consapevoli che la linea del bene passa sistematicamente dentro di noi e ci chiede di essere leali, consapevoli, chiari e onesti. E’ nella base popolare che si costruisce il buono della società civile, è nell’esempio di tutti i cittadini che si rafforza il sistema democratico, è nella paura che si consolida l’arroganza, la tendenza a sottomettere il prossimo e a renderlo schiavo. Educare all’affrancamento significa educare alla liberà personale, una libertà che non è mai servilismo e omertà, ma chiarezza esecutiva, capacità di stare sopra le iniquità, di orientarle e farle conoscere, perché chiunque possa combatterle. Per una lotta chiara e consistente bisogna sempre partire dall’inizio, da quando la vita si dischiude e chiede chiarezza. Ecco perché la famiglia e la scuola sono fondamentali nella lotta contro il male, perché sviluppano l’idea che il bene comune contribuisca a far crescere una società rispettandone i diritti, nella convinzione che a ciascuno spetti il compito di costruire una piccola parte di quella democrazia del diritto che sancisce la forza e la bellezza del dovere. Preparare cittadini onesti e leali, capaci di respingere il male, di aprire nuovi sentieri di pace e di collaborazione, attenti a tutto ciò che li circonda, pronti a tutelare e a difendere, sono valori di cui una società in crescita si avvale per allontanare ogni tipo di iniquità. Onestà, cultura, educazione, formazione, diritto, dovere, sono parole che dichiarano apertamente la loro volontà di incarnarsi, per essere pronte a lottare contro le iniquità che il potere del male distribuisce, nel tentativo di distruggere tutto ciò che di buono e di leale la democrazia tenta, a volte anche con molta difficoltà, di realizzare.
IN DEMOCRAZIA L’EDUCAZIONE HA UN RUOLO FONDAMENTALE
Gli ultimi fatti, in particolare il tentativo di suicidio di un’adolescente a causa di fenomeni di bullismo, dovrebbero richiamare l’attenzione del paese, di tutto il paese, in particolare dello Stato. Forse non bastano più voci sparse qua e là, in molti casi prive di senso, dettate da varie forme di qualunquismo e di fatalismo, gettate come acqua sul fuoco per cercare di confondere le idee, di dimostrare che si tratta delle solite ragazzate, di normali momenti di crescita. Il bullismo, nelle forme che si vanno rafforzando ed estendendo, dimostra tutta la sua pericolosità, è un gravissimo fenomeno di prevaricazione dell’ordine democratico, è l’ulteriore segnale di un paese che ha va perdendo la sua fiducia nella legalità costituzionale, che ha perso per strada la volontà di affermare che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato, che si affida a dei fantomatici punti di vista individuali, invece di affrontare con autorità e determinazione i problemi di quella gente che non smette mai di credere e di sognare che l’educazione e la speranza in un mondo migliore possano di nuovo fare breccia nel cuore dell’umanità. E’ da tempo ormai che il fenomeno del bullismo semina le sue vittime, è da tempo che la società si attende risposte ferme, realizzabili, capaci di mettere la parola fine a mascalzonate che gettano fango su fango a una nazione già fortemente provato da mille problemi. Si tratta di mettere mano con decisione a una vasta opera di rigenerazione educativa che parta dalla famiglia e che passi attraverso la scuola, la società civile e tutte le agenzie educative. Si tratta altresì di fare in modo che le persone imparino a rendersi conto che i diritti e i doveri sono di tutti e che tutti, nessuno escluso, devono concorrere alla costruzione dello stato democratico. La giovinezza non deve e non può essere un alibi per destabilizzare, anche i giovani devono concorrere come agli adulti alla costruzione di una democrazia leale, legale, giusta, capace di sviluppare serietà e armonia, collaborazione e senso dello stato. I fenomeni, quando turbano la quiete pubblica, quando violano la libertà delle persone, quando inducono al suicidio, devono essere affrontati con la giusta determinazione, senza il timore di sbagliare, ma con la certezza che chiunque deve assumersi le proprie responsabilità, fino in fondo. La legge è uguale per tutti. La forza di un paese sta, è vero, nelle nuove generazioni, quelle che respirano il profumo della giovinezza e dell’innovazione, ma non per questo qualcuno ha il diritto di mettere in pericolo la vita degli altri. Uno dei grandi problemi dell’Italia di questi ultimi anni è la sua proverbiale incapacità di dare risposte immediate e adeguate ai demoni che la destabilizzano. Un paese veramente democratico deve saper insegnare l’educazione, deve impedire che la stupidità umana si appropri di un potere che non le spetta, deve essere rapida e veloce nel sottoporre il valore reale della legge. Forse è arrivato il momento di rivedere lo status giuridico dei minori, quello della famiglia e quello della scuola, forse, o senza forse, è il caso che ciascuno sappia realmente a cosa va incontro se calpesta la libertà degli altri. Si tratta di avviare una fondamentale opera di soccorso esistenziale in un momento in cui l’essere umano ha perso in molti casi per strada la propria umanità, dimenticandosi di quali siano i propri doveri, di cosa sia la libertà, di che valore abbia una regola, di che cosa sia realmente una democrazia matura. Studiare, insegnare, apprendere, educare, ogni infinito ha la sua storia, ogni uomo deve riappropriarsi della propria umanità, deve avere ben chiaro di cosa significhi vivere dentro una comunità.
L’EDUCAZIONE E’ VOLATA VIA
E’ incredibile accendere la televisione e sentire un politico che urla parolacce. E’ incredibile come in questo paese si sia persa per strada l’educazione, la capacità di saper portare rispetto a se stessi e agli altri. E’ incredibile come nel momento in cui si rende necessario amare e proteggere la propria comunità si alimentino l’odio e la violenza proprio da parte di chi dovrebbe dare l’esempio. E’ incredibile come ci si dimentichi che noi adulti abbiamo il sacrosanto dovere di essere, nei limiti del possibile, figure positive di riferimento per un mondo giovanile alle prese con uno dei momenti più difficili della sua storia. E’ davvero incredibile come l’educazione non sia più il valore, il punto di partenza dal quale decollare per restituire onorabilità e rispetto a un paese che fa acqua da tutte le parti. Eppure è così. E’ così per la televisione, per il computer, per quelle istituzioni che hanno rappresentato la svolta storica nella rinascita post bellica: la famiglia, la scuola, la società civile, lo stato. In una nazione in cui si parla del pericolo del terrorismo sui giornali, alla radio, in tv, non si fa niente o quasi per impedire che la maleducazione diventi padrona delle vie, delle strade, dei vicoli, delle piazze, dei centri e delle periferie, delle scuole, delle famiglie e degli oratori. E’ incredibile come il confronto politico sia diventato circo d’insulti, spazio di guerra dove si consumano i talenti e le risorse umane, risucchiati dalla parte peggiore dell’umanità, quella che è costantemente proiettata a gettare fango sul prossimo. E’ incredibile come di pari passo con la paura del terrorismo diventiamo spettatori quotidiani di atti d’intemperanza che dovrebbero far aprire gli occhi a chi ha ricevuto il compito di educare e di formare le nuove generazioni. E’ incredibile come un paese dotato di una bella tradizione democratica, non sia più capace di amor proprio, di dire basta con decisione alle nequizie umane, di affrontare con forza il male per dimostrare a tutti che quella del bene è la via su cui abbiamo fondato la nostra rinascita. E’ arrivato il tempo di dire basta agl’insulti, alla corruzione, agli odi di classe, a varie forme di maleducazione riversata sulla buona fede delle persone. E’ soprattutto in questi momenti che si misura la forza della legge. Democrazia non è anarchia, è molto di più, qualcosa che parte dal cuore e trova la sua conferma nella ragione, nella capacità di diventare arbitra, proprio quando l’essere umano perde la capacità di scindere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, la legalità dall’illegalità. Vivere democraticamente è un’arte, esercitare la libertà presuppone una forte predisposizione culturale, lavorare con impegno è parte di una matura presa d’atto, avere coscienza di essere protagonisti di quella straordinaria realtà che è la vita consente di creare dentro e fuori di noi tutti i presupposti di una convivenza capace di avviare importanti cambiamenti, capaci di iniettare una forte dose di serenità e di ottimismo in tutti coloro che continuano, nonostante tutto, a credere nella reale possibilità di uscire da tutte quelle difficoltà che rendono più impervio il nostro cammino.
UNA GRANDE LEZIONE DI EDUCAZIONE ALLA VITA
La storia del coronavirus è senza alcun dubbio una grande lezione di educazione, l’umanità è stata infatti costretta a far uscire allo scoperto alcuni valori che risultano essere fondamentali nella vita delle persone, l’obbedienza per esempio. Certo quando c’è di mezzo la vita individuale e quella della collettività forse diventa più facile porsi il problema, scegliere con decisione da che parte stare, anche se non sempre le risposte sono immediate, soprattutto se non sono accompagnate da condizioni di natura penale, che annullano il principio dell’acquisizione morale o della coscienza civica, quella che si fonda sulla consapevolezza e sul senso di responsabilità individuale, sulla necessità che agire in un certo modo sia un atto di assoluta civiltà. Ritrovare l’obbedienza è un po’ come riscoprire quel senso dell’autorità che ci portiamo dentro, che ci consente di ricreare un rapporto e una relazione con noi stessi e con il prossimo, un po’ come quando governati dall’autorità paterna e da quella materna, dovevamo fare certe cose per imposizione, senza replicare. Non sempre il passaggio dall’imposizione a quello di una libera assunzione è benevolo e scontato, i passaggi per la loro natura spesso non ne lasciano il tempo e può capitare che creino momenti di evidente confusione mentale, in cui la persona si senta umanamente sminuita, privata della sua libertà personale, materialmente costretta a sottomettersi a una volontà che non corrisponde alla propria e che nella maggior parte dei casi viene vissuta e pensata come nemica. Spiegare a una persona il perché debba adottare certi comportamenti è un po’ come violentarla, come privarla di una libertà che riteneva acquisita, perché nella nostra tradizione storica e culturale la coscienza non ha mai avuto quel ruolo primario che le spetta di diritto. Il fare e il non fare sono quasi sempre il frutto di una intermediazione, di un processo interpersonale di cui si devono definire esattamente i confini, il punto di partenza e quello di arrivo, la rilevanza, l’occasionalità, c’è insomma una sorta di relativismo educativo in base al quale nulla deve essere coercitivo e tutto passibile di personalizzazione. Rimanere in casa, durante l’epidemia di coronavirus, ad esempio, è una forma di obbedienza civile che non dovrebbe assolutamente aver bisogno di supporti di natura penale, cioè se non fai quello che ti dico ti do una multa salatissima o ti metto in prigione per un certo periodo di tempo. In una società evoluta non ci dovrebbe essere bisogno di ricatti o di varie forme di totalitarismo impositivo, l’assunzione di una prassi di natura sociale e quindi collettiva dovrebbe essere la norma, una determinata cosa se viene richiesta la si deve fare per il bene comune, perché così facendo tutti ne traggono vantaggi e benefici. La famiglia e la scuola hanno responsabilità enormi in questo campo, l’educazione va spiegata, analizzata, costruita e soprattutto va vissuta, perché abituare alla concretezza del vivere sociale è la più alta forma di coesione. Ritrovare il gusto dell’obbedienza è un po’ come riscoprire il senso di quello che facciamo, del perché lo facciamo, di chi siamo, di quali siano quei valori societari che ci permettono di vivere bene insieme e di migliorare sistematicamente la nostra civile convivenza. E’ soprattutto in momenti difficili come quelli che stiamo vivendo che ci rendiamo conto se siamo pronti a sostenere con determinazione e coraggio la nostra identità e la nostra appartenenza, è nella coscienza civica individuale che si fa largo il respiro educativo di un paese che vuole dare l’esempio, che vuole dimostrare di essere all’altezza dei compiti che lo attendono. L’obbedienza non è mai un fatto casuale, presuppone un valore etico, una motivazione, ci si comporta in un certo modo non solo perché è necessario, ma perché è l’ordine morale della comunità che lo esige, perché la vita individuale si realizza e si completa nella sua vocazione sociale, nell’essere parte attiva di un tutto. Obbedire non è sottomettersi, non è essere schiavi di uomini o convenzioni, non è privarsi della propria libertà, semmai potenziarla, renderla ancora più ampia e solidale, fare in modo che si attivi e si compia all’interno di un processo di riconoscimento, dove l’azione, qualunque essa sia, risponda sempre a un input di natura morale, sociale, sia consapevole di quello che compie, del valore stesso della sua natura. In questi anni di appropriazione tecnologica, il senso collettivo, l’appartenenza, la dimensione sociale, la tradizione hanno assunto espressioni iconiche, ci troviamo di fronte a una generale contrazione di atteggiamenti, dove il particolare prevale sul generale e dove nella maggior parte dei casi ci si appella a una non ben definita e identificata libertà di azione. Si è perso il senso della misura, ci si è disabituati all’azione comunitaria, al valore di beni come il rispetto, l’altruismo, la considerazione non solo fisica, ma soprattutto morale dell’altro, ciascuno vive infatti nel proprio mondo, pensando che quello dell’altro sia qualcosa di profondamente antipatico e avverso. Non è così. Una società cambia se impara dagli errori che commette, cambia se si pone in una condizione di ascolto e di valorizzazione, cambia se impara a osservare un codice di comportamento uguale per tutti. In questi giorni di coronavirus assistiamo a varie forme di eroismo, l’animo umano si è acceso e questo fa ben sperare per la sua evoluzione, ma non dobbiamo dimenticare che non bastano solo gli eroi di turno, è necessario un passo avanti da parte di tutti, occorre che gli esempi tornino a essere illuminanti per tutti. Dopo la morte torna la vita, ma la morte non è mai per nulla, ha anch’essa un’azione catartica, ci induce a riflettere, a prendere atto che la vita è un valore onnicomprensivo e per questo straordinariamente grande e prezioso. Stare in casa diventa quindi un’elevata forma di obbedienza, dentro la quale si forma e si consolida una nuova volontà, quella che ci consentirà, una volta scomparso il virus, di poter guardare avanti mettendo in campo tutto quello che abbiamo appreso sbagliando sistematicamente, ma con la prua rivolta verso un orizzonte più umano, dove lo stare insieme sia frutto di una fortissima componente educativa, fondata sulla coscienza di essere parte attiva di una unità che si muove continuamente e che richiede sempre il massimo sforzo da parte di tutti. Oggi abbiamo di fronte molti esempi straordinari al riguardo, c’è un mondo che si prodiga per aiutare il prossimo e lo fa con una forza d’animo incredibile, dimostrandoci il valore reale e profondo della nostra gente, è in questa direzione che occorre marciare, soprattutto quando il virus se ne sarà andato e il paese dovrà ricominciare, mettendo bene in vista sul campo tutto quello che avrà visto, osservato, vissuto e imparato. Sarà l’inizio di un’altra storia.
L’EDUCAZIONE E’LA STRUTTURA PORTANTE
L’educazione è la struttura portante di tutta la nostra vita, caratterizza i nostri comportamenti, dà vigore e sostanza alle nostre azioni, definisce i rapporti interpersonali e qualifica il nostro livello di appartenenza alla comunità. In questi ultimi anni gli esseri umani si sono cimentati in una corsa sfrenata al benessere personale, al consumismo, a varie forme di cultura fai date, a sistemi educativi discutibili, privati di quella dimensione disciplinare che ha fatto sistema, svuotando così la libertà dei suoi contenuti fondamentali. Oggi la maleducazione alligna un po’ dappertutto, nelle famiglie, nelle scuole, nelle vie, nelle piazze, nello sport, negli oratori, nei posti di lavoro. Credo che occorra prenderne coscienza, fare un esame molto approfondito e compiere un grande sforzo individuale e comune per riconsegnare alla vita il suo senso e la sua dimensione. Per fare questo è necessario che la società si affidi a chi abbia conservato la voglia di lottare per l’affermazione del dovere come base comune sulla quale costruire la rinascita del paese. Per troppo tempo abbiamo ascoltato retori interessati a sventolare la bandiera dei diritti, come se tutto fosse dovuto, per poi fare dei doveri la bandiera di un individualismo sfrenato. Abbiamo trascurato la finalità delle nostre azioni, i contenuti del nostro agire, abbiamo disimparato a chiederci il perché di un atto, che cosa siano il bene e il male, che cosa significhi realmente vivere in una comunità, quali siano i diritti e quali i doveri, chi sia realmente il nostro prossimo, quello che incontriamo per strada e quello che vive dall’altra parte del muro. Sono sempre più convinto che l’umanità abbia bisogno di un bagno d’ordine, di un ordine ragionato, che nasca e si sviluppi con energia e fermezza all’interno di quei caratteri democratici che ci sono stati assegnati da una storia spesso severa e contraddittoria. E’ necessario rimettere in moto la coscienza individuale e quella collettiva, lasciarsi trasportare dalla bellezza delle regole e delle leggi, dalla legalità in generale e soprattutto parlare molto con il mondo giovanile, quel mondo che è stato abbandonato per fare posto a una lunga serie di priorità che lasciano completamente scoperto il sistema dell’educazione e quello della formazione.
L’EDUCAZIONE AL CENTRO
E’ arrivato il tempo di chiederci se quello che stiamo facendo vale, se contribuisce a costruire una società fondata innanzitutto sul rispetto: rispetto delle regole familiari, sociali, morali, politiche, economiche. E’ forse arrivato il momento in cui varrebbe davvero la pena fermarsi e fare un profondo esame di coscienza per capire se con i nostri comportamenti siamo in grado di lasciare una testimonianza importante ai nostri figli, a quelle generazioni che si guardano attorno smarrite, convinte che il mondo sia un caos infinito e che non ci sia più spazio per il buon senso. C’era un tempo in cui ci insegnavano l’esame di coscienza, ci facevano riflettere sulle liceità che ci concedevamo, ci facevano fare penitenza, ci mettevano di fronte a un comune senso di responsabilità, ci insegnavano le buone maniere e in qualche caso ci mettevano in castigo per pensare in modo più concreto alle marachelle che avevamo combinato. Oggi non è più così, puoi permetterti di offendere un adulto anche se hai solo undici o dodici o tredici anni, perché tanto la famiglia e la legge ti difendono, puoi permetterti di scrivere sui muri, perché tanto non ti vede nessuno e poi anche se qualcuno ti vedesse lo tieni in pugno con la tua disonestà e quella dei tuoi amici, puoi permetterti di urlare a squarciagola ovunque e proferire parolacce di ogni tipo e colore, puoi bere la Coca Cola e buttare la lattina per strada, magari prendendola a calci, puoi compiere atti di vandalismo, perché tanto, poi, c’è il volontariato che rimette le cose a posto, puoi permetterti di compiere ritorsioni, perché tanto nessuno sente, vede, ascolta, puoi abusare di alcol e di droghe, perché trovi di tutto e di più agli angoli delle strade e delle piazze. Puoi andare a vedere una partita e spaccare tutto, puoi compiere tutte le bravate che vuoi perché tanto te la cavi quasi sempre con poco o niente. E se per caso lo sapessero certi genitori? Non succederebbe niente anzi, magari ti direbbero che lo avrebbero fatto anche loro, che i vecchi rompono le scatole perché non si ricordano di essere stati giovani e in qualche caso direbbero di continuare e che loro ci starebbero a dare una mano. Quando i figli non hanno più argini dilagano e allora l’esame di coscienza va fatto sul serio e da parte di tutti, perché una democrazia che non fa l’esame di coscienza ogni tanto è un sistema senza futuro. L’esame di coscienza bisogna ritornare a insegnarlo soprattutto a quelli che noi, da ragazzini, chiamavamo i grandi, quelli intoccabili, pronti a tirarti una sberla se gli avessi mancato di rispetto. E’ lì che si annidano varie forme di falso buonismo, di protezionismo, di superomismo, di superficialità, di esempi moralmente inadeguati, che non portano a nulla di buono, se non a peggiorare una situazione che è già di per sé disastrosa. In molti si chiedono come sia oggi possibile, democraticamente, riportare un minimo di razionalità e di moralità là dove regnano l’anarchia e il caos, dove le decisioni non sono quasi mai in favore di una comunità coesa e collaborativa, ma rivolte quasi sempre al proprio nucleo, come se la famiglia non fosse parte integrante della vita stessa di un paese. Il clima di accondiscendenza esagerata creato da genitori onnipotenti sul piano dell’autovalutazione, ma assolutamente incapaci su quello della gestione critica dei rapporti interpersonali, finisce col creare situazioni gravissime, che svuotano di consistenza etica una società che si guarda attorno per cercare punti di appoggio, sostegni, aiuti per evitare il naufragio. I genitori dovrebbero tornare a fare i genitori, la scuola dovrebbe tornare a fare la scuola e il sistema lavoro dovrebbe essere mosso soprattutto dalla voglia di fare, di costruire, di rinnovare, di dimostrare l’energia positiva di un paese e della sua gente. Ci sono luoghi in cui la bellezza è a pezzi, ti guardi attorno e ti domandi in che razza di posto sei capitato, eppure sei in Italia, nel paese più bello del mondo, che tutti ci invidiano, ma non facciamo nulla o quasi per tenercelo stretto, per dimostrargli che gli vogliamo bene e che la nostra storia, quella dei nostri nonni e dei nostri avi ha ancora un senso. Ce lo lasciamo portar via con la scusa che il mondo è diventato globale, che la verità è nelle multinazionali e nella delocalizzazione, che lontano da casa nostra il costo del lavoro è inferiore e permette di fare le cose con più tranquillità e guadagnando di più. L’Italia di una volta non c’è più, ciò che è stato unito con grande entusiasmo e determinazione è oggi nelle mani di mezzo mondo, ognuno ha la sua parte di Italia, perché nella maggior parte dei casi è stata svenduta sull’onda di un’economia e di sistemi industriali e bancari assurdi, dove il dio denaro conta più di qualsiasi amor patrio. Abbiamo messo al bando un sistema educativo che poteva contare su valori laici e religiosi, che aveva la sostanza necessaria per generare positività e voglia di fare in un mondo giovanile rivolto al futuro. Abbiamo ridotto l’uomo a una succursale del sistema bancario, lo abbiamo reso impotente, incapace di formare famiglie sicure, gli abbiamo fatto credere che in democrazia è tutto concesso, che la libertà è un diritto acquisito, ma senza avergli insegnato che di troppa libertà si può anche morire. La libertà è stata usata come un grimaldello per forzare le serrature, la si è lasciata scivolare in nome di diritti, privati dei loro doveri, della loro dignità naturale. Si sono lasciate per strada l’etica e la morale e il bene comune è diventato un bene individuale, da raggiungere a tutti i costi, anche a prezzo di prevaricare gli altri. Viviamo in uno strano sistema democratico, dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e dove si continua a urlare che bisogna voler bene a tutti e accogliere tutti, pur sapendo che nella maggior parte dei casi l’eldorado non esiste ed è molto peggio di quello che qualcuno ha sognato nei paesi di origine. Abbiamo trasformato un paese civile in un altro dove l’anarchia regna sovrana e dove un padre di famiglia fa sempre più fatica a pagare gli stipendi dei magnati del business organizzato. Si fa un gran parlare di Europa unita, quando si sa benissimo che è oltremodo difficile mettere insieme paesi che si sono fatti la guerra per secoli e nelle forme più bestiali possibili, paesi che hanno insegnato l’arte della colonizzazione selvaggia in molte parti del mondo e dove decolonizzare è praticamente impossibile. Più il mondo si arroga diritti e più cede parti importanti della sua vita e della sua storia, col pericolo di rimanere schiacciato e privato di una sua democratica identità. Viviamo in una democrazia in cui di sera diventa proibitivo passeggiare perché corri il pericolo di essere stuprata o aggredita o rapinata, viviamo in un paese dove ci sono giovani che compiono atti delinquenziali nei confronti di altri giovani e dove la giustizia ha sempre due pesi e due misure, a seconda di come la propria vision politica suggerisce. La sicurezza è diventata un opzional e mentre i grandi sistemi si attrezzano per affrontare il terrorismo, ci sono minori che ne combinano di tutti i colori, grazie a un mondo adulto che si è dimenticato degli esempi. Rimettere al centro l’educazione è il minimo che uno stato civile possa fare, ma deve farlo subito e senza tentennamenti, per evitare che un paese bellissimo e con grandi valori alle spalle possa finire in un mare di guai, senza avere la forza di uscirne.
LO SPORT E’ EDUCAZIONE
Praticare un’attività sportiva significa crescere come persone e come cittadini. Crescere nella consapevolezza e nel senso civico, nella responsabilità individuale e collettiva, nella coscienza del diritto e del dovere. Lo sport è una grande scuola aperta a tutti, senza distinzione di colore, di sesso, di appartenenza sociale, politica o religiosa. E’ al di sopra delle parti, perché è parte integrante della vita stessa, aspirazione riconosciuta di ogni essere umano. E’ un formidabile mediatore culturale, un integratore straordinario, un educatore eccellente. In una società decisamente orientata verso forme sempre più concrete d’ integrazione etnica, lo sport potrebbe avere un ruolo decisivo, proprio per la sua natura aggregante, multirazziale, culturale. Ha il potere di sviluppare forme appropriate di competizione e di socializzazione. Ho conosciuto giovani senza famiglia, che hanno trovato nell’attività sportiva il rilancio verso nuove certezze. Lo sport educa al rispetto, migliora la comunicazione sociale e stimola il campo relazionale. Possiede la facoltà miracolistica di tirar fuori il meglio da ognuno e di fare in modo che le virtù sportive diventino forza propulsiva della società. Gli esperti sostengono che dovrebbe avere un ruolo primario all’interno della Comunità scolastica. Migliorare le dinamiche motorie e respiratorie, in ambito educativo guidato, significa migliorare l’attenzione, la concentrazione, la riflessione, il rilassamento, il controllo dell’attività comportamentale, vincere la paura e la timidezza, affrontare con fermezza e determinazione i diversi campi relazionali. Significa diventare padroni della propria attività espressiva, sviluppando forme di comunicazione sempre più contestualizzate e mirate. Lo sport educa le persone ad assumere comportamenti adeguati ad un corretto sviluppo fisico, all’acquisizione di eleganza formale e correttezza motoria, ad affrontare situazioni difficili. In molte circostanze siamo testimoni di un generale disorientamento comportamentale, manifestazione di un disagio interiore. Educare il proprio fisico non è solo un piacevole passatempo, è soprattutto un dovere che l’uomo ha nei confronti di se stesso, della famiglia e della società civile. Star bene con se stessi significa vivere meglio, trasferire ad altri il proprio benessere. L’educazione fisica ha un ruolo centrale nella vita degli esseri umani. Contribuisce a sviluppare il carattere e a risolvere, con la dovuta serenità, i piccoli e grandi disagi che la vita presenta. Contribuisce a creare un notevole livello di autocoscienza e di coscienza collettiva. Il nostro stato mentale è direttamente proporzionale al nostro stato fisico. Se il nostro corpo viene mantenuto in buona salute con la pratica di sport, manderà risposte positive alle endorfine del cervello. Educare all’attività sportiva risponde a precise sollecitazioni di carattere fisico e morale. Se le persone praticassero un’adeguata attività sportiva avrebbero meno pensieri negativi, acquisterebbero una buona armonia interiore e allontanerebbero tutte quelle tensioni che modificano negativamente il nostro carattere. Lo sport praticato seguendo precise indicazioni mediche e con l’aiuto di buoni maestri è la chiave di lettura del nostro benessere. Molti degli atteggiamenti negativi che manifestiamo o subiamo nella vita di tutti i giorni, dipendono da un cattivo stato fisico e mentale, che sfocia spesso in alterazioni di vario ordine e natura.
EDUCAZIONE
Si può interpretare la scuola in diversi modi, a seconda del tipo di insegnante, della sua personalità, della sua cultura, del modo con cui interagisce con gli studenti. Non esiste un modello unico, perché alla base c’è sempre una componente umana che non è mai uguale a un’altra. Nella mia lunga esperienza scolastica, vissuta prima come studente e poi come docente, ho avuto modo di essere al centro del sistema scuola con tutti i suoi pro e i suoi contro. Ho collaborato con studenti, professori, presidi, sindacalisti, genitori, sindaci e con dirigenti. E’ stata un’ esperienza irripetibile, dalla quale ho ricevuto moltissimo e alla quale ho dato moltissimo. Non ho rimpianti, anche se avrei potuto dare ancora molto, ma in alcuni casi la vita non è quella che ti aspetti, gli sgambetti arrivano all’improvviso e senza preavviso, per cui ti vedi costretto a prendere decisioni che possono far male, ma inevitabili. Come studente ho potuto osservare e riflettere sui comportamenti dei docenti, sul loro modo di essere e di agire, ritagliandomi un’esperienza personale di prim’ordine, che mi sarebbe stata molto utile dopo, quando la scelta sarebbe caduta sulla professione docente. Non sono mai stato un secchione e neppure uno studente modello, ero semplicemente uno studente che viveva la sua dimensione con alterne fortune. Per me la scuola erano i compagni, non tutti, qualche insegnante dotato di squisite doti umane e qualche materia che riusciva a mobilitare il mio livello emotivo, stimolando la mia fantasia, l’empatia, la capacità di entrare nella parte o nel personaggio. Vivevo a trecentosessanta gradi le emozioni. Non temevo la disciplina, perché ero abituato. Avevo una famiglia meravigliosa, molto attenta al rispetto delle regole. Mio padre in particolare mi aveva fatto capire che il rispetto era la base di tutto, della vita individuale e di quella collettiva. Se mi capitava di essere ripreso da qualcuno non prendeva mai le mie difese, stava sempre dalla parte della ragione. Per lui i figli erano persone e come tali dovevano vivere in modo indipendente e corretto la loro vita. Se avessi preso un ceffone da qualcuno non sarei di certo andato a casa a piangere, avrei cercato di medicare la ferita da solo o con l’aiuto di qualche persona fidata. Ho avuto ottimi maestre e maestri che hanno lasciato il segno. Alle medie inferiori ho avuto un bravissimo insegnante di lettere che sapeva far amare i poeti e la scuola con una squisita dolcezza, mentre altri docenti erano completamente privi della dimensione empatica, ci lasciavano spesso in uno stato di pericolosa confusione mentale. L’insegnante di lingua francese era terribile, non sorrideva mai, ci faceva fare i compiti in classe senza preavviso e in tempi ristrettissimi. Il suo sguardo era tagliente e pungente, il suo comportamento inspiegabilmente aggressivo. Alle superiori ho conosciuto l’esercizio di un’autorità fine a se stessa, tesa a dimostrare che il debole è sempre perdente, anche quando ce la mette tutta per dimostrare il contrario. Sentivi quell’insegnante nemica, attentatrice della tua voglia di comprensione e di umanità. C’era comunque un minimo denominatore comune che teneva insieme tutti: la disciplina. Sgarrare significava pagare un prezzo e quindi nessuno era così fesso da cercarsi rogne inutili. L’educazione civica aveva un ruolo fondamentale, dalla condotta dipendeva tutto il resto. Bastava un sette per andare a settembre con tutte le materie e rovinarsi l’estate. La scuola e la famiglia erano un corpo unico, anche se ciascuno nel proprio ordine indipendente e sovrano. Le responsabilità bisognava assumersele fino in fondo. L’educazione cominciava in famiglia e faceva sentire il suo effetto benefico all’esterno. Siamo stati educati a rispettare gli adulti, le persone più grandi di noi, del tutto simili ai nostri genitori. I nostri genitori ci avevano abituato a essere educati, per cui all’interno della società si respirava un clima coeso, convergente, non basato su una falsa e ipocrita confidenza, ma sul principio che l’età fosse un bene prezioso da rispettare, da conservare e da proteggere. Davamo del lei alle persone più grandi, era un atto formale di indubbio valore. Dare del lei significava riconoscere una differenza, riflettere, sviluppare una forma di rapporto civile e corretto con il prossimo, gettare le basi di una conoscenza più attenta e approfondita, pensare all’altro come persona da rispettare e da conoscere. Si poteva dare del tu solo ai coetanei, ai compagni di scuola e a quelli di gioco. Oggi i tempi sono cambiati, perché spesso la scuola ci ha abituato a una confidenza che in molti casi determina risvolti assolutamente negativi nei rapporti interpersonali, creando varie forme di commistione e di confusione. I nostri vecchi affermavano che la confidenza faceva perdere la riverenza. Non lo dicevano per caso, ma a ragion veduta, per averlo sperimentato sul campo. La cosa più triste di questo mondo è vedere e ascoltare ragazzini che si rivolgono ad adulti dando del tu, è come legittimare la morte di un sano rapporto interpersonale, l’annullamento di una condizione che ha ragioni storiche profonde nel cuore e nella storia stessa delle persone. I nostri superiori ci hanno insegnato che la storia di ognuno è un racconto a sé, qualcosa di importante e unico, di fronte al quale non abbiamo alcun diritto di prenderci quello che non ci spetta. Un eccesso di confidenza ha portato a incalcolabili disastri generazionali. Il calo del rispetto societario è partito proprio da rapporti sbagliati, dettati in parte da varie forme di paura, da assurde strategie compensatorie. Ho conosciuto insegnanti che si facevano dare del tu per farsi amici i ragazzini, fermo restando che alla fine ne diventavano vittime, perché il tu portava inevitabilmente allo svilimento del ruolo, con tutte le conseguenze del caso. Oggi, arrivati al culmine della caduta dei rapporti interpersonali, il mondo si è appiattito, è stato privato dell’autorità positiva e così ognuno fa quello che vuole. I minorenni trattano gli adulti come se fossero compagni di gioco, fratelli e sorelle, senza porsi il problema di chi siano veramente, di come siano arrivati a essere adulti, quale cammino abbiano dovuto percorrere per crescere nel corpo e nello spirito, nella coscienza civica e in quella morale. Non vedono nell’altro un’occasione importante di conoscenza e di approfondimento, non ne percepiscono la dimensione spirituale legata alla sfera dei valori e dei sentimenti, ne colgono solo l’immagine, quella negativa propinata dalla parte più spettacolare della nostra società. E’ così che in molti casi l’adulto, l’anziano e il vecchio diventano individui superati, da appoggiare un po’ qua un po’ là giusto per toglierseli dai piedi. Con il passare del tempo abbiamo desituato la capacità di comunicare, di raccontare, di dimostrare la forza e la bellezza di un incontro. Forse è tempo di convincersi che i giovani hanno bisogno di un mondo adulto in cui credere, da apprezzare, hanno bisogno di sapere che si possono fidare, che c’è chi opera con coscienza per lasciare loro un’eredità di valori positivi da vivere. La gioventù è stata imbottita di comportamenti inadeguati, in molti casi è stata in balia del nulla, anche là dove avrebbe dovuto trovare accoglienza e protezione. Le abbiamo fatto credere che bastasse darsi del tu per essere amici e in realtà abbiamo creato le basi per una drammatica dissoluzione di ruoli e competenze. Oggi in molti casi ci stupiamo di fronte a comportamenti oltraggiosi, offensivi, a un disagio che avanza e che spazza via ogni forma di rispetto umano. I problemi di oggi sono soprattutto di natura educativa, basta percorrere in lungo e in largo di giorno e di notte le nostre città e i nostri paesi per rendercene conto. Siamo al punto in cui non possiamo neppure contare sulla famiglia, diventata critica nei confronti di ogni forma di indirizzo educativo comunitario e la scuola, in molti casi, percorre strategie educative che non sempre collimano con le attese societarie. Siamo al punto in cui non esiste una volontà collaborativa e quel che più fa male è che è stato minimizzato il ruolo dell’autorità. Oggi esistono tante pseudo autorità che non trovano più riscontro sul campo, perché si sono delegittimate a vicenda. La storia dei diritti e dei doveri, ad esempio, è diventata un éscamotage per agire all’interno di una libertà senza confini, dove diventa difficile stabilire il limite tra il lecito e l’illecito, il giusto e l’ingiusto, ciò che si può e ciò che non si può fare. Mancano punti fermi, uguali per tutti, capaci di rimettere ordine dove regna il disordine. Credo che occorra ripensare con molta serietà alla famiglia, a quella famiglia che abbiamo amato da ragazzi, perché ci faceva sentire il profumo della dedizione, dell’amore paterno e materno, anche quando era accompagnato da tuoni e fulmini primaverili. La famiglia è sempre stata l’approdo sicuro, il punto fermo della crescita, il punto di partenza e il punto di arrivo. Nella famiglia ci siamo formati, abbiamo imparato a vivere la legalità, la condivisione, l’amore e la sofferenza, ma anche la punizione. Dalla famiglia abbiamo ricevuto il dono della comprensione e della dolcezza. La scuola era un prolungamento, un rafforzamento umano di notevole spessore, anche quando sbagliava il bersaglio e colpiva le “parti basse”. Oggi ci troviamo di fronte a un bivio, o riprendere in mano il bandolo della matassa o avviarci definitivamente verso una china molto pericolosa. Il mondo, in particolare quello giovanile, ha bisogno di punti fermi, di un sano decisionismo, dobbiamo metterlo nella condizione di vedere chiaro, di capire che la fortuna o la sfortuna dipende da noi e che bisogna imparare ad assumersi le proprie responsabilità, sempre, fino in fondo, senza delegare nessuno, senza scaricare su altri le nostre incapacità. La famiglia non deve solo proteggere, deve imparare a mettere i propri figli nella condizione di pensare al presente e al futuro, fornendo valori chiari e certi su cui appoggiare le alterne vicende della vita.
L’EDUCAZIONE E’ ALLA BASE DI UN GRANDE RINNOVAMENTO
Viviamo un tempo che ci pone di fronte a grandi problemi esistenziali, un tempo in cui riesce umanamente difficile capire e orientarsi, dare risposte immediate, scindere la verità dall’errore. Siamo un po’ tutti vittime e protagonisti di mutamenti che portano con sé un senso di indefinito, di realtà che superano di gran lunga le certezze alle quali ci eravamo beatamente abituati, facendole diventare i muri protettivi della nostra vita, come se nulla potesse smuoverli o farli crollare. Quando si è dentro una forza dinamica che si muove con la rapidità della luce riesce difficile o addirittura impossibile decodificare, sdoganare, affidare a una razionalità certa il destino delle nostre esistenze. Nell’aria c’è un grande fermento. Gli uomini si muovono, la natura stessa si muove, il clima cambia rapidamente, il sistema delle relazioni sociali si complica maledettamente, la geografia e la storia determinano nuovi posizionamenti e contenuti ai quali non eravamo abituati. Il cambiamento ci coglie di sorpresa, come se volesse affermare la nostra condizione di precarietà. E’ in questi momenti che si pensa in primo luogo a chi è fragile, a chi vive nel disagio quotidiano, a chi ha bisogno di vedere e capire come va il mondo, per poter costruire risposte adeguate. E’ in queste situazioni che si moltiplicano le responsabilità, la capacità di distribuire certezze, la voglia di ripescare quel taglio umanitario che ci contraddistingue quando dobbiamo rispondere alla voglia di cuore. E’ in queste situazioni che i giovani, in particolare gli adolescenti, cercano di leggere la realtà osservando i genitori, gl’insegnanti e tutti coloro che incontrano sul loro cammino. Ricreare un sistema educativo convincente è fondamentale per mantenere viva una relazione generazionale fondata su fiducia e collaborazione. I giovani hanno più che mai bisogno di credere negli adulti, di avere termini di confronto forti e credibili, per evitare di cadere nelle maglie della delinquenza organizzata, della droga, della maleducazione. Hanno bisogno soprattutto di avere genitori che facciano i genitori, che stiano vicini ai propri figli, che li sappiano incoraggiare, spronare, stimolare, che non facciano loro provare il deserto dell’indifferenza. La famiglia ha un peso legale immenso. La sua presenza è garanzia di coesione sociale, di sviluppo culturale, di rispetto generazionale, di unione solidale, di giustizia e di legalità. Se la famiglia funziona tutto l’asse educativo tiene, assolve con la dovuta solidità il peso dell’emancipazione sociale delle persone, soprattutto di quelle che affrontano tra mille imprevisti il cammino dello sviluppo e quello della rinascita. Ma in molti casi la famiglia da sola non basta, ha bisogno dei supporti necessari per poter svolgere appieno la sua funzione evolutiva. Ha bisogno di educatori autorevoli che sappiano essere credibili, che sappiano dimostrare sul campo che la Costituzione italiana non è solo un esemplare testo scritto da appendere nelle sedi istituzionali. E’ un tempo il nostro in cui è necessario affidarsi alla fantasia e al buon senso, alla consapevolezza che il futuro dipende da come sapremo leggere, interpretare e applicare il nuovo che avanza. L’educazione potrebbe quindi essere la piattaforma ideale su cui posizionare l’ansia di rinnovamento che anima tutti coloro che guardano al futuro con la speranza che il mondo scopra strada facendo le sue verità.
L’EDUCAZIONE AL CENTRO
E’ arrivato il tempo di chiederci se quello che stiamo facendo vale, se contribuisce a costruire una società fondata sul rispetto: rispetto delle regole familiari, sociali, morali, politiche, economiche. E’ forse arrivato il momento in cui varrebbe davvero la pena fermarsi e fare un profondo esame di coscienza per capire se con i nostri comportamenti siamo in grado di lasciare una testimonianza importante ai nostri figli, a quelle generazioni che si guardano attorno smarrite, convinte che il mondo sia un caos infinito e che non ci sia più spazio per il buon senso. C’era un tempo in cui ci insegnavano l’esame di coscienza, ci facevano riflettere sulle liceità che ci concedevamo, ci facevano fare penitenza, ci mettevano di fronte a un comune senso di responsabilità, ci insegnavano le buone maniere e in qualche caso ci mettevano in castigo per pensare in modo più concreto alle marachelle che avevamo combinato. Oggi non è più così, puoi permetterti di offendere un adulto perché tanto la famiglia e la legge ti difendono, puoi permetterti di scrivere sui muri, perché tanto non ti vede nessuno e poi anche se qualcuno ti vedesse lo tieni in pugno con la tua disonestà e quella dei tuoi amici, puoi permetterti di urlare a squarciagola ovunque e proferire parolacce di ogni tipo e colore, puoi bere la Coca Cola e buttare la lattina per strada, magari prendendola a calci, puoi compiere atti di vandalismo, perché tanto, poi, c’è il volontariato che rimette le cose a posto, puoi permetterti di compiere ritorsioni, perché tanto nessuno sente, vede, ascolta. Puoi andare a vedere una partita e spaccare tutto, puoi compiere tutte le bravate che vuoi perché tanto te la cavi quasi sempre. E se per caso lo sapessero certi genitori? Non succederebbe niente anzi, magari ti direbbero che lo avrebbero fatto anche loro, che i vecchi rompono le scatole perché non si ricordano di essere stati giovani e in qualche caso direbbero di continuare e che loro ci starebbero a dare una mano. Quando i figli non hanno più argini dilagano e allora l’esame di coscienza va fatto sul serio e da parte di tutti, perché una democrazia che non fa l’esame di coscienza ogni tanto è un sistema senza futuro. L’esame di coscienza bisogna ritornare a insegnarlo soprattutto a quelli che noi, da ragazzini, chiamavamo i grandi, quelli intoccabili, pronti a tirarti una sberla se gli avessi mancato di rispetto. E’ lì che si annidano varie forme di falso buonismo, di protezionismo, di superomismo, di superficialità, di esempi moralmente inadeguati, che non portano a nulla di buono, se non a peggiorare una situazione che è già di per sé disastrosa. In molti si chiedono come sia oggi possibile, democraticamente, riportare un minimo di razionalità e di moralità là dove regnano l’anarchia e il caos, dove le decisioni non sono quasi mai in favore di una comunità coesa e collaborativa, ma rivolte quasi sempre al proprio nucleo, come se la famiglia non fosse parte integrante della vita stessa di un paese. Il clima di accondiscendenza esagerata creato da genitori onnipotenti sul piano dell’autovalutazione, ma assolutamente incapaci su quello della gestione critica dei rapporti interpersonali, finisce col creare situazioni gravissime, che svuotano di consistenza etica una società che si guarda attorno per cercare punti di appoggio, sostegni, aiuti per evitare il naufragio. I genitori dovrebbero tornare a fare i genitori, la scuola dovrebbe tornare a fare la scuola e il sistema lavoro dovrebbe essere mosso soprattutto dalla voglia di fare, di costruire, di rinnovare, di dimostrare l’energia positiva di un paese e della sua gente. Ci sono luoghi in cui la bellezza è a pezzi, ti guardi attorno e ti domandi in che razza di posto sei capitato, eppure sei in Italia, nel paese più bello del mondo, che tutti ci invidiano, ma non facciamo nulla o quasi per tenercelo stretto, per dimostrargli che gli vogliamo bene e che la nostra storia, quella dei nostri nonni e dei nostri avi ha ancora un senso. Ce lo lasciamo portar via con la scusa che il mondo è diventato globale, che la verità è nelle multinazionali e nella delocalizzazione, che lontano da casa nostra il costo del lavoro è inferiore e permette di fare le cose con più tranquillità e guadagnando di più. L’Italia di una volta non c’è più, ciò che è stato unito con grande entusiasmo e determinazione è oggi nelle mani di mezzo mondo, ognuno ha la sua parte di Italia, perché nella maggior parte dei casi è stata svenduta sull’onda di un’economia e di sistemi industriali e bancari assurdi, dove il dio denaro conta più di qualsiasi amor patrio. Abbiamo messo al bando un sistema educativo che poteva contare su valori laici e religiosi, che aveva la sostanza necessaria per generare positività e voglia di fare in un mondo giovanile rivolto al futuro. Abbiamo ridotto l’uomo a una succursale del sistema bancario, lo abbiamo reso impotente, incapace di formare famiglie sicure, gli abbiamo fatto credere che in democrazia è tutto concesso, che la libertà è un diritto acquisito, ma senza avergli insegnato che di troppa libertà si può anche morire. La libertà è stata usata come un grimaldello per forzare le serrature, la si è lasciata scivolare in nome di diritti, privati dei loro doveri, della loro dignità naturale. Si sono lasciate per strada l’etica e la morale e il bene comune è diventato un bene individuale, da raggiungere a tutti i costi, anche a prezzo di prevaricare gli altri. Viviamo in uno strano sistema democratico, dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e dove si continua a urlare che bisogna voler bene a tutti e accogliere tutti, pur sapendo che nella maggior parte dei casi l’eldorado non esiste ed è molto peggio di quello che qualcuno ha sognato nei paesi di origine. Abbiamo trasformato un paese civile in un altro dove l’anarchia regna sovrana e dove un padre di famiglia fa sempre più fatica a pagare gli stipendi dei magnati del business organizzato. Si fa un gran parlare di Europa unita, quando si sa benissimo che è oltremodo difficile mettere insieme paesi che si sono fatti la guerra per secoli e nelle forme più bestiali possibili, paesi che hanno insegnato l’arte della colonizzazione selvaggia in molte parti del mondo e dove decolonizzare è praticamente impossibile. Più il mondo si arroga diritti e più cede parti importanti della sua vita e della sua storia, col pericolo di rimanere schiacciato e privato di una sua democratica identità. Viviamo in una democrazia in cui di sera diventa proibitivo passeggiare nel tuo paese o nella tua città, perché corri il pericolo di essere stuprata o aggredita o rapinata, viviamo in un paese dove ci sono giovani che compiono atti delinquenziali nei confronti di altri giovani e dove la giustizia ha sempre due pesi e due misure, a seconda di come la propria vision politica suggerisce. La sicurezza è diventata un opzional e mentre i grandi sistemi si attrezzano per affrontare il terrorismo, ci sono minori che ne combinano di tutti i colori, grazie a un mondo adulto che si è dimenticato degli esempi. Rimettere al centro l’educazione è il minimo che uno stato civile possa fare, ma deve farlo subito e senza tentennamenti, per evitare che un paese bellissimo e con grandi valori alle spalle possa finire in un mare di guai, senza avere la forza di uscirne.
L’EDUCAZIONE
L’educazione non pretende,
dà.
L’educazione non reprime,
apre.
L’educazione non intimorisce,
offre coraggio.
L’educazione non ama essere presa in giro,
pretende lealtà.
L’educazione non è avere tutto,
è sacrificarsi,
impegnarsi,
rispettare le regole,
le persone,
i ruoli,
farsi da parte quando è necessario,
saper aspettare il proprio turno,
intervenire con saggezza,
quando è necessario.
L’educazione segna la vita,
le dà una veste,
un carattere,
un volto,
un’immagine.
L’educazione è la forza
di una condizione
che vuole conoscersi,
per dimostrare
che a ognuno è riservato uno spazio,
un tempo,
una possibilità da saper cogliere,
riflettere,
e pensare.
Nella vita di un educatore
ci sono la vittoria e la sconfitta,
nessuna delle due è prevalente,
tutto è dinamico,
tutto è relativo.
L’educatore deve verificarsi,
valutarsi,
fare autocritica,
capire quale distanza sia più utile
per intraprendere un cammino vincente.
La forza dell’educazione
è nella capacità di rinnovarsi,
di rendersi viva,
di entrare nelle avventure
e nelle disavventure,
con la consapevolezza
che anche la fermezza
possa sortire il miracolo.
Ho visto educatori cadere,
non avevano il coraggio
di andare contro le convenzioni.
Chi guida deve agire
giocando con fiducia
le proprie carte.
Chi educa occupa la prima linea
con l’umiltà
di chi si mette in gioco
per umanizzare un destino,
per aprire il cuore
a chi attende un segnale
per continuare a esercitare un dovere.
Chi educa
si educa per comprendere
più a fondo
le necessità degli altri.
Rispettare l’Autorità
è un grande atto educativo,
è il segno di chi ha appreso
l’arte del vivere,
di chi ha capito
che senza educazione
non esistono presente e futuro.
Chi violenta l’educazione
è un insensato,
uno che non sa vivere,
uno che mostra il lato peggiore
di quella vita
che è il dono più grande
che abbiamo ricevuto,
per imparare a donarlo
a chi ne ha bisognO
OGGI SI PARLA POCHISSIMO DI EDUCAZIONE
Quanto conta l’educazione nella valorizzazione morale, culturale e sociale di un paese?
Se per educazione s’intende la capacità di saper condurre fuori e far conoscere la forza e la bellezza delle ricchezze che madre natura ci ha consegnato, credo che conti moltissimo e che possa cambiare in meglio non solo l’immagine, ma anche la sostanza stessa di un paese, conferendogli la capacità di potersi esprimere ai massimi livelli in tutti i campi e settori della vita civile. Purtroppo in questi anni si è pensato molto poco al ruolo riabilitativo e innovativo dell’educazione, alla sua straordinaria capacità di creare coesione, unione, convergenza, rispetto, la si è sempre vista e vissuta come una fastidiosa imposizione, come una sorta di matrigna con l’arroganza di voler determinare la vita altrui, di diventarne padrona, di volerla condizionare. In fondo anche l’esperienza scolastica si è preoccupata poco del risvolto disciplinare, lo ha sfumato per non farlo apparire troppo simile a cattive esperienze del passato, forse senza sapere che è proprio dal passato, da una lettura oggettiva del passato, che s’ impara a costruire il presente e il futuro. Ancora oggi se ti azzardi a voler riprendere qualcuno che viola o nega palesemente la legge, corri il rischio di essere segnato a dito, perché la regola viene ancora vista come imposizione di un’entità totalitarista o, per usare una parola usata e strausata per fini e scopi politici, fascista. Anche l’educazione è vittima di un passato storico che di fatto non è ancora stato superato e che soffre moltissimo di una storicità di ritorno, legata nella maggior parte dei casi a interessi privati, di gruppo, di lobby o di furbizie varie. Non abbiamo ancora elaborato il passato, non solo, lo usiamo quando fa comodo e lo respingiamo quando non corrisponde alle esigenze del nostro egoismo. L’educazione è fondamentale, ha un ruolo importantissimo, ma deve essere insegnata e spesso deve anche essere imposta, non senza prima essere stata spiegata e applicata nell’esperienza concreta della vita quotidiana. C’è poi un aspetto fondamentale che in questi anni è stato ampiamente sottovalutato, l’esempio. Se ci guardiamo attorno con un minimo di spirito critico ci rendiamo conto che oggi mancano soprattutto gli esempi, la possibilità di capire e di far capire che a una parola corrisponde un fatto, un’applicazione pratica, concreta, che il risultato è sempre frutto di impegno. I giovani soprattutto osservano se gli adulti tengono fede alle promesse che fanno o se usano invece la malizia o la furbizia per fare tutto quello che vogliono. In questo ambito di esempi ne hanno tantissimi, diciamo che la cultura dell’esempio non manca, ma va inseguita, investigata, sdoganata, portata in luce, amata e apprezzata. Un sistema che non spiega, che non si fa carico di far capire concretamente l’importanza e il ruolo costruttivo dei valori, che non riporta l’attenzione della gente sulla forza trainante e manutentiva dell’esempio, non crea educazione, confina la natura umana in una sorta di dipendenza perenne. Riappropriarsi dell’educazione significa ridisegnare un’ appartenenza, un modo di essere, ridefinire dei rapporti, saper andare oltre i muri e i limiti di una condizione umana sempre più vittima di sotterfugi o carenze di vario ordine o natura. Dunque l’educazione conta moltissimo, è la base su cui fondare la felicità terrena delle persone.
Come mai se ne parla pochissimo?
Perché urta la suscettibilità individuale, quella che vorrebbe sempre far finta di niente, passare inosservata per poter continuare a fare quello che ha sempre fatto. L’educazione impone dei limiti, l’osservanza di regole comuni, impone uno stile di vita, il rispetto degli altri, l’idea che il benessere dipenda non soltanto dalla quantità di denaro che guadagni, o dalla carica che rivesti, ma da come fai le cose che devi fare, dallo spirito con cui le fai, dai significati che hai imparato attribuire ai gesti, alle parole, al modo di essere all’interno della comunità in cui vivi. Di solito si parla pochissimo di educazione perché si ha l’impressione di poterne fare a meno, salvo poi rammaricarci quando ruotando lo sguardo attorno ci si rende conto che ciascuno ha sviluppato una propria idea di libertà che non corrisponde affatto a quella comunitaria, che è stata insegnata a monte dalla nostra bellissima Costituzione italiana. In questo periodo di infatuazione europeista, ci siamo dimenticati chi siamo, della nostra bellezza, della cultura che respiriamo in ogni angolo del nostro paese, abbiamo disimparato a dare un senso compiuto alle cose, alla storia, a tutto ciò che di importante e di meraviglioso ci è stato consegnato. Molto dipende dalla volontà, da chi è preposto al passaggio del messaggio educativo, tenendo presente che stiamo attraversando il periodo più complicato della nostra storia, un momento in cui riesce oltremodo difficile capire chi comanda, cosa siano i ruoli, chi ne siano i rappresentanti, le competenze e soprattutto perché sia necessario fare determinate cose, perché sia necessario usare la fermezza quando è necessario e perché l’autorità abbia un ruolo determinante nella vita democratica del paese. Viviamo una sorta di arbitrarietà morale e istituzionale, dove ognuno costruisce la propria identità pensando che sia la più giusta, la migliore identità possibile. Abbiamo perso il desiderio di confrontarci, di parlare pacatamente, di chiederci se quello che facciamo sia giusto, il perché lo facciamo e soprattutto quale fine e scopo diamo alla nostra vita. Abbiamo smesso di porci domande, perché abbiamo capito che ci mettono in crisi, che rafforzano i nostri errori e per un italiano riconoscere i propri errori è davvero un peccato mortale, invece di essere una miracolosa liberazione da tutto ciò che opprime. Chi ha il compito di parlare di educazione? Tutti indistintamente. In una società veramente democratica tutti si devono sentire parte in causa, devono sentire sulla propria pelle il valore taumaturgico di una buona base educativa, quindi dobbiamo sentirci quotidianamente impegnati a modificare in meglio le nostre inaffidabilità. La famiglia dovrebbe tornare a essere luogo di crescita morale, sociale, culturale, deve promuovere le personalità e non soffocarle, dimostrando di essere la prima porta di accesso alla formazione di un cittadino che voglia crescere autonomo e cosciente. La famiglia riveste un ruolo importantissimo nella trasformazione di una società e nella costruzione di uno stato cosciente della propria storia. La scuola è il luogo privilegiato dell’assunzione, dove i valori diventano stili e dove s’insegna e s’impara a creare rapporti dialettici, costruttivamente validi con il mondo che ci ruota attorno.
Come mai in molti paesi l’educazione giovanile lascia a desiderare?
Viviamo momenti di grande trasformazione, in cui le piccole realtà nazionali che hanno avuto un ruolo decisivo nella costruzione delle democrazie occidentali, si trovano improvvisamente a essere sottovalutate, a dover sottostare a padroni lontani che ne determinano la cultura, l’economia, la socialità, i rapporti e le relazioni. C’è un mondo che si allarga a dismisura e che impone nuove regole, nuove leggi, nuovi stili, nuovi modi di essere. Il fenomeno della globalizzazione, quello di un europeismo estremo, dove chi comanda genera e chi entra in crisi soccombe, l’aver sostituito la cultura della socialità umana con quella delle banche, dell’economia e della finanza ha completamente stravolto la storia dei paesi, quella sana nazionalità genitoriale che abbiamo ereditato da nonni e bisnonni che per la nostra libertà hanno sacrificato la vita. In questo quadro esageratamente amplificativo il nostro sistema culturale è andato perdendo la sua forza costitutiva, abbiamo perso il contatto con il nostro modello educativo, quello che ha caratterizzato la nostra vita subito dopo la seconda guerra mondiale, quando si è trattato di ricostruire rapporti e relazioni, valori e regole, leggi e modelli. Quel sistema fioriva da ogni parte, in virtù di ordini religiosi molto attenti ai temi della crescita educativa, a una scuola ben strutturata e molto ben articolata e soprattutto a valori familiari consolidatisi nel periodo della rinascita economica e sociale del paese, è andato scemando, perché è venuta a mancare quella spinta che aveva catalizzato la forza reattiva e creativa del paese. L’essere entrati in ambiti più ampi, non più direttamente controllabili, ha creato una sorta di frammentarietà degli interventi. Ci si rendeva conto che il problema della rinascita era anche di convinzione morale, di capacità di fare e produrre cultura, di potenziare quei livelli di italianità che le lotte avevano pianificato. Spesso il concetto di educazione è passato in second’ordine, si è tentato di sottrarlo alla sovranità di quella condotta disciplinare che aveva caratterizzato le forme e gli eccessi del ventennio. Come spesso succede, dopo periodi caratterizzati da un tipo di disciplina imposta, con regole molto precise, ci si addentra in ambiti in cui le mutate condizioni economiche e una maggiore libertà d’azione consentono di vedere il mondo con occhi più tolleranti, dove spesso la disciplina si contrae e lascia il posto all’idea che la democrazia e i suoi valori debbano nascere e prosperare secondo una condizione referenziale auto costruita e non imposta. Il pericolo è che si rischi di cadere nell’eccesso opposto, dove la libertà diventa libertinismo e dove l’educazione assomiglia sempre di più a un modo del tutto personale di osservare il mondo. La crisi delle autorità, quella familiare, quella sociale, quella culturale, la crisi dei ruoli e delle istituzioni, l’idea che tutto si potesse conquistare senza dover sottostare a regole troppo invadenti, ha creato una sorta di anarchismo educativo in cui hanno preso posto un po’ tutti, soprattutto chi non aveva sufficientemente maturato il senso di responsabilità morale. Oggi si ha paura di tutto, si cerca sempre di girare intorno, di non affrontare i problemi, di crearsi alibi, di farsi i fatti propri, pensando che i problemi li debbano sempre risolvere gli altri. Abbiamo perso la consapevolezza individuale dell’educazione e così agiamo sotto l’impulso di ciò che fa comodo, che non crea problemi, non riuscendo così a fornire ai giovani l’attrezzatura necessaria per superare i muri e per scavalcare gli ostacoli. Siamo prigionieri delle nostre inadeguatezze e così viviamo una sorta di castrazione morale che impedisce alla volontà di essere quella che dovrebbe, attenta fautrice di conoscenza e di applicazione. Insegnare l’educazione non è facile, ma è un esercizio che va fatto in modo sistemico. In molti casi lo si dà per scontato o si pensa che possa riguardare un momento o una situazione particolare, in realtà l’esercizio educativo deve diventare sistema, forma e sostanza, deve informare l’azione della persona, diventarne strumento distintivo, solo così è possibile costruire una comunità consapevole e responsabile, capace di affrontare i problemi nella loro dimensione sociale. Scuola e famiglia devono tornare a educare, a esprimere al massimo livello la loro sostanza etica, la loro missione educativa e formativa, devono ricostruire modelli che con l’andare del tempo si sono frantumati e dissolti, devono soprattutto ricordarsi che l’autonomia e l’indipendenza si fondano su spiriti liberi che sanno posizionare sempre, consapevolmente, la loro visione e la loro missione nel mondo.
Ai suoi tempi com’era l’educazione? Quali le differenza tra il passato e il presente?
I tempi cambiano, le modalità di approccio anche, ma ci sono elementi che non cambieranno mai, perché sono materia costitutiva di una realtà consolidata nel tempo. Il rispetto, ad esempio. Rispettare se stessi e rispettare gli altri significa aver capito chi siamo, quale missione abbiamo, quali siano i principi su cui si deve reggere una condizione, un modello, un sistema, significa soprattutto gettare le basi per un raccordo che investe il senso di responsabilità individuale e collettivo. Ai miei tempi l’educazione era meno scienza e più coscienza, la fonte di approvvigionamento risiedeva nella tradizione, nell’esperienza, nella certezza che quei valori erano indispensabili, erano la base su cui appoggiare il cammino esistenziale. Chi aveva vissuto di persona i fenomeni della guerra, delle carestie, delle povertà, della fatica del lavoro, dell’incertezza quotidiana cercava di applicare l’educazione degli affetti al massimo livello e in questo caso la famiglia nella sua dimensione economica, sociale, morale e formativa diventava il centro della vita, il luogo in cui coniare e promuovere quei valori che sarebbero poi diventati il punto di partenza e di arrivo di una società decisa a uscire dalle ristrettezze di una vita molto spesso privata della sua libertà cosciente. L’educazione di una volta era piuttosto rigida, nel senso che le regole erano regole per tutti e ciascuno aveva il suo piccolo o grande carico di responsabilità da gestire e da distribuire. La famiglia e la scuola avevano un ruolo decisivo, un ruolo ampiamente riconosciuto e alla cui fonte era un dovere attingere per essere e diventare cittadini migliori. La rigidità disciplinare rientrava nella storia di un sistema in cui l’obbedienza non era solo ascolto, ma imposizione, dovere. Disobbedire significava sovvertire un ordine e nessuno si sarebbe sentito autorizzato a farlo, perché sapeva benissimo quello a cui sarebbe andato incontro. Il silenzio ad esempio era un esercizio quotidiano, una ginnastica del cuore, del corpo e della mente, l’allenamento che avrebbe dovuto permettere di conoscere meglio se stessi, il proprio carattere e soprattutto alimentare i livelli di concentrazione nelle cose da fare. Sia i rapporti familiari, sia quelli sociali erano improntati a varie forme di rispetto: il voi, il lei, il prego, il grazie, l’aiuto dato senza essere richiesto, la varie forme di solidarietà sociale, una comunicazione semplice ma efficace, capace di mettere in evidenza le difficoltà della vita e di consentire di trovare insieme delle soluzioni. Il lavoro era un canale privilegiato per sentirsi impegnati. Si lavorava non solo per una questione di carattere costituzionale, ma per aiutare, per dare una mano, per far sentire meno pesante la fatica, per dimostrare il senso di un orgoglio e quello di una fierezza. I rapporti umano erano umani proprio perché le persone mettevano in campo tutte le loro forze e le loro capacità senza chiedere contropartite, il gesto o la parola erano figli di una vocazione naturale, di un rispetto che andava oltre la sua natura etica o sociale. L’ordine era fondamentale, ovunque bisognava distribuirlo con buon senso, responsabilizzando, soprattutto con la forza dell’esempio. Quando non sapevi cosa fare aiutavi, cercavi di darti da fare, ti mettevi in gioco e ti sentivi più grande, coinvolto, entravi così a pieno titolo nel cuore delle dinamiche sociali e ti rendevi conto che alla base di ogni conquista c’erano la volontà, l’educazione, la passione, l’impegno, il dare senza dover per forza credere. I migliori lavoratori sono stati quelli che hanno saputo soffrire prima di raggiungere i livelli desiderati. Nessuno ha mai regalato niente e se qualche volta è successo è perché c’erano condizioni molto particolari che avevano bisogno di qualcosa in più. I problemi ci sono sempre stati, le incomprensioni anche, ma la società trovava sempre il modo di appianare, di togliere di mezzo i muri, di rafforzare la dimensione sociale della vita. L’istinto della natura umana, anche nelle sue versioni più accentuate, veniva sempre contemperato da una predisposizione naturale alla solidarietà sociale, in cui si componevano le questioni, anche quando sembravano irrisolvibili. Anche ai miei tempi l’educazione non era sempre convergente e omogenea, risentiva molto di una certa appartenenza, aveva una sua consanguineità, ma alla fine si impregnava naturalmente di quella sostanza sociale che faceva rifiorire sempre gli aspetti autorevoli. Credo di poter affermare che l’educazione non abbia perimetri o confini o spazi troppo angusti entro i quali esercitare la sua funzione, ma sia figlia di una comunità che sappia interpretare e vivere con attenzione la propria identità, cosciente del ruolo che le è stato affidato. Ribadisco che il punto di partenza dovrebbe essere l’esempio, la capacità di dimostrare che dietro a ogni conquista morale, sociale, culturale o educativa ci siano coscienza, consapevolezza e tanta convinzione nella capacità umana di migliorare il proprio stato.
Che cosa si può fare per cercare di dare un volto più educato alla società?
Sviluppare al massimo l’impegno di ciascuno. Ogni persona deve sentirsi parte fondamentale di una grande avventura, nella quale ha il compito di svolgere con impegno e con amore i doveri che gli sono stati assegnati. Da cosa nascono i doveri? Forse dall’idea che una comunità unita, solidale, attenta e collaborativa potrà essere più capace di risolvere tutti quei problemi che s’incontrano nel cammino della vita. Certo la prima cosa da fare è quella di fare in modo che le persone sappiano esattamente quali siano questi doveri e come bisogna agire per metterli in pratica, per realizzarli. In questi ultimi anni ci siamo abituati a sentir parlare di diritti e ci siamo convinti che tutto o quasi fosse dovuto. Ci siamo aggrappati al diritto come a una sorta di ancora di salvezza, ma non abbiamo assaporato fino in fondo la bellezza della conquista. Di solito le conquiste non sono mai semplici, implicano una grande convinzione e soprattutto l’idea condivisa che quello che facciamo abbia una pubblica utilità, serva a consolidare e a potenziare la vita stessa di una comunità, che altrimenti rimarrebbe vittima di un pragmatismo arbitrario, in cui ciascuno opererebbe per fini e tornaconti personali. Dentro questo straordinario complesso di reciprocità si giocano convinzioni fondamentali, come ad esempio la certezza che collaborando le cose possano andare meglio. In molti casi è venuta a mancare una coscienza dei problemi, li si sono osservati e affrontati più come ostacoli alla realizzazione personale che come errori sui quali riflettere con molta attenzione per poterli risolvere e iniziare così una nuova vita. Oggi è invalsa una strana modalità, quella di guardare sempre nel piatto dell’altro, invece di cercare di guardare nel nostro, di fare quella che un tempo era considerata la via d’accesso a una sana rigenerazione introspettiva: l’autocritica. Sapersi autocriticare significa mettersi in gioco, non far finta di non vedere i propri difetti, ma andarli a cercare e lavorarci sopra per risolvere i problemi. Per fare questo però occorre essere franchi e severi con se stessi, di solito la rigenerazione parte sempre da un esame che non ammette cedimenti o flessioni di natura arbitraria. Viviamo in una società che riflette poco e che non ama mettersi in gioco, preferendo in genere spettegolare sugli altri. Puntare sugli altri è più facile, ci toglie la paura di non essere all’altezza, di essere bisognosi di aiuto o di comprensione, di essere persone che sbagliano e che hanno bisogno, ci dà molto fastidio ritornare a essere un po’ bambini che hanno bisogno della mamma. Così facendo però non cresciamo, rimaniamo ancorati a forme astratte di idealismo che non trovano radicamento, rimanendo spesso prigionieri dell’utopia. Per capire la maleducazione bisogna smettere i panni di un servilismo di maniera e indossare quelli che ci consentono di apparire per come siamo veramente, persone che hanno dei bisogni e delle necessità per la cui soluzione c’è bisogno di qualcuno con cui confrontarsi. In buona sostanza abbiamo bisogno di quello che ci avevano insegnato i sacerdoti, da ragazzini e cioè che prima di poter accedere alla Comunione bisognava sottostare all’esame di coscienza e quindi alla Confessione. Esame di coscienza e Confessione, due passaggi fondamentali per riannodare le fila, per rimettersi in carreggiata con uno spirito nuovo, meno esigente ed egoista, più altruista, più rivolto alla sfera oggettiva, più sintonico con le attese della vita. In questi anni ci siamo costruiti un mondo ideale, pensando che bastasse avere una bellissima Costituzione e che il peggio fosse passato. Abbiamo anche pensato erroneamente che una democrazia, per essere una vera democrazia, dovesse basarsi su un’ incontenibile libertà e così a poco a poco abbiamo eroso ogni forma di limite, abbiamo deciso che fosse meglio evitare di vivere secondo regole che ci avrebbero costretto a fare i conti con la coscienza, limitando di fatto il nostro campo d’azione. Abbiamo accantonato la coscienza, ritenendola la peggior nemica della nostra libertà. Diminuendo la forza morale della coscienza tutto ha assunto un volto diverso, ci è sembrato di capire che vivere sarebbe stato più facile, non avremmo dovuto fare i conti tutte le volte con qualcosa che ci avrebbe impedito di agire e di vivere liberamente. E’ sul concetto di libertà che ci siamo persi, perché avendone troppa non siamo più stati capaci di capire esattamente che cosa fosse giusto e che cosa sbagliato, abbiamo perso di vista l’idea di giustizia, di legalità, abbiamo abolito le differenze, fino ad illuderci che fossimo tutti uguali anche sul piano delle specificità umane, come i sentimenti, gli affetti, i modi e le strategie con cui dare un senso compiuto alla vita. Strada facendo ci siamo resi conto che tutta quella libertà alla quale ci eravamo aggrappati non era altro che una estrema forma di egoismo e che strada facendo aveva perso di identità, nessuno più sapeva riconoscerla e valorizzarla, era diventata una vera e propria nemica del genere umano. Una società, per essere sana, ha bisogno di regole su cui appoggiare il proprio stato di necessità e la propria fragilità, ha bisogno di sentirsi ben configurata, ben protetta, ben capace di dare risposte alle domande che la vita impone senza mezzi termini e con estrema determinazione. Una società sana sa distinguere, sa prendere delle decisioni, sa distribuire con intelligenza la propria ricchezza e, soprattutto, non si fa mettere sotto, ma è capace di prevenire e di orientare, sa formulare proposte, sa dunque determinare il suo futuro senza cadere nell’ipotesi di un qualunquismo e di un fatalismo di comodo. La maleducazione si nota soprattutto là dove la cultura avrebbe dovuto fare la differenza e dove le democrazia avrebbe dovuto educare, formare, orientare e istruire. Oggi paghiamo lo scotto di un eccesso di tranquillità e di sicurezza, ci sentiamo troppo appagati e sicuri, ci siamo trincerati nella nostra nicchia convinti che sia il luogo più sicuro contro le offensive di un mondo uscito dai suoi confini naturali. Stiamo pagando errori di natura umana, politica, culturale, sociale, perché non siamo stati e non siamo tuttora sufficientemente previdenti, non abbiamo saputo e non sappiamo tesorizzare e guardare avanti, prevedere, senza abbandonare il buono che abbiamo capitalizzato. Abbiamo persino immaginato che la moneta potesse prendere il posto di un’ umanità alla ricerca del proprio cuore, abbiamo avuto l’ardire di parlare il linguaggio matematico mentre i popoli del mondo stavano morendo a causa di guerre, di povertà, di desertificazione umana, ci siamo dimenticati che l’essere umano è prima di tutto alla ricerca di affetto, di comprensione, di attenzioni e quindi di amore. Se non impariamo questo non capiremo niente delle necessità e dei bisogni delle persone sparse nel mondo. Tornare a educare è ripristinare un’attenzione verso se stessi e verso quella comunità nella quale abbiamo il dovere di esprimere al massimo livello la nostra identità.
Come giudica le migrazioni di massa che caratterizzano il nostro tempo?
Premetto che un giudizio, per quanto oggettivo, non sia mai onnicomprensivo o esaustivo al punto da escludere ogni forma di soggettivismo o di un eccesso di interpretazione personale dei fatti. I giudizi dipendono da moltissimi fattori, che possono essere di natura etnica, culturale, caratteriale, sociale, linguistica, religiosa, in ogni giudizio c’è una parte di noi che deve partorire non solo criticità, ma anche proposta, duttilità, obiettività e capacità orientativa. Mi permetto di dire che un giudizio deve avere dentro di sé la forza e la volontà di costruire, di fare, di proporre, di essere alternativo agli errori che la natura umana commette di frequente. Le migrazioni di massa ci sono sempre state, hanno coinvolto persone in tutto il mondo, hanno fatto capire che non esiste una fissità etnica o geografica e che i popoli si muovono sistematicamente alla ricerca di condizioni umane più adatte per vivere. Si tratta di fenomeni ciclici, che si rincorrono a distanza, per cui il mondo ha un suo archivio storico e una sua capacità di poter prevedere e provvedere. Certo gli archivi non devono diventare musei della cementificazione umana, ma luoghi in cui la storia conserva una sua contemporaneità, soprattutto quando le situazioni ne prevedono la documentazione e la consultazione. Immaginare che i fenomeni non abbiano una natura dinamica significa avere una visione ristretta e limitata delle cose, non sapere o non capire che c’è sempre una reiterazione dei fenomeni, anche quando crediamo che siano stati archiviati per sempre significa non essere al corrente di ciò che il mondo ci chiede. Chi è abituato a non lasciarsi cogliere di sorpresa alimenta una conoscenza progressiva, che non si ferma al risultato raggiunto, ma che avvia procedure di comprensione e di proposta che vanno oltre le dinamiche del presente. Sui fenomeni migratori si è detto e si è scritto molto, esiste un’ampia letteratura che ha coinvolto istituzioni laiche e religiose, culture, popolazioni e luoghi. Esiste, ma probabilmente non le è stato riservato il posto che avrebbe dovuto avere e così ci siamo lasciati sorprendere sia come Italia e sia come Europa. Questa carenza e in taluni casi mancanza di avvedutezza storica risulta ancora più grave perché con quei mondi che oggi attraversano i nostri paesi e le nostre città abbiamo avuto impatti difficili nel passato, basti pensare alle varie forme di colonialismo e di guerre che hanno distrutto e modificato ordini umani, culturali, religiosi e sociali. La storia, proprio perché archivio e commisurazione di fatti, non è un libro chiuso, un’area desertica in cui confinare ciò che non ci piace o che turba le nostre coscienze. Con la storia dobbiamo mantenere un dialogo aperto e costante, fatto di scambi o critiche che non devono ripiegare su forme superate di protezionismo, ma posizionarsi su forme concrete di analisi e di confronto, per cercare di cogliere e possibilmente di anticipare ciò che potrebbe accadere. Questa migrazione di massa colpisce non tanto per il fenomeno in sé, quanto perché non viene vissuta e trattata secondo una consolidata etica migratoria, che ci ha visto protagonisti in diverse parti del mondo, in epoche diverse. In fondo la politica dovrebbe servire anche a questo, a capire che cosa avverrà, mettendo in campo una macchina realizzativa capace di dare risposte concrete al futuro. Il problema migratorio è un immenso problema, investe i paesi di provenienza, quelli dai quali i migranti si allontanano, favoriti in molti casi da organizzazioni che sfruttano le migrazioni a proprio vantaggio. L’allontanamento ha cause diverse, risiede in primo luogo nell’incapacità dei paesi di provenienza di dare vita a forme di governo che sappiano andare incontro ai bisogni e alle necessità delle loro popolazioni. Dunque c’è qualcosa che non funziona in chi dovrebbe avere a cuore la sorte della propria gente. Quali le ragioni? Sono tantissime, alcune di natura fisiologica, altre legate alla sopravvivenze materiale, altre ancora legate alla paura delle guerre, a povertà che non si risolvono e che costringono intere popolazioni a cercare fortuna altrove, a vecchie forme di colonialismo che invece di evolvere attecchisce con modalità diverse ma non meno distruttive. Il problema vero è che il fenomeno migratorio si è trasformato in business, c’è infatti che lucra sulle aspirazioni dei poveri. E’ in questo quadro che la cultura occidentale dovrebbe dimostrare la propria energia, la propria capacità di saper ordinare, orientare, costruire, è in casi come questi che si vede se il mondo si è preparato a sostenere le difficoltà, ha messo a punto strategie adeguate per contenere o risolvere le mille difficoltà che lo assillano. Il mondo della cultura e del perbenismo, quello della ricchezza e delle fonti di approvvigionamento hanno il compito di affrontare il problema senza creare ulteriori frammentazioni, cercando di dare risposte a fenomeni che rientrano nella riconversione umana, nella ricerca di nuovi spazi in cui riabilitare identità che sono state svilite e distrutte. I popoli della fame hanno bisogno di risposte e le risposte arrivano quando l’impegno per risolvere i problemi è unanime, quando esiste una volontà comune che va oltre gli interessi e le convenienze. La storia migratoria di questi anni dimostra quanto siamo impreparati e quanto la politica abbia bisogno di rinnovarsi. Non sono più i tempi in cui i governi possono permettersi soluzioni temporanee, i problemi vanno studiati e risolti adottando criteri scientifici, fortemente connessi alla natura umanitaria del problema. Forse non basta più approntare campi, ma occorre adottare una politica della ricerca e della comprensione che vada oltre, che sappia cogliere e individuare le esigenze vere degli esseri umani. I problemi di cui siamo stati e siamo spettatori denotano un’assoluta mancanza di profezia politica, di un impegno che vada oltre i muri e le convenienze e in cui il bene dell’uno corrisponda a quello dell’altro. Il mondo ci chiede una ridistribuzione della ricchezza, di essere più attenti e preparati a gestire la nostra vita e quella dell’umanità, di saper guardare avanti con coraggio, senza lasciarci intimidire da tutto ciò che tende a limitare, a confinare, a impedire che la storia possa cambiare in meglio per tutti, nessuno escluso. Superare le barriere, gli steccati, le diversità, ripianare le differenze, sono tutti passi che vanno fatti per impedire che si possa anche soltanto immaginare che il mondo in cui viviamo sia una proprietà privata che ciascuno possa gestire autonomamente senza pensare agli altri. Coltivare il sogno di possedere anche solo temporaneamente una proprietà privata per i propri bisogni può essere accettabile, ma con la convinzione morale che nulla appartenga in misura definitiva e che ad ognuno venga riconosciuto il diritto di poter dare un senso alla sua presenza, alla sua natura e ai suoi bisogni. Mai come ora abbiamo potuto toccare con mano l’impreparazione materiale, sociale, morale degli stati ai quali tocca di dare risposte al fenomeno migratorio. La politica si ferma e si arena, non sa quali risposte dare e allora si avvita nelle proprie idee, nei propri ideologismi, nelle proprie filosofie, dimostrando quanto la sorte degli esseri umani sia legata a varie forme di solidarietà sociale, quando invece dovrebbero rientrare in un assetto costituzionale ben definito e valido per tutti. Forse è arrivato il tempo che gli stati delle culture avanzate chiamino a raccolta quelli delle opportunità mancate e che insieme cerchino le soluzioni opportune. Dunque il fenomeno migratorio è costitutivo della storia e, proprio per questo, va affrontato e risolto con politiche di contenimento e di rilancio, che sappiano leggere senza ipocrisie quella voglia di umanità che transita almeno una volta nei cuori e nelle menti della persona umana.
Cosa pensa della illegalità?
Spesso i problemi, prima di diventare grandi, sono piccoli e nessuno li prende sul serio, è come se non avessero un peso e fossero quindi destinati a risolversi da soli, senza bisogno di avere quell’attenzione che si riserva ai grandi. Il problema vero però è che i grandi, all’inizio sono talmente piccoli che non destano preoccupazione, per cui l’atteggiamento più comune è: “Lascia perdere, non è il caso, va bene così, vedrai che si risolverà tutto”, insomma si cerca sempre di minimizzare, di sdrammatizzare e in molti casi di far finta di niente. Il problema vero è che la gente spesso non vede, non perché sia cieca, anzi, vede benissimo, ma non sa più andare a fondo nelle cose, non è preparata a capire il senso, si limita a vedere quello che vuole, quello che fa comodo, accetta tutto, infarcendo il tutto con la paura, il timore delle ritorsioni, un quieto vivere che ha tutta l’aria di un abbandono. Di solito l’illegalità nasce proprio da una sottovalutazione o da una sopravalutazione, dall’idea che tanto non importi niente a nessuno e che comunque andrà come dovrà, accompagnando così la vita verso varie forme di fatalismo e di qualunquismo. Manca la forza coesiva di un’educazione permanente, un’occasione per mantenere vivo quel piccolo budget costituzionale che ci è stato consegnato da una famiglia e da una scuola validissime istituzioni, ma non sempre all’altezza della situazione. Viviamo un’epoca in cui la gente crede di sapere ma in realtà non sa, crede di essere educata ma in realtà non lo è e tutto questo nasce da una superficialità di fondo, dove tutto, in particolare l’illegalità, trova svariate forme di tolleranza che invece di dissuaderla la fanno crescere al punto che diventa intoccabile o quasi, tanto da diventare difficile da individuare e perseguire, perché si riproduce e si trasforma rapidamente, non teme confronti, è intollerabile al buon senso, alle leggi e all’educazione. Si ha la netta sensazione che ciascuno promuova il suo livello di democrazia o il suo totalitarismo o la sua legge e guai metterla in discussione, non esiste più una piattaforma comune da cui partire per creare una rete solidale e, soprattutto, non esiste più l’autorità vera, quella che ti impone senza mezzi termini il rispetto delle regole. L’illegalità non è solo la corruzione, quella che appare sistematicamente sui giornali o alla tv, ma è anche quella che incontriamo nelle nostre vie, nelle nostre piazze, nei nostro oratori, nelle nostre famiglie, quella che si consuma ogni giorno davanti ai nostri occhi esterrefatti e di fronte alla quale nessuno dice niente o quasi, perché lo stato in cui siamo costretti a vivere oggi è uno stato di paura, dove basta un niente per cadere sotto i colpi della ritorsione o della non comprensione. L’illegalità non ha più età, la puoi trovare ovunque e a buon mercato. Ogni stagione ha le sue illegalità, ma il problema vero è che diventa oltremodo pericoloso combatterla, perché il senso civico è limitato e l’autorità o è tendenzialmente e furbescamente complice o prende le distanze e fa finta di niente. Il fronte dell’educazione esiste, ma non ha la forza necessaria per essere riconosciuto e tutelato, a tratti sembra persino un peso sociale, qualcosa che sminuisca il desiderio di arbitrarietà che cerca di farsi largo in ciascuno. E’ illegale rubare, corrompere, truffare, prevaricare la legge, mancare di rispetto. Le vie della illegalità sono infinite, ma nonostante tutto è sempre più difficile insegnarla, poter dimostrare che la bellezza di un modello di vita non sta nell’abusivismo libertario, ma nella capacità di sapere che cosa sia giusto e che cosa non lo sia, quali siano i principi su cui costruire una vita giusta, bella e armoniosa. Il consumismo ha contribuito moltissimo a far decadere il livello legalitario, ha diffuso infatti l’idea che bastasse avere dei soldi da spendere per essere bravi e onorati cittadini. Il consumismo ha diffuso la pratica di un arrivismo scriteriato, cancellando ogni forma di meritocrazia e di buona condotta morale. Tutto diventa lecito pur di raggiungere il proprio tornaconto. Un eccesso di consumismo ha sistematicamente cancellato tutto quello che la società post bellica ha costruito con grandi sacrifici, cercando di dimostrare che alla base di tutto dovevano esserci valori come l’impegno, la serietà, l’ordine, il rispetto delle regole e la solidarietà sociale. Il consumismo ha messo al centro il prodotto e la produzione, relegando l’essere umano in una sorta di limbo sperimentale da cui non riesce più a staccarsi. Oggi risulta estremamente difficile riattivare la legalità, riproporla come strumento di riedificazione, come punto di partenza per la costruzione di una società morale, in cui il cittadino si senta protetto, promosso, valorizzato, ma è un impegno che va preso e portato avanti con estrema determinazione, se vogliamo lasciare una testimonianza di pulizia e di ordine sociale ai nostri figli e ai nostri nipoti. Bisogna che le istituzioni si occupino meno di euro e più di umanità, meno di rivalse e di diatribe politiche e più di educazione civica e di rispetto, bisogna che le famiglie e le scuole siano fortemente impegnate sul terreno della ricostruzione educativa di un paese che soffre ancora di vincoli e di complessi che gli rendono difficile la vita. Snellire, semplificare, sburocratizzare al massimo, ridare fiducia, smetterla di insultare, intimorire, prevaricare, combattere la delinquenza e la malavita organizzata, rimettere in carreggiata l’efficienza di uno stato che soffre di complessi di inferiorità e che non sa più in quale direzione orientare la propria intelligenza e la propria creatività.
Quanto conta rivalutare l’educazione?
Moltissimo. L’educazione ha una valenza fondamentale in tutti i settori della vita, privata o pubblica che sia. Un paese ben educato, cosciente del proprio valore e dei propri mezzi ha la capacità di rinnovarsi, di rimettere in moto un motore che il tempo e l’usura hanno in parte messo fuori combattimento. Chi ha occhio sulle cose si rende conto che il sistema delle relazioni sociali e quello della comunicazione a tutti i livelli in alcuni casi hanno perso di autorevolezza. Un’errata interpretazione della condizione democratica, fondata su un eccesso di flessibilità e di arbitrarietà gestionale, dove tutto o quasi trova sempre una giustificazione, ha creato varie forme di spaesamento e di disorientamento. Oggi le persone faticano a capire, a rendersi conto di quale condizione stiano vivendo, in molti casi non sanno più distinguere il bene dal male, ciò che è lecito da ciò che non lo è, perché c’è sempre qualcuno che smonta, minimizza, assolve senza spiegare fino in fondo il perché di certe soluzioni e perché il senso di responsabilità individuale, così fondamentale, non riesce a fare breccia nella mente e nel cuore delle persone. Giustificare sempre non crea democrazia, amplificare la libertà fino all’eccesso non giova alla libertà, né a quella personale né a quella comunitaria. I valori dati in pasto alla commercializzazione democratica non si elevano, non evolvono, si pianificano, si fossilizzano, non hanno più ali per volare, per librarsi in volo, ma restano prigionieri di strategie inventate da chi tenta sempre di adeguarli alle proprie richieste. L’educazione intesa come rispetto di un sistema di regole che sovrintende le nostre azioni è il sale di una democrazia compiuta, dove tutto risponde a finalità collettive, a stili di vita che richiedono osservanza, rispetto, adesione, comprensione, ma anche una forte volontà attuativa. La società in cui viviamo si lascia spesso sorprendere da chi si fa scudo della democrazia, da coloro che minimizzano sempre per svuotare l’educazione democratica e finalizzarla alle proprie mire, a ciò che fa comodo. L’educazione non è comodità, ma impegno e in qualche caso anche fatica. Osservare le regole comunitarie non è cosa da poco, ma richiede intelligenza, razionalità, capacità critica, fede nel bene comune, nella capacità degli esseri umani di collaborare, di unirsi nella pratica dell’onestà e della lealtà, operare insieme per migliorare la nostra condizione umana. Le devianze diseducative partono sempre da condizioni di non chiarezza, in cui si annidano varie forme di accondiscendenza e di interessata disonestà, lo vediamo quotidianamente grazie anche alla martellante azione informativa dei mezzi di comunicazione di massa. Oggi diventa difficile anche soltanto dire: “Hai sbagliato”, ci troviamo nella condizione che pur di salvaguardare la nostra incolumità personale siamo costretti ad accettare tutto, anche quando siamo oltremodo convinti che quel tutto sia illegalità spacciata per bontà e generosità, qualunquismo spacciato per buonismo. Il buonismo non è una forma educativa convincente, non crea cultura, serve solo a tentare di creare una temporanea tregua, per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto. La maleducazione strozza la visione, la rende incolore, priva di slancio, la cementifica, trasformandola in logo museale, fa comodo ai potenti, agli arroganti, ai maleducati, a tutti coloro che per non perdere di vista i propri interessi sono sempre pronti a mettere in campo predicazioni e panegirici che non hanno nulla di vero e di umanamente valido. La maleducazione è sempre frutto di chi ha lasciato correre facendo credere che il tempo e la storia fossero sempre dalla parte del buon senso, senza peraltro immaginare che tutto, anche il minimo, rientra in una fermezza cautelativa che prende forma grazi a un comune sistema di regole da osservare e rispettare. Chi pensava che la democrazia fosse solo un fatto politico si sbagliava, l’ha sottovalutata e così facendo l’ha resa fragile, incolore, facilmente biodegradabile, l’ha svilita, togliendole quella fierezza e quell’orgoglio che la rendevano fiduciosa e convinta di poter fare qualcosa di utile e di bello per una società senza presente e senza futuro. Certo sarebbe auspicabile che ciascuna persona avesse coscienza della propria condizione, dei diritti e dei doveri che la governano, sarebbe oltremodo utile e moralmente stabile se ciascuno applicasse la propria dose di convinzione educativa alle cose che pensa e a quelle che fa, forse non avremmo bisogno di sentir urlare, inveire, offendere, minacciare, forse ci sentiremmo uomini e donne diversi, meno rassegnati e più sicuri, più capaci di realizzare la nostra porzione di felicità, senza calpestare quella degli altri, ma il terreno va arato, coltivato, protetto, conservato, seminato, concimato, senza demordere mai, perché è nella lungimiranza del contadino che alla fine c’è pane per tutti. Riedificare è fondamentale, ma per farlo occorre essere convinti e soprattutto è necessario aver imparato la lezione, con la speranza che è dall’impegno determinato di tutti che può nascere una società più attenta e capace di mettere in pratica quei valori che sono il sale di una democrazia matura, vera, compiuta, che non teme di dire si o no, all’occorrenza, senza cadere nelle beffarde strategie di chi vorrebbe addomesticarla e renderla sempre più simile alla propria disonestà.
Cosa pensa della violenza sulle donne?
Stiamo attraversando un momento terribile, che denota una fortissima fragilità dell’essere umano. In questi anni abbiamo assistito a una graduale frantumazione del sistema educativo, che ha colpito i grandi pilastri dell’educazione, la famiglia, la scuola, la società civile, lo stato, mettendo in evidenza quanto gli esseri umani fossero impreparati a far coesistere civiltà e progresso, libertà e democrazia, senso del dovere e senso di responsabilità, l’avvento della tecnologia si è impossessato dell’umanità, assoggettandola a varie forme di sottomissione e di prevaricazione. L’evoluzione sociale, che ha visto l’affermazione del ruolo della donna, ha messo in evidenza l’assoluta incapacità del mondo maschile di prendere atto della rivoluzione di un sistema in cui la donna diventava finalmente libera di esprimere fino in fondo la propria natura, la propria intelligenza, la propria capacità di essere protagonista della sua storia e di quella del mondo. Chi fino a poco tempo prima deteneva il primato della superiorità e del comando, doveva fare i conti con quella società che per molti anni era stata sottomessa, relegata al ruolo di una subordinazione passiva di fronte allo strapotere del ruolo maschile. Qualcosa non ha funzionato nella ricomposizione dei ruoli, qualcosa che si era fortemente sedimentata nel corso del tempo, al punto che sarebbe poi stato difficilissimo ricomporre, riannodare, ridefinire, rinnovare. Ci sono cambiamenti che avvengono quasi sistematicamente, altri invece hanno bisogno di una riproposizione educativa che vada in profondità, che ridistribuisca il senso di una dignità per troppo tempo cancellata dai rapporti umani. La rinascita del mondo femminile è stata ampia e profonda, ha costretto a ripensare, a mettere sul piatto verità e sistemi che per troppo tempo erano stati immortalati da una società cresciuta nell’immobilismo cronico delle tradizioni; chi per moltissimo tempo aveva innalzato la bandiera del comando, si trovava improvvisamente a dover fare i conti con nuovissime modalità di approccio. Quell’idea di possesso che aveva dominato il passato, si andava via via frantumando, per lasciare il posto all’idea che la realtà dovesse diventare una casa comune, nella quale ciascuno fosse libero di esercitare la propria personalità nel rispetto delle regole e che le decisioni fossero il risultato di una rinnovata determinazione del costume. La donna non era più soltanto l’angelo del focolare, su di lei gravavano spesso le responsabilità di una famiglia che aveva assolutamente bisogno del suo aiuto per far quadrare i conti, per permettere al nucleo famigliare di evolversi anche sul piano economico e sociale. Un eccesso di libertarismo ha reso meno vincolanti i legami, soprattutto quelli affettivi, creando l’idea che finalmente si potesse agire nella massima libertà senza più essere soggetti alle rimostranze di una società costruita sul modello maschilista. La costruzione di un nuovo modello educativo, fondato più sulla parità che non sulla sottomissione, creava discrepanze di vario genere e natura, innescando dei meccanismi che dovevano rimodellarsi e rifondarsi per poter rispondere nel modo più aderente possibile al nuovo che stava avanzando. Il nuovo modello della famiglia nucleare, sostituiva di quello tradizionale, creando i presupposti per un rinnovamento profondo del costume, rinnovamento che aveva pur sempre bisogno di una forte dose di pedagogia educativa, per non perdere mai di vista la linearità di quei rapporti sociali fondati sul massimo rispetto delle rispettive condizioni. Molti fattori hanno contribuito a determinare una caduta del sistema educativo tradizionale, creando una radicale confusione dei ruoli. La famiglia tradizionale non ha retto l’urto con quella uscita dall’evoluzione tecnologica, la moderna tecnologia ha via via sostituito tutto il sistema relazionale, togliendo spazio al dialogo, al racconto, al confronto, a tutta una serie di rapporti umani di natura prevalentemente affettiva, che avevano caratterizzati la vita italiana del dopoguerra. La natura affettiva dell’essere umano veniva sostituita da una fredda comunicazione a distanza, da una libertà scambiata spesso per licenziosità, la nuovissima tecnologia scardinava un sistema fondato sulla prossimità, sulla capacità di emozionare e di emozionarsi, sulla bellezza di una storia che aveva nella famiglia e nella scuola i suoi vasi comunicanti. Quando il terreno diventa arido, quando i rapporti si riducono a suoni contratti, quando viene a mancare il dialogo tra le parti e tutto viene affidato a un computer o a un telefonino, si riduce al massimo l’affettività, si impedisce a un carattere di confrontarsi direttamente con quel mondo che chiede di essere capito e riconosciuto. La società è cambiata nella sua visione istituzionale, ma si è persa di vista, si è dimenticata che gli esseri umani sono prima di tutto umani e che hanno un estremo bisogno di mettersi a confronto, di trovare nell’altro un punto fermo, un mondo sempre aperto, capace di dare risposte, di sviluppare domande e proposte, di trovare ospitalità e comprensione. Un sistema che perde di vista la propria consistenza etica, sentimentale e morale, rischia di trasformare la propria dose di umanità in rabbia e cattiveria, rischia di non sapere più distinguere il bene dal male, rischia di non sapersi più collocare all’interno di un rapporto che va costruito giorno per giorno, con tanta cura e con tanto amore. Il rispetto dei ruoli è andato perdendo la sua sostanza civica e morale diventando in molti casi un opzional gestito dal potere del più forte, si è andato perdendo il senso del diritto e quello del dovere, è venuta così a mancare una visione eticamente complessiva della nostra vita e di quella degli altri. Ritrovare il senso della vita, rimettere a fuoco i valori fondamentali di una società civile sono i passaggi che un paese deve fare se vuole ritrovare la strada che conduce al rispetto e alla condivisione, alla socialità e alla collaborazione. Per rimediare a tutti gli errori che sono stati commessi in questi anni di esasperazione del consumo e di una ricerca esasperata della libertà, occorre rivalutare l’importanza che gli esseri umani hanno nella costruzione di un mondo che sappia riconoscere nella famiglia il luogo da cui partire per ritrovarsi.