RACCOLTA DI ARTICOLI SUL LAVORO
FELICE MAGNANI
PREFAZIONE
La nostra Costituzione è davvero straordinaria quando afferma che l’Italia è una Repubblica Democratica Fondata sul Lavoro. Dunque il lavoro è alla base di tutto, il lavoro come serratura per aprire le porte di una nazione che vuole crescere, rigenerarsi, riprendersi quello che spesso la storia sottrae, rilanciare la forza di uno strumento che, se amato e insegnato, può davvero cambiare in meglio una società. Parlare del lavoro non è impresa facile e scontata, soprattutto in momenti come questi, dominati da profondi cambiamenti che riguardano l’interazione sociale, l’integrazione, i fenomeni migratori in tutte le loro componenti, le difficoltà finanziarie delle famiglie, la rigenerazione di un debito pubblico in molti casi eccessivo, l’avvento del digitale, la necessaria riconversione della prassi tecnologica, le difficoltà climatiche, la necessità di operare in direzione di un consolidamento della formazione di un popolo in molti casi ancora piuttosto spaesato e incapace di applicare le novità in corso. E’ un momento questo in cui c’è un assoluto bisogno di chi lo sappia vivere, far vivere e testimoniare. Il lavoro non è solo diritto costituzionale, ma strumento legalmente riconosciuto per aderire alla costruzione di una comunità armonica, socialmente forte e ben distribuita, da cui il cittadino si senta costantemente stimolato e accompagnato, orientato e incoraggiato e dove valori fondamentali come la scuola, lo studio, la formazione, la preparazione, l’impegno, la determinazione, l’autorevolezza e l’onestà diventino la struttura portante di una Carta Fondamentale che vuole cambiare in meglio la storia di un paese che guarda all’Europa con una rinnovata fiducia, fiducioso in una forte collaborazione e nella realizzazione di una unione che non sia solo di facciata, ma che si trasformi in ferma volontà di operare cambiamenti che siano in grado di consegnare ai cittadini la possibilità di gettare sul campo una forte spinta innovativa, la possibilità di permettere a tutti di poter vivere con la dovuta tranquillità e determinazione quell’esercizio costituzionale che favorisce, se ben compreso, di fare in modo che tutti si sentano parte fondamentale di una società che ambisce a mettere in primo piano il lavoro come momento di creazione di una società che vuole essere protagonista della propria storia.
IL LAVORO E’IL PERNO ATTORNO AL QUALE GIRA LA NOSTRA COSTITUZIONE
Il primo passo per iniziare a lavorare è mettere da parte la puzza sotto al naso, buttarsi nella mischia e cominciare. L’inizio è quasi sempre un salto nel buio, nel senso che a una forte volontà non corrisponde quasi mai la felicità di una conquista, ma la volontà fa la differenza. Partire con la voglia di riuscire è fondamentale, perché permette di superare ogni tipo di frustrazione. L’essere umano soffre moltissimo di preconcetti, pregiudizi, timori, vorrebbe avere tutto subito, un bello stipendio, qualche giorno da dedicare al tempo libero, il sabato e la domenica possibilmente liberi, insomma si vorrebbe che tutto filasse via liscio fin dall’inizio, si vorrebbe possedere fin da subito quella sicurezza che toglierebbe ogni tipo di pensiero, fermo restando che il primo lavoro, quello iniziale, difficilmente risulta essere definitivo, non dà subito quella sferzata che regala sonni tranquilli, il lavoro è sempre una conquista e si sa che le conquiste richiedono impegno, determinazione e fermezza. Di solito prima di arrivare al perimetro delle certezze bisogna navigare dove capita, l’obiettivo importante resta sempre un pochino in disparte, si fa desiderare, si fa attendere, non si concede subito, predilige una bella ricerca, una forte riflessione, una maturazione, la capacità di mettersi in discussione, di confrontarsi, di capire se quello che si sta facendo potrebbe diventare il leit motiv della nostra esistenza presente e futura. Non tutti i caratteri sono uguali, ogni persona ha caratteristiche fisiche, morali, sociali, culturali molto personali, salvo dover cominciare a pensare che la comunità abbia bisogno del contributo di tutti e che tutti diventiamo indispensabili. La comunità non è mai un “piccolo”, è una bella realtà grande e come tale va capita, seguita, perché ogni sua parte possa entrare in armonia con l’altra, in modo tale che il tutto diventi la sua vera forza. Dunque come membri di una comunità siamo tutti indispensabili. Essere indispensabili significa che ognuno ha un compito da realizzare. Oggi tra cultura e lavoro non esiste uno spazio cognitivo bilanciato, di solito la cultura sposta l’asse dell’apprendimento dalla terra al cielo, impedendo che la cultura stessa diventi qualcosa di più e di meglio che non un semplice accatastamento nozionistico destinato al paradiso. Uno dei grandi problemi della società in cui viviamo è che ci siamo dimenticati di quali siano i valori fondanti che portiamo dentro, forse perché chi aveva il compito di mantenerli vivi ha fatto troppo poco per continuare a mantenerli, per fare in modo che potessero sopravvivere con forza in una realtà in rapida evoluzione. Pensare a una società elitaria oggi, con tutti i problemi che dobbiamo affrontare, è assurdo, dividere la società in buoni e cattivi come si faceva a scuola quando temporaneamente mancava il professore è riduttivo, bisogna attivarsi, bisogna rinunciare a qualcosa per guadagnare altro. Nella comunità tutti hanno stessi diritti e stessi doveri, devono sentirsi protagonisti di una storia, ogni persona merita il nostro interesse e il nostro aiuto. Non credo che il padre eterno ami circondarsi di fidatissimi, lasciando in un angolo tutti coloro che per un verso o per l’altro hanno bisogno di aiuto. Noi italiani siamo stati abituati a dover continuamente chiedere e mediare per sopravvivere in un mondo molto classista, dove il figlio del ricco aveva tutto a disposizione mentre il figlio del povero doveva alzare molto presto i tacchi per guadagnarsi la pagnotta. Gran parte della nostra cultura educativa è nata tra mille timori e paure, incapace molto spesso di stendere uno sguardo amico e sereno sulla realtà. In passato si è parlato pochissimo di inclusione, perché i padri fondatori della cultura nazionale, in alcuni casi invece di convergere hanno coltivato varie forme di divisionismo. A fronte di un mondo che si apre sempre di più, si rende necessario preparare educatori che siano all’altezza, che sappiano alimentare la stima, che orientino concretamente la voglia di credere e di fare, per questo occorre avere uno sguardo che sappia andare oltre, che sappia vedere positivo anche dove il terreno non è sempre quello che tradizionalmente abbiamo conosciuto. E’ nell’ambito di questa apertura mentale che l’educazione forma i discenti e i docenti, è in questa straordinaria occasione di evangelizzazione morale e sociale che l’uomo e la donna si formano e si guardano attorno con una rinnovata volontà morale, sociale e religiosa. Forse è arrivato il momento di chiederci che tipo di educazione vogliamo per i nostri figli, cosa ci aspettiamo da chi un giorno dovrà a sua volta educare, spiegare il significato di parole come Dio, famiglia, patria, amore, coscienza, legalità, giustizia. Una cosa è certa, fare i genitori non è facile, bisogna abituarsi a dire no, a far capire che cosa è bene e che cosa è male, bisogna imparare a trattare i figli con autorevolezza, senza cadere in quei subdoli ricatti di cui molti giovani si servono per fare sempre quello che vogliono. In questi anni difficili l’uomo ha dovuto guardarsi dentro, ha dovuto fare i conti con varie forme di inadeguatezza, si è reso conto di quanto fosse difficile costruire una vita degna di essere vissuta, ha dovuto rivedere delle relazioni e dei rapporti, ha dovuto porsi delle domande e soprattutto ha preso atto di quanto la famiglia fosse impreparata ad affrontare le difficoltà della vita. Rimettere in sesto una società in crisi non è facile, non è facile recuperare la stima, l’autostima, la determinazione, l’impegno e lo spirito di sacrificio, non è facile guardarsi dentro e cambiare, capire che il mondo che ci attende richiede una grande capacità di adattamento e di cambiamento. Ripartire dalla Costituzione, dai suoi diritti e dai suoi doveri, dalla necessità di diventare parte attiva della società è l’unica strada che possa permettere a tutti di fare un passo avanti.
PAOLO VI, UN GRANDE AMORE PER IL LAVORO
Grande pensatore Giovanni Battista Montini. E’ proprio nel dubbio socratico che crea le note di un pensiero umano, solidale, razionale, introspettivo, un pensiero che si colloca in una dimensione in cui l’azione umana, per quanto energica e innovativa, ha sempre bisogno della forza dello spirito santo. Afferma in un passaggio della sua storia sociale:
“Dare lavoro all’uomo è creare in lui e nella società una prima pace, un primo ordine. Chi provvede compie azione altamente benemerita. L’iniziativa privata giustifica socialmente se stessa ogni qualvolta crea nuova fonte di lavoro; e la comunità, che si impegna a non lasciare alcuno disoccupato, esercita uno dei suoi più impellenti e benefici doveri. Il beneficio non è soltanto pubblico, è altresì personale, psicologico; entra nell’animo di chi, impiegando le proprie energie, gode di sperimentare le proprie capacità operative e sente di formare e possedere se stesso: la fatica, che ha in sé qualche castigo, genera però in chi la compie un’esplicazione vitale, che la redime e la nobilita”.
Nel dubbio Montini evince la certezza e nella storia umana legge la necessità di una forza educante superiore. Bellissima e paterna è la sua preoccupazione per chi è senza lavoro, per chi soffre l’impossibilità di una realizzazione personale. Quanta attualità nel pensiero e nella forza morale di questo sacerdote, quanto amore per la condizione umana, per le sue attese, le sue sofferenze e le sue necessità, quanta intuizione e impegno creativo. E’ un campanello il suo che suona fortissimo anche oggi, in una società che ha perso di vista le priorità, i valori supremi, quelli che danno un senso al tempo, allo spazio e alla vita. E’ di quei giovani che cercano disperatamente una relazione che si sente sostegno e difesa, è della condizione di chi, senza lavoro, è costretto a trascinare a fatica la propria esistenza che il suo spirito si fa paladino e garante. Un uomo e un vescovo che ha la grande capacità di saper guardare nel cuore degli uomini, leggere le loro fatiche, i loro impulsi, le loro aspirazioni, il loro desiderio di vivere con dignità l’esistenza che hanno ricevuto in dono. Sa quanto sia importante il lavoro nella costruzione della famiglia cristiana. Sa quanto siano importanti le regole che intercorrono tra il datore di lavoro e il lavoratore e sa perfettamente che l’imprenditore deve guidare con paterna benevolenza chi entra in questa straordinaria dimensione. Montini afferma che il disoccupato appartiene alla comunità e che è la comunità stessa che deve farsi carico delle sue pene delle sue aspettative, dei suoi bisogni e delle sue necessità. Il lavoratore in difficoltà non può essere lasciato solo. La solitudine è nemica della relazione. La solitudine genera frustrazione e la frustrazione genera a sua volta forme di violenza su se stessi e nei confronti della comunità. E’ la comunità nella sua dimensione cristiana che ha il compito di essere attenta e garante della sopravvivenza morale e materiale dei suoi componenti. Non è abbandonando le persone al proprio destino che si costruisce la città di Dio, non è lasciando l’uomo nella disperazione che una comunità matura afferma la propria identità. E’ in questa disposizione evangelica che si dispiega la giustizia sociale e l’amore per la legalità di Giovanni Battista Montini, sempre accanto all’uomo, sempre con l’orecchio pronto a raccogliere voci che implorano coerenza, carità, appartenenza sociale, dignità, sempre pronto a rilanciare la propria missione umanizzante, senza far pesare mai la teologia del dogma o l’invadenza di una qualsiasi presa di posizione gerarchica. E’ l’immagine di un’intelligenza che si delinea nella sua concretezza e compattezza umana, che cammina passo a passo con il cristiano ovunque si trovi, chiunque esso sia, perché il cristianesimo, come lo insegna Montini, è nobile forma di riabilitazione sociale e di avvicinamento a Dio. Vive in lui questa origine storica, questa appartenenza, questa speranza nata dalla “rivoluzione” di un sistema che tradiva la libertà dell’uomo, la sua naturale vocazione alla vita. E’ per questo che il cardinale divenuto papa ragiona e si dispiega, è per questo che si domanda e domanda, è per questo che prende iniziative, che stimola la realtà, perché il realismo riconosca le sue necessità. Le sue parole sempre vibranti, sempre piene di calore familiare anche nella loro fermezza, ci fanno entrare nel cuore dell’uomo che attende e che soffre, ci educano all’ascolto delle tribolazioni, ci orientano sulle iniziative da prendere, ci fanno capire che è attraverso un dialogo costante e sincero che si possono risolvere i problemi individuali e quelli collettivi. “Cristiano vuol dire libero”, con queste parole l’arcivescovo esprime tutta la filosofia e la dignità della più grande rivoluzione salvifica della storia, quella che ha restituito all’umanità una sua dignità sociale, il senso di una appartenenza, la forza delle giustizia e della legalità, la forza della fede e dell’amore. Montini inaugura un nuovo concetto di libertà, libertà che significa affrancamento dalla schiavitù materiale, morale, ideologica, fisica e politica, una libertà che fa sentire la persona realtà completa, capace di vivere in pienezza la sua appartenenza.
IL LAVORO NEL PENSIERO DI MASSIMO D’AZEGLIO
La lettura de “I MIEI RICORDI” di Massimo D’Azeglio, conduce ad alcune riflessioni di grande rilevanza umana e sociale, che trovano spazio nel pensiero moderno, spesso in aperto conflitto tra l’essere e l’avere, ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, l’umano e il disumano consumo delle risorse. Occorre sottolineare la grande capacità dello scrittore torinese di sapersi guardare dentro, di sviluppare indagini introspettive serie, di procedere a una analisi critica fredda e distaccata su un tema di grande attualità, come quello del lavoro. A differenza di molte persone, che identificano il lavoro con la ricchezza, la celebrità, il potere, il successo, trasformando un diritto-dovere in uno strumento di dominio economico e intellettuale, per Massimo D’Azeglio il lavoro diventa espressione di una volontà tesa alla realizzazione di sé, del proprio io, di una vocazione maturata nell’alveo di una corretta coscienza critica. Secondo lo scrittore, chi intraprende un lavoro, non deve lasciarsi ispirare dalla materialistica tendenza di far soldi, bensì dalla volontà di dare libero corso alle risorse che ognuno porta dentro, lasciando che il cuore e la mente le orientino positivamente. La professionalità è un tema da non sottovalutare, perché è la chiave di lettura della qualità di ciò che intraprendiamo e realizziamo. Si lavora non solo per fare quattrini, ma per soddisfare una parte importante della nostra natura umana, per dare libero sfogo a quel patrimonio che l’uomo possiede e che, in molti casi, non conosce, perché non è stato educato a riconoscerlo. Anche in questo caso è doveroso soffermarci sull’importanza dell’educazione, che spesso ha come base d’appoggio l’istruzione. Istruzione ed educazione viaggiano su binari paralleli, ma è necessario che, alla fine, convergano, altrimenti si corre il rischio di creare erudizione, piuttosto di sapienza e saggezza. In molte circostanze il maestro si è posto in posizione privilegiata, ritenendosi l’unico detentore del potere intellettuale. Il lavoro, secondo Massimo D’Azeglio, permette alla persona di esprimere al massimo livello la propria libertà personale, fuori dai vincoli della sottomissione, della subalternità economica, intellettuale e morale. Ma l’autore pone l’accento anche su un altro aspetto fondamentale del lavoro, la sua predisposizione alla socialità, alla capacità di sollevare l’essere umano da un pericoloso isolamento, da una solitudine che potrebbe diventare l’anticamera della malattia. Il lavoro è relazione, comunicazione, interazione di persone che hanno a cuore non solo la propria realizzazione personale, ma anche quella della società nella quale vivono e operano. Il lavoro ha una duplice funzione, di emancipazione sociale e di strutturazione caratteriale. Nel lavoro convergono le aspirazioni di una comunità, si realizza una complessa rete di relazioni, si definisce l’essenza stessa dello stare insieme. Lo scrittore torinese sottolinea anche l’aspetto terapeutico dell’attività lavorativa, energico antidoto all’ozio, alla non volontà di fare, di operare, di rendersi utili alla società nella quale si vive. Il lavoro è una medicina potentissima contro i vizi che distruggono l’uomo, basti pensare alla droga. E’ attraverso il lavoro che la persona riacquista la propria dignità, la consapevolezza di essere parte attiva di un grande processo organizzativo e strutturale, finalizzato al benessere della collettività. Nel lavoro la persona definisce la propria essenza, si caratterizza sotto il profilo umano, culturale e caratteriale, dimostrando la sua capacità di superare le difficoltà che la vita dispone lungo il cammino. Educare al lavoro significa far capire all’essere umano che la conquista passa attraverso l’attitudine al sacrificio, all’impegno personale, al sudore della fronte. Ogni conquista presuppone un cammino lungo e difficile, che coinvolge tutto l’essere nella sua molteplicità e variabilità di risorse. Ecco, quindi, che scopriamo di essere creativi, di possedere fantasia, un patrimonio energetico di vastissime proporzioni e una volontà che può condurre lontano. L’istruzione diventa così elemento fondamentale di conoscenza, viaggio alla scoperta delle nostre potenzialità, strumento di sicurezza nella ricerca dell’ identità. Per questo deve diventare educazione, formazione e ricerca. Massimo D’Azeglio pone l’accento sull’arte, considerata spesso un passatempo, curiosità intellettuale, artificio. L’arte è una professione e come tale ha una sua dignità sociale, una finalità educativa, perché coinvolge la parte più nobile della natura umana, la sensibilità. Il nostro testo costituzionale dà grande spazio al lavoro e nel primo articolo si legge : “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro…”. Come si può osservare il lavoro rappresenta la struttura portante del nostro ordinamento istituzionale e viene considerato il vero collante della società civile. Molti si sono chiesti se fosse necessario inserire quel <fondata sul lavoro>. I Costituenti hanno voluto mettere per iscritto che tutti i cittadini hanno il dovere di lavorare e che non esistono categorie esenti. Per molte persone il lavoro è stato schiavitù, abbruttimento fisico e morale, per altri una forma di arricchimento personale. Nella logica moderna non deve più esistere alcuna forma di sfruttamento, tutti i cittadini devono godere di pari diritti e pari doveri. I più deboli devono essere sostenuti con un impegno ancora più grande. Il lavoro è la più elevata espressione del concetto di libertà e, quindi, di democrazia. Non esistono lavori di serie A e lavori di serie B, è l’essere umano con la sua volontà e il suo senso di responsabilità civile a qualificare il lavoro. Il lavoro crea autostima e lega l’umanità in un grande abbraccio fraterno, stimola la comunicazione, i contatti umani, gli scambi culturali, sfuma le diversità e le trasforma in potenzialità L’Europa sarà tanto più unita quanto più saprà rafforzare il lavoro come strumento di dignità e di libertà. Quando l’uomo non lavora cade vittima di frustrazioni, perde la fiducia in se stesso, si isola, con tutte le conseguenze che una simile situazione può comportare. La battaglia del lavoro contro i vizi, le povertà, le miserie e le malattie deve poter contare sull’impegno e sul senso di responsabilità di tutti. L’Ottocento è stato un grande secolo di ispirazioni unitarie, di uomini che hanno lottato e che si sono battuti per l’affermazione di valori universali, per la riconquista di una dignità infangata e calpestata, è stato il secolo del Risorgimento italiano. Chiunque voglia ripercorrere la storia, studiarla e verificarla e amarla deve partire dal momento in cui l’Italia ha trovato nel proprio cuore la forza di riconoscersi in una grande realtà morale, culturale, religiosa, politica ed economica e di affrancarsi dalla schiavitù dello straniero. Un paese unito è garanzia contro ogni pericolo di frammentazione promossa da chi volesse metterne in crisi l’identità. Con il lavoro si educa, si fa sentire i cittadini protagonisti delle proprie scelte.
IL LAVORO E’ UN OTTIMO VEICOLATORE
Il lavoro è un ottimo veicolatore di risorse umane, guida sicura verso l’affermazione della personalità, punto di forza di una società che vuole dimostrare la propria capacità di crescere e di rinnovarsi. Prima ancora di essere membro della Carta Costituzionale, è profonda e radicata esigenza dell’essere umano. Nasce dalla necessità di mettere a frutto l’intelligenza e tutte quelle qualità morali e materiali, di cui l’uomo è portatore. Il lavoro nella sua fase ludica è ricerca inconscia che passa al vaglio della ragion pratica, assumendo una propria dimensione etica, sociale e storica, tanto da venir veicolato, umanizzato, finalizzato, diventando il vero collante della società stessa. Nel corso della sua storia è stato condizionato spesso dagli eventi, diventando in molti casi una sorta di strumento atto a determinare ruoli e a marcare differenze sociali. In molti casi è diventato schiavo di padroni privi di una benché minima coscienza sociale, che hanno lasciato sul campo discriminazioni, povertà, paura, morte e distruzione. Ha così perso la sua straordinaria capacità aggregante, la sua natura culturale e creativa per diventare in molti casi sfruttamento, razzismo, assolutismo, illegalità, condanna, omologazione materiale e mentale. Grazie alla filosofia evoluzionista ha ritrovato una sua dimensione, un suo ruolo trainante, il suo slancio vitale. Lavorare è diventato obbligo sociale, diritto che nasce prima di tutto nella chimica esistenziale, nelle necessità del cuore e della mente, proiettati verso un’organizzazione sempre più completa e articolata dei comportamenti, delle azioni e del loro effetto abilitativo e riabilitativo della condizione umana. Il lavoro è la base su cui costruire un’identità forte, sicura, capace di concorrere alla pari con i ritmi e le necessità della vita. In molti casi lo abbiamo conosciuto e sperimentato sotto forma di condanna, perché chi avrebbe dovuto farcelo amare ha fatto di tutto per farcelo disprezzare e in qualche caso anche odiare. Oggi, che in molti casi manca, ne capiamo l’importanza, ne comprendiamo la fondatezza individuale e sociale, il suo essere spirito e materia, fonte d’ispirazione e di creatività, di equilibrio e di armonia. Dunque il lavoro va amato, anche quando non è quello che avremmo desiderato, perché la sua funzione riabilitativa e orientativa definisce una rinascita, la voglia di stare al passo col tempo e le sue risorse, di non cedere alle lusinghe di facili consumi o di sleali cortesie. Spesso i doni vanno riconosciuti, amati, coltivati, ci vuole sempre qualcuno che ne favorisca la nascita e la crescita, perché a tempo debito possano dare i frutti sperati.
IL LAVORO E’ IMPORTANTE
Il lavoro è importante per la crescita umana, culturale ed etica della persona. E’ uno straordinario strumento di scoperta introspettiva ed è un toccasana per la salute fisica e mentale. Grazie al lavoro stabiliamo un complesso e articolato sistema di relazioni con la vita che ci circonda, manifestando quei sentimenti che altrimenti rimarrebbero imprigionati. Il lavoro è vita, ci fa star bene con noi stessi e con il prossimo, ci regala gioie e anche sofferenze utili per mettere a nudo la nostra coscienza, per esprimere al massimo livello emozioni e sentimenti, per conoscere meglio noi stessi e gli altri. Per tutte queste ragioni deve poter diventare strumento di crescita e non di frustrazione. La maggior parte dei lavoratori soffre il lavoro, lo vede e lo sente come una forzatura, un peso, come qualcosa che si deve fare, ma che stravolge la spontaneità, l’inventiva, la natura umana e i suoi slanci. C’è dunque un aspetto del lavoro che deve essere valutato molto seriamente, se si vuole che sia sempre un grande momento di libertà e di valorizzazione personale e collettiva. Il lavoratore non vuole sentirsi suddito o soggetto passivo,vuole essere protagonista della propria storia personale e della storia della società di cui è figlio. La politica e i sindacati devono operare sulla via della condizione sociale, mentale e culturale del lavoratore, aprendogli nuove strade e nuove speranze, evitandone la robotizzazione o peggio ancora la mummificazione morale e salariale. Si tratta di accompagnare le persone a fare una scelta consapevole, che sia soprattutto scelta di libertà, dove la personalità genera e produce quel meraviglioso patrimonio di vocazioni che si annidano nella volontà individuale. Nel mondo del lavoro spesso manca una programmazione che sappia individuare e accompagnare i talenti e le risorse che albergano nella mente e nel cuore delle persone. Capita di incontrare giovani di grande talento che non vengono presi in considerazione da un mercato che insegue il proprio profitto. Il mondo del lavoro deve essere aperto, deve poter accogliere e promuovere la disponibilità umana e culturale di persone che pagano di tasca propria la fede nell’evoluzione. Non ansia e infelicità, ma coraggio e intraprendenza, non chiusura e discriminazione, ma attenzione e promozione. Lavorare deve essere un piacere, la possibilità di dimostrare la forza di una identità, di una scoperta, la gioia di una realizzazione, l’importanza di mettere i propri talenti al servizio degli altri. Il lavoro è, infatti, uno straordinario servizio alla persona, ma è lo spirito che deve cambiare. Per troppo tempo è stato associato alla povertà, alle lotte, alle discriminazioni, ai giochi di una demagogica lobbistica, alle prevaricazioni di gente senza scrupoli, alla arbitrarietà di gruppi e persone che ne hanno fatto una fonte sicura di dominio personale. E’ ricreando lo spirito del lavoro che si ricrea la vocazione di una società che cambia radicalmente i suoi contenuti e le sue potenzialità. E’ valorizzando gli esseri umani che si ottengono risultati soddisfacenti. E’ favorendo la realizzazione personale che si raggiungono ottimi risultati umanitari e comunitari. Bisogna avere il coraggio di spogliare il mondo del lavoro da quelle filosofie umane che lo hanno imprigionato nel corso del tempo, trasformandolo in una succursale del potere padronale e di quello politico. Uscire da una visione privatistica e utilitaristica del mondo del lavoro è necessario per rilanciare le sue ricadute morali e sociali, la sua straordinaria forza rigenerativa di sentimenti e di emozioni, la sua capacità di riannodare, riproporre e stimolare, il suo essere collante di nuove e più complesse realtà etniche. Il lavoro non deve essere una condanna, ma una grandissima opportunità che va coltivata, sostenuta e accompagnata. Per questo è necessario che il mondo rivaluti la condizione umana e le riconosca quella identità che la rende unica e che le consente di aspirare a quell’ umanissimo spazio di felicità che resta l’obiettivo di tutti. E’ finito il tempo degli antagonismi preconcetti, delle varie forme di lotta consolidata, del lavoro subalterno alle consorterie politiche e ideologiche, di una società creata a propria immagine come strumento di conflitto perpetuo. Le condizioni sono tali che richiedono un’ampia e approfondita cultura dell’ identità sociale, della capacità di saper entrare nell’evoluzione umana e nelle nuove intraprese culturali. Il dato ideologico che ha caratterizzato l’Italia post unitaria lascia gradualmente il posto ad una società che si caratterizza sempre di più per la sua indipendenza verso varie forme di costrizione, che ambisce a essere protagonista delle proprie fortune, anche a costo di pagare un prezzo, una società che è stanca di dover chinare la schiena sempre, anche di fronte a iniquità conclamate, l’uomo ama la libertà e sa che il lavoro è un ottimo deterrente. I giovani soprattutto non vogliono essere portati in giro con l’anello al naso, rifiutano la subalternità ideologica e politica, guardano al mondo con occhi sempre nuovi, capaci di restituire alla natura umana la sua storia, cercano la verità in una natura affettiva che accompagna verso la scoperta di se stessi e di una intelligenza capace di generare fiducia e generosità. E’ assolutamente necessario saper cogliere i fermenti di un mondo che si apre per dimostrare che lo spazio e il tempo sono categorie soggette a trasformazione e che la forza di un sistema sta anche nella capacità di ciascuno di sentirsi amato e valorizzato. Anche per questo i giovani amano meno la politica e più la voglia di dimostrare che nella vita ci sono valori più alti, capaci di dare all’uomo il senso compiuto della propria storia, invitandolo così ad abbandonare quel malinconico senso della rinuncia e della povertà che ne hanno cementificato il carattere nel corso del tempo. Il lavoro sarà sempre più essenziale se saprà riconoscere lo spirito che lo anima e se verrà messo nella condizione di far sentire le persone parte viva e integrante della creazione di una società che sa essere dinamica e proattiva, capace di interpretare e di inventare, di applicare la fantasia del lavoro soprattutto là dove la psicologia industriale diventa spesso preda di varie forme di imposizione.
IL LAVORO AIUTA, NON DISTRUGGE
Da un po’ di tempo a questa parte si parla di lavoro con un’ insistenza quasi ossessiva. Mai come quando un bene manca, ne senti la necessità e lo apprezzi, cercando di valorizzarlo al massimo, di dargli l’importanza che merita, di tenerlo ben stretto, dimostrando sul campo quanto sia fondamentale nell’evoluzione morale, culturale e sociale di una comunità che vuole rinascere, crescere e rinnovarsi. Sembra tutto scontato, tutto chiaro, tutto bello, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, nel senso che purtroppo non sempre il datore di lavoro è rispettoso delle normative costituzionali, non sempre valorizza quel tesoro di umanità che gli sta davanti, spesso si lascia coinvolgere da una visione padronale che risente di anni d’imposizioni e di sottovalutazioni, non sempre l’industriale accompagna con intelligenza il cammino dei propri operai, dei propri impiegati, dei propri professionisti, in molti casi si lascia stravolgere da vecchie forme di prevaricazione che in passato hanno generato reazioni a catena, scioperi compresi. In molti casi succede che il cittadino si senta tradito, preso in giro, raggirato proprio dalle persone a cui aveva consegnato la propria fiducia, la certezza che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi. Se un tempo era molto più facile fare delle differenze, scegliere la persona giusta, oggi è tutto molto complicato e soprattutto sono crollati quei valori sui quali il mondo del lavoro aveva costruito la propria forza, la propria energia, la propria capacità di essere perno e volano di una società volenterosa di fare bene, di dimostrare i propri talenti e le proprie risorse, di essere collaborativa e unita nel raggiungimento del bene comune. Il mondo del lavoro di oggi vive spesso di occasionalità, come se tutto dovesse crollare da un momento all’altro e la cosa migliore da fare fosse quella di portare a casa il massimo in barba alla qualità. L’idea generale è che manchi un’ educazione vera al lavoro che coinvolga la sfera morale, quella che si lega indissolubilmente all’onestà, all’impegno, alla lealtà e al rispetto del prossimo. In molti casi ci si sente spiazzati, travolti da situazioni che determinano una rottura dei rapporti interpersonali, con grave danno del lavoro in sé, della sua storia e del suo profilo istituzionale. Quando si parla di moralità del lavoro, con chiaro riferimento alla sua sostanza etica, si fa riferimento a tutta una serie di condizioni che ne determinano la qualità, in primo luogo l’onestà, quindi la lealtà. In molti casi manca infatti una lealtà che qualifichi i rapporti che si vengano a determinare tra il lavoratore fruitore e chi ha il dovere di dirigere l’azienda. Non basta una cultura di tipo teoretico, quella che si lega alla prassi istituzionale, ma occorre svilupparne una dinamica e attiva, che controlli la qualità del lavoro prodotto, soprattutto sul piano delle responsabilità individuali. Il lavoro è fondamentale, ma va dunque coltivato, amato, svolto sempre con grande passione e lealtà, con volontà e determinazione, deve aiutare il singolo e la comunità, ma non deve assolutamente diventare espressione di furberie a danno delle persone perbene.
IL LAVORO? FACCIAMOLO AMARE
Cambiano i tempi, le condizioni, i fenomeni, cambia lo spirito e cambia pure la materia, tutto è soggetto a modifica, anche la filosofia non è più così contrappositiva, cambiano gli strumenti, i metodi di confronto e soprattutto la natura si fa sentire con forza, definisce perimetri dentro i quali la vita deve centellinare i suoi spazi, la sua energia, la sua capacità di reazione, insomma nulla è sempre uguale, nulla si ripropone con le stesse sembianze, più l’intelligenza avanza sulla via della riconversione e su quella della promozione e più gli spazi si riducono, aumentano vertiginosamente i rifiuti, i mari e gli oceani si trasformano in ecatombi plastificate. C’è qualcosa che non va. Da una parte si inneggia ai miracoli della scienza, alla robotizzazione, a varie forme di eroismo, una mattina ci si sveglia con l’idea di essere i padroni del mondo e la mattina successiva ci alza con la paura di non farcela, si prende possesso della propria condizione. Quale potrebbe essere la via più breve per accedere alla felicità? Forse quella di un lavoro che piace, che fa sentire più umani, entusiasti, più partecipi, un lavoro che sa stimolare la nostra voglia di conoscere, amare, partecipare, di allargare i nostri spazi e, soprattutto, di scoprire che dentro siamo molto di più di quello che pensiamo e di quello che pensano gli altri. Uno dei grandi mali della nostra società è quello di vantarsi di avere una conoscenza perfetta del mondo e delle persone che lo abitano, come se avessimo tra le mani il libro delle verità, non sapendo che la conoscenza è uno dei passaggi più complicati della storia umana e che richiede doti molto particolari che di solito non esistono sulla carta, perché sono parte del dna di un essere umano. Molti si chiedono come sia possibile far amare il lavoro, il problema è che molto spesso non s’ incontrano le persone adatte, in molti casi infatti c’è chi usa il lavoro per ingannare il prossimo, per ridurlo in schiavitù. In questo tempo di Coronavirus, caratterizzato da una gravissima crisi economica, si moltiplicano gl’inganni del lavoro, che perde per strada la sua libertà e la sua energia, diventando spesso preda di gente senza scrupoli, pronta a strumentalizzarlo per trarne il massimo vantaggio. Spesso le difficoltà nascono da una diffusa superficialità, da una condizione umana che non sa più guardare avanti, che si occupa pochissimo di ricerca. Il lavoro è soggetto a profondi mutamenti sociali, ne assorbe i cambiamenti e le innovazioni. Il lavoro va esplorato, investigato, amato, studiato, è una fonte inesauribile di creatività. Di solito i bravi lavoratori hanno avuto bravi maestri. Un tempo i bravi maestri li potevi trovare vestiti con una tuta blu sporca di grasso e con la quinta elementare, ma era gente che aveva capito il senso della vita e che trasmetteva la propria ricchezza morale ai più giovani. Le famiglie, anche quelle più povere, educavano i propri figli, insegnavano la virtù dell’obbedienza, quella della pazienza e soprattutto insegnavano a portare rispetto a chi era più grande. Quello che la politica non hanno capito o frainteso è che il lavoro non è un’arma da usare contro qualcuno, ma una scuola di vita che permette di diventare un pochino più umani, passando attraverso l’impegno, lo spirito di sacrificio, la tolleranza, è la via che conduce al successo personale e a quello della comunità. Se nel lavoro c’è spirito di collaborazione le cose vanno meglio e a goderne sono tutti, nessuno escluso.
IL LAVORO RICHIEDE PROFESSIONALITA’ E IMPEGNO
Quando insegnavo mi capitava spesso di incontrare colleghi molto preparati sul piano della cultura personale, avevano infatti tutti i carismi necessari per trasformare l’insegnamento in uno straordinario laboratorio creativo, per stabilire una relazione stabile, per stimolare le doti di un carattere, di una personalità, avrebbero potuto fare la fortuna della classe, dei colleghi, dei presidi, dei genitori, di un paese, spesso, però, mostravano difficoltà nel rapporto con la classe, la subivano, non riuscivano a creare relazioni sintoniche e molto spesso rimanevano schiacciati da varie forme di prevaricazione, senza riuscire a venirne a capo. Un dramma. Quando chi ti sta di fronte decide di voltarti le spalle, puoi fare qualsiasi cosa, ma in buona parte dei casi non la spunti, a meno che non trovi la via che scavalcando la materia, conduca direttamente al cuore, passando attraverso il sottile gioco delle emozioni, dimostrando con gentile audacia e risoluta fermezza che la vita chiama tutti, nessuno escluso, ad assumersi delle precise responsabilità nell’interesse della comunità. Il miracolo succede quando la trasgressione si converte e, convertendosi, capisce l’inutilità di un atteggiamento o di un comportamento, si rende conto cioè che esistono modi molto diversi di esprimere un sentimento, una pulsione, una volontà e che agendo con duttilità e coraggio si possono raggiungere risultati insperati. Quando si parla o si discute di professionalità e di impegno si mette sul campo una infinità di doveri, di regole, di valori, di principi, ci si addentra in un labirinto complicatissimo, che rischia di destabilizzare un carattere non adatto a un certo tipo di lavoro, come quello dell’insegnante ad esempio, che richiede preparazione, umiltà, coraggio e molta determinazione. L’umiltà non è sottomissione, subalternità morale e spirituale, sociale o politica, esprime un legame profondo con la parte migliore dell’essere umano, quella che affonda le proprie radici nell’humus più vero e profondo, quello che sovrintende alle tentazioni di prevaricare o di trasgredire, quello che ci fa scoprire chi siamo, cosa è meglio fare, quali siano le amicizie da frequentare, quali valori adire, che tipo di comportamento sia meglio tenere per raggiungere risultati soddisfacenti, che cosa siano l’amore, l’onestà, la correttezza, la lealtà, il senso del dovere, l’impegno e la solidarietà. L’humus è la parte nobile della natura umana, quella che non si vede, ma che si fa sentire con richiami talmente belli e significativi che non siamo forse più in grado di decifrare, sommersi come siamo da dipendenze di ogni tipo, in primis da quelle di una presunzione tecnologica, che vorrebbe far credere che tutto si possa con un telefonino, un computer, dimenticandosi che le tecnologie più avanzate le possediamo già, solo che se ne stanno tranquillamente posizionate in profondità, in attesa di poter offrire una nobile consegna allo “scommettitore” di turno. Non occorre dimenticare che chi insegna apprende, l’insegnante è il primo a essere governato dalle leggi dell’educazione, è il primo che ogni volta si sottopone al giudizio insindacabile della coscienza individuale, prima ancora di soggiacere al giudizio pubblico, quello di persone prontissime ad ascoltare, a osservare, a giudicare, per scoprire che forma abbia quel mondo con cui devono fare i conti. L’incomprensione è sempre stato il vero dramma del rapporto con la classe. Avere molte nozioni da insegnare, ma non sapere esattamente da che parte cominciare, come veicolarle, essere poco predisposti alla conoscenza dell’animo umano, essere spesso carenti di empatia, cedere troppo facilmente al temibile gioco delle lusinghe, all’idea che un sistema paritario possa disarmare il “nemico”, sono tutte situazioni che determinano un stato di perenne conflittualità. Quante volte ci siamo riconosciuti o dichiarati impotenti. Avevo colleghi e colleghe bravissimi, ma incapaci di stabilire un qualsiasi rapporto educativo con la classe. La classe li rifiutava, li faceva diventar matti, li martellava al punto che poteva anche succedere che scappassero dalla classe, oppure che si rifugiassero in qualche aula silenziosa a meditare, chiedendo disperatamente l’aiuto del salvatore o della salvatrice di turno. I ragazzi hanno una straordinaria capacità di capire chi sia la persona che vorrebbe guidarli, educarli, condurli su strade diverse rispetto a quelle cui sono abituati. E’ molto difficile convincerli che possa essere vero il contrario. Eppure una via esiste e non è sempre studiata a tavolino o estrapolata da qualche manuale di pedagogia, spesso la verità è dentro di noi, ce l’abbiamo e non lo sappiamo, forse perché non siamo stati abituati a conoscerla, a interrogarla, a promuoverla, i nostri educatori forse, non tutti chiaramente, non ci hanno insegnato la parte più bella della lezione, quella che aiuta a riflettere su chi siamo, cosa facciamo, sulle cose che portiamo dentro, in particolare la voglia di stabilire contatti, di metterci alla prova, di capire che cosa si possa davvero fare per cambiare in meglio le sorti del mondo, soprattutto di quello con il quale condividiamo quasi quotidianamente i cammini e gli stili di vita. Il lavoro è fatica sempre, anche quando si presenta con il colletto bianco e con i polsini stirati. Nulla viene regalato, tutto ha un prezzo, capita molto spesso di dover ricominciare ogni volta senza dover perdere mai la pazienza, convinti che con la buona volontà si possano risolvere tutti i problemi. Quando si lavora si sbaglia e si sbaglia anche di frequente, ma lo sbaglio è taumaturgico, perché insegna a riflettere, è sbagliando che si cercano le vie d’uscita, quelle che fino a qualche tempo prima sembravano inesistenti, è sbagliando che s’impara a mettere sotto la lente d’ingrandimento il nostro carattere, la nostra personalità, è passando attraverso l’errore che s’impara a conoscere e a costruire di nuovo. Uno dei grandi limiti della società tecnologica è quello di puntare a tutti i costi sulla novità, sul successo imprenditoriale, dimenticando forse che alla base di tutto c’è l’educazione alla conoscenza di sé e del mondo, una stagione diversa e più attenta della nostra identità, riservando alla dignità uno spazio adeguato, capace di aiutarla a ritrovare la motivazione giusta per riprendere ad amare, a pensare, a essere attiva e presente nell’evoluzione umana. La professionalità ha bisogno di molto impegno, di aprire le porte di quel mondo che si lascia troppo spesso in balia della superficialità e della trascuratezza, forse c’è bisogno di un recupero, di una rinnovata presa di coscienza, di ritrovare il gusto delle cose belle, quelle che aiutano l’umanità a crescere di nuovo con gioia e con entusiasmo.
GUAI SE MANCA IL LAVORO
Vedere giovani bravi, capaci, pieni di iniziative, pronti a sorprendere con le loro idee, la loro creatività, il loro spirito di iniziativa è bellissimo, ci riempie di gioia, di entusiasmo, di fiducia nella vita, ma tutto questo decade quando questi stessi giovani vengono lasciati in disparte a coltivare i propri sogni, quando quel mondo che li esalta scompare dietro varie forme di perbenismo, continuando sulla via di un egoismo estremo, spingendoli in tal modo a intraprendere la via dell’esilio o quella della frustrazione perpetua. Purtroppo è così. Era così allora ed è così adesso, nell’era in cui i giovani dovrebbero essere la punta di diamante di un radicale rinnovamento di costume. L’abbassarsi dei livelli di guardia, quelli che consentivano un’attenzione particolare sul mondo del lavoro e sulle sue problematiche ha creato una sorta di improvvisazione in cui chi ha la voce più grossa e più protetta trionfa, mentre chi vive la quotidianità è costretto a tirare la cinghia e a sperare che la sopravvivenza non si trasformi in catastrofe. In questi ultimi anni siamo passati da un mondo del lavoro superprotetto, campo di battaglia di partiti e sindacati, a un mondo del lavoro dominato dal superego dei leader, personaggi che dominano la scena con uno spirito che non guarda in faccia alle tradizioni, alle regole concertate e condivise, ma impone la sua filosofia della globalità, in cui si annullano i sani nazionalismi, quelli che hanno favorito la nascita e la diffusione di una straordinaria cultura del lavoro, della storia, delle tradizioni, dei racconti e di quelle narrazioni che hanno fatto lievitare il livello educativo giovanile. La politica, soprattutto quella che ha tentato di costruire modelli compatibili, è quasi del tutto scomparsa, in molti casi al seguito delle rogne migratorie, persa in un tira e molla che non giova a nessuno, se non all’impoverimento progressivo del livello culturale del paese. Le politiche del lavoro sono sempre più spesso impennate occasionali, sussulti a singhiozzo di realtà decadenti, non hanno più la forza e la capacità di riportare garanzie e sicurezza in un mondo che è fondamentale per il nostro riscatto e la nostra rinascita. La politica è sempre meno politica e sempre più un interesse di parte fatto di sparate, urla, insulti, esacerbati antagonismi, non coglie più l’aspirazione popolare, quella che si muove nelle zone basse, dove i bisogni e le necessità sono fondamentali. Mancano progetti, manca una volontà comune, manca la serietà nell’affrontare i problemi, manca un contatto diretto con la realtà. I nostri giovani sono sempre più allo sbando, vivono di espedienti in un mondo del lavoro sempre meno protetto, sempre meno presente nelle varie fasi di un percorso che diventa fondamentale nella vita stessa delle persone. Cadute varie forme di protezione e di promozione, caduta una sana filosofia delle condizioni lavorative, lasciate sempre più in balia di un comparto industriale privato poco attento alla vita culturale, morale, economica e sociale del lavoratore, ci stiamo avviando verso una china molto pericolosa, in cui ad attenderci c’è la multinazionale con le fauci spalancate, pronta a ingoiare gli ultimi ritagli di arte italiana. Guai se manca il lavoro, ma per rimetterlo in pista occorre ridargli fiducia, rianimarlo, offrendogli spazi di creatività, di sicurezza e di speranza. Urlare non serve, serve piuttosto accorgerci che abbiamo ottime capacità e che abbiamo bisogno di gente che le sappia raccogliere e valorizzare.
IL LAVORO E’ MOLTO DI PIU’ DI UN DIRITTO/DOVERECOSTITUZIONALE
Di lavoro si parla moltissimo in tempi di crisi, quando emergono a chiare lettere i limiti e le deficienze di un lavoro disgiunto dalla sue componenti fondamentali, che riguardano la sfera etica, quella morale, culturale, sociale, economica, storica, perché il lavoro non è solo, come qualcuno vorrebbe far credere, una sorta di imbonitore in cui versare le frustrazioni della gente comune a proprio vantaggio, il lavoro è sostanza vera di una vita, è frutto di una personalità matura che vive e opera per condurre fuori quei talenti e quelle risorse di cui è munita, in molti casi inconsciamente. E’ nella sfera della coscienza/conoscenza che il lavoro deve prendere forma, dimostrare che la sua presenza tra gli umani non è un atto di presunzione, ma la certezza che ciascun individuo abbia la possibilità di crearsi una identità, di contribuire al benessere individuale e a quello collettivo, di esprimere concretamente se stesso nelle attività umane alle quali è chiamato dai bisogni e dalle necessità. Dunque il lavoro dovrebbe elevare l’essere umano, dovrebbe farlo sentire ricco di potenzialità, di voglia di fare, di costruire, ma in una dimensione comunitaria, dove l’opera individuale diventa ricchezza, motivo di miglioramento e di conforto per tutti. Il lavoro sia benedetto, lo sia perché contribuisce a formare il cittadino, la comunità, distoglie dalle inutili perdite di tempo, dalle frustrazioni, dalla solitudine, dalla depressione, dunque va cercato, stimolato, creato, vissuto, amato, organizzato, tutto deve concorrere a rafforzare la sua natura sociale, quella che lo rende in parte forza individuale e in parte forza inclusiva, capace di cambiare il volto di una comunità e di una nazione. Una società evoluta è una società che lavora, che occupa con entusiasmo e determinazione il proprio tempo, vivendo il lavoro con l’entusiasmo che merita. Succede però che il lavoro non venga fatto amare anzi, in molti casi si fa di tutto per farlo odiare, per dimostrare che è colpevole delle disgrazie di una società o di uno stato. E’ in queste circostanze che ci si rende conto quanto il cittadino non sia stato educato ad amare il lavoro. Succede così dappertutto, in ogni ambito, soprattutto là dove la cultura dovrebbe formare, fornire gli elementi per permettere ai futuri cittadini di valorizzare ciò di cui dispongono. Dunque il lavoro non è una punizione o una colpa, non è figlio del peccato originale, ma è semplicemente l’occasione sublime che la persona ha di diventare protagonista del suo tempo, di dimostrare che abbiamo tutte le carte in regola per vivere con equilibrio e discrezione i compiti che ci sono stati assegnati. Il lavoro non è imposizione, ma creazione, è dimostrazione che l’essere umano non sia un robot, ma una potenzialità da conoscere e da incoraggiare, perché possa realmente diventare artefice di un cambiamento. L’errore che si è commesso è stato quello di pensare che il lavoratore fosse una pedina da muovere a seconda dei profitti e delle convenienze individuali, politiche e sociali, senza tener conto che nel lavoratore c’è un’anima, l’unicità di chi opera, di chi si esprime. Riconoscere l’umanità del lavoro significa essere coscienti che abbiamo a che fare con esseri che vivono di emozioni, sentimenti, pensieri, valori, di slanci, di intelligenze, di condizioni che in molti casi chiedono di essere conosciute, capite, supportate e indirizzate. Il pensiero scientifico o presunto tale, le ideologie e le ingerenze politiche hanno sempre agito pensando prima a se stessi, hanno cercato sempre di far prevalere l’interesse di parte rispetto alla formazione morale e sociale del cittadino, creando un mare di incertezze e di disorientamenti. Chi lavora lo deve poter fare in un ambito in cui si senta riconosciuto, in cui l’ impegno e l’ abnegazione trovino conforto e supporto motivazionale, valorizzando quella parte individuale che ha bisogno di sentirsi protetta, aiutata, orientata e valorizzata. Al lavoro bisogna essere educati, è necessario che la parte individuale si armonizzi con quella comunitaria, bisogna che cambino radicalmente le dinamiche e le strategie, che il lavoratore venga trattato come costruttore e non come semplice esecutore, che gli si riconosca quella dignità naturale e costituzionale di cui è portatore. Chi lavora deve sentirsi gratificato, deve poter vivere con soddisfazione la propria condizione, deve sentirsi felice di essere al banchetto conviviale della felicità comune. Succede spesso che nel mondo del lavoro si creino antagonismi, incomprensioni, demotivazioni, che le persone vengano trattate con sufficienza e che non avvertano quella corrispondenza umana che è un ottimo dispensatore di entusiasmo e di forza interiore. I lavoratori hanno bisogno di sentirsi incoraggiati, devono sapere che quello che fanno ha una ricaduta importante, devono sentirsi protagonisti e non antagonisti, devono vivere con entusiasmo la loro condizione, anche quando potrebbe apparire frustrante o poco considerata. In questa operazione diventa fondamentale il compito dell’imprenditore, di chi sovrintende la vita dei lavoratori. Chi ha lavorato per molti anni sotto padrone sa quanto sia stato castrante dover sottostare agli umori di capi incapaci di amare, di apprezzare, di voler bene, di stimolare, di aiutare. Spesso si è assistito alla creazione di faide, di piccole guerre che hanno rovinato gli ambienti, la voglia di fare qualcosa di buono per sé e per gli altri. Siamo stati spesso testimoni di simpatie e di antipatie, di dirigenti che invece di unire rafforzavano la disunione, l’incapacità di creare entusiasmo e voglia di fare. La politica è stata alla base di molti dei conflitti che hanno creato dissapori e reazioni di vario ordine e natura. Aiutare il lavoro e chi lavora è un dovere, ma con la convinzione che chi lavora sia una persona da amare, da coltivare, da capire, da motivare e indirizzare, mai da isolare o da allontanare. Amare il lavoratore significa valorizzarlo, dargli la possibilità di vivere al massimo se stesso, soprattutto quando opera all’interno di convergenze condivise.
IL LAVORO E’ IMPORTANTE, BISOGNA AMARLO
Il lavoro è il pilastro della nostra democrazia, ma bisogna amarlo, non basta invocarlo, bisogna saperlo tenere stretto quando c’è. Tenerlo stretto significa riconoscergli quella dignità che gli compete non solo per diritto costituzionale, ma per quella sua natura capace di sorprendere, stupire, di creare, inventare, capire. Per questo va coltivato, migliorato, amato fino al punto di farlo diventare elemento qualificante della nostra vita, del nostro modo di essere. Il lavoro consegna dignità se lo si sa vivere con gioia ed entusiasmo, se lo si sa conservare con cura, se si fa di tutto per far si che diventi elemento qualificante della nostra intelligenza e della nostra esistenza. Non è sempre così, non sempre chi lavora lo fa con amore e con la dedizione necessaria, in molti casi c’è chi si lascia traviare dall’approssimazione, dalla superficialità, dall’ incompetenza e dall’impreparazione. Quando un lavoro non è ben fatto crea problemi, demoralizza, innervosisce, crea difficoltà di vario ordine e natura. Se un artigiano alza i prezzi, ma poi dimostra di non essere all’altezza fa brutta figura, crea problemi al prossimo, mette in difficoltà la categoria e il mondo del lavoro in generale. Spesso siamo testimoni di persone che vantano un’alta professionalità e poi commettono errori incredibili. La qualificazione professionale è determinante, saper lavorare e lavorare bene è fondamentale, avere competenze e saperle sfruttare adeguatamente è molto importante, una società non può vivere di impreparazioni, di approssimazioni, di gente che fa le cose tanto per farle, facendo credere di farle bene. Spesso succede di cadere nelle trappole di lavoratori che a parole spaccano il mondo, ma che non sanno fare il proprio lavoro e pretendono di essere pagati fior di quattrini. Dunque il lavoro va tenuto ben stretto, va coltivato, approfondito, ampliato, rispettato, ma è importante che lo si faccia con capacità e competenza, seguendo un’etica comune. Il mondo del lavoro ha bisogno di essere promosso, garantito, deve far leva sulla qualifica professionale, sulla capacità del lavoratore di essere sempre all’altezza della situazione e soprattutto ha bisogno di molta onestà. Capita in molti casi di imbattersi in lavoratori che non sono all’altezza, che si arrangiano, cercando in alcuni casi di manipolare il cliente, di buttare fumo negli occhi, di far vedere quello che non c’è. Il lavoro è una conquista quotidiana e come tale va coltivato, protetto e promosso, evitando di farlo diventare una trappola per topi.
IL LAVORO DEVE PROMUOVERE
Il lavoro non è una condanna, ma l’unico modo vero per realizzare in pieno una personalità. Per questo ha bisogno di calore, di amore, di attenzione, di gente che lo sappia far conoscere, apprezzare, capire, ha bisogno soprattutto di essere l’espressione più ampia e genuina di gente che vuole essere parte di un grande progetto umano. I giovani hanno bisogno di lavorare, di mettere a frutto le loro aspirazioni, le loro idealità e la società deve accogliere, valorizzare, premiare, deve fare in modo che il lavoro sia una benedizione, lo strumento vero della formazione della persona e non una condanna. Per troppo tempo si è pensato al lavoro in una dimensione utilitaristica, legata a interessi, a priorità, a egoismi, per troppo tempo tutto si è mosso in una dimensione fortemente materialista, dove a una condanna se ne sostituiva un’altra altrettanto pesante. Si è pensato di risolvere i problemi del lavoro trasferendo il conflitto invece di risolverlo, si è pensato di più ai contendenti, ai loro scopi e ai loro fini, piuttosto di posizionarlo in una dimensione più umanamente forte, capace di diventare il vero collante di una società bisognosa di energia e di ingegno. In molti casi il lavoro è stato caricato di un conflitto che l’ha fatto diventare antipatico, cattivo, incapace di rispondere alle aspirazioni umane. Si è pensato al lavoro come a uno strumento, un mezzo per raggiungere scopi non sempre consequenziari, non si è cercato di lavorare sul futuro del lavoro, su come farlo diventare importante, non solo per il bene della tecnologia e del risultato, ma in particolare per la sua capacità di dare un valore alla persona, di metterla in condizioni di conoscersi meglio, di sentirsi utile, di guardare al futuro con soddisfazione e speranza. Invece di aprirlo lo si è rinchiuso, è diventato prigioniero delle banche, dei partiti, dei sindacati, ha assunto una configurazione conflittuale, ha creato lotte e presunzioni, invece di sviluppare unione, solidarietà e benessere e così è diventato un temibile avversario, il colpevole di tutte le povertà, la gente ha imparato a temerlo, a guardarlo con rabbia invece di assumerlo come guida di una rinascita, di una realizzazione umana ampia e solidale. Si è lavorato pochissimo sulla ricerca, si è andati avanti improvvisando invece di trovare le condizioni ideali per farlo crescere e prosperare, lo si è fatti diventare un urlo da piazza, una serie infinita di lotte e conflitti, di incomprensioni e di interessi, così hanno preso piede i modi sbagliati di lavorare, di guadagnare, di pensare al futuro di un paese. Si è dato più spazio alla dimensione privata del lavoro che a quella pubblica, quella in cui le idealità e le energie di ciascuno si fondono per dare spazio alla forza e alla bellezza di una società civile e di una nazione. Meno conflitti e più ricerca, più studio e meno violenza, il lavoro ha bisogno di sentirsi amato e stimato, ha bisogno soprattutto di gente che lo consideri il vero perno di una società che vuole crescere, dimostrando di essere all’altezza della situazione.
I GIOVANI E IL LAVORO
Una società si qualifica per la sua capacità di sapersi proiettare nel futuro, per saper guardare avanti e capire a chi spetta il compito di continuare una tradizione che nasce da lontano, quando le difficoltà si chiamavano guerra, povertà malattie, difficoltà economiche di ogni tipo. A chi spetta questo compito? Penso che nessuno possa mettere in dubbio che il testimone vada di diritto ai giovani, a quei giovani che molto spesso non sanno dove sbattere la testa e che sono costretti dalle circostanze a fare la valigia sperando di realizzare i loro sogni altrove, dove la democrazia è più sciolta, libera da lacci e lacciuoli che ne impediscono la piena apertura e realizzazione. Se ne vanno perché qualcuno dotato di un’intelligenza superiore ha pensato bene che bisognava andare in pensione molto tardi, oltre i sessant’anni e magari anche oltre i settanta, perché la vita si è allungata, perché le medicine tengono in piedi, perché la vecchiaia è bella anche al lavoro. In un paese dove i giovani non trovano lavoro lo stato ha pensato bene di immobilizzare le persone fino a vecchiaia inoltrata, togliendo la possibilità ai giovani di entrare a pieno titolo nella storia. Ci si domanda come faccia un paese a rinnovarsi se non parte dai giovani, da quella forza lavoro che ha energia, coraggio, fantasia e creatività da buttare sul mercato per rendere concorrenziale un paese che è accasciato privo di sensi. Non si riesce a capire come mai chi ha responsabilità governative non riesca a comprendere che molti dei mali che affliggono il mondo giovanile e la società in generale dipenda dalla mancanza di lavoro, di impegno fisico e mentale, sembra infatti che i giovani siano diventati l’altra parte del mondo, quella che non c’è, quella che va bene da buttare in pasto alla malavita organizzata, all’ozio, alla solitudine e alla negligenza. Abbiamo un patrimonio e non lo valorizziamo, abbiamo un patrimonio e lo lasciamo scappare, abbiamo un patrimonio e lo lasciano tra le maglie di chi ha tutto l’interesse a sfruttarlo e a tenerlo in naftalina, salvo sottolinearne le iniquità e le inadempienze alla prima occasione. Il lavoro va fatto amare, bisogna insegnarlo, scioglierlo dalla burocrazia, salvarlo da eccessi di pragmatismi inutili, bisogna consentire ai giovani di provarlo e di viverlo senza l’ansia di stare sotto il giogo di tasse e sovrattasse, bisogna valorizzare, premiare, sollecitare, dare il via libera all’intelligenza e alle sue varie forme di realizzazione. La burocrazia è oggi la maggior fonte di malessere e di corruzione, è il modo migliore per legare le persone, per impedire di essere se stesse, di far leva sull’entusiasmo e sulla passione per far rinascere un futuro. Il mondo è ancora troppo pieno di prigioni, di muri, di incomprensioni e bisogna dare atto a papa Francesco di essere l’unico o tra i pochi che si batte perché la vita si riprenda quella dignità di cui ha un estremo bisogno per risorgere. E allora diamo il via a una nuova stagione dei diritti, dove il futuro abbia un nome e dove l’uomo riacquisti la consapevolezza di essere veramente amato e rispettato per quello che è e per quello che vale.
IL LAVORO E’ VITA
Immaginare di vivere nell’eden, in una condizione di assoluta passività morale, materiale, intellettuale e sociale sarebbe pazzesco, sarebbe come rinunciare a incontrare l’esistente, quello che si lega ai rapporti umani, alla vita di relazione, sarebbe come rinunciare all’intelligenza. Certo saper usare l’intelligenza non è facile, non tanto nella sua dimensione tecnica o scientifica, quanto in quella umana, là dove si richiedono doti molto particolari, come l’amore, la stima, l’altruismo, il dialogo, il confronto, la capacità di dare un senso compiuto alle cose che si realizzano. Ecco che arriva il lavoro, non come una maledizione come qualcuno ha cercato di far credere, ma come fonte di approvvigionamento di una felicità altrimenti impossibile. Certo far fatica non piace a tutti, ma se la fatica porta a dei risultati positivi, ecco che diventa benemerita. Lavoro uguale fatica dunque? E’ difficile raggiungere un traguardo se non con un impegno sistemico e costante, che comporta anche qualche goccia di sudore sulla fronte. Immaginiamo come sarebbe stata la nostra società civile senza il lavoro, senza quell’impegno personale che spesso diventa collettivo e che dà un senso quotidiano alla nostra vita e a quella della comunità in cui viviamo. La nostra comunità umana si fonda su una rete di impegni individuali e collettivi che creano una incommensurabile fonte di guadagno e di realizzazione e in cui tutti possono trovare una intelligente modalità di inserimento. Non è sempre facile, bisogna infatti mettere in campo qualità, risorse e talenti che dovrebbero facilitarne l’approccio. Nel rispetto delle qualità morali e intellettuali di chi lo gestisce, il lavoro prende forma, diventa espressione viva di una personalità attenta alla conoscenza di sé e pronta a offrire un contributo di valore alla società umana in cui è inserito. Nel lavoro, anche in quello all’apparenza meno coinvolgente, c’è una meravigliosa dose di associazionismo, di mistero creativo, di fascino attitudinale, di dilatazione amorosa che coinvolge anche le parti affettive che contano, come le emozioni, i sentimenti, le sensibilità e quelle volontà che pur sembrando lontane, all’improvviso, grazie al lavoro si rivelano e si dilatano nella loro autenticità. Lavorare è un miracolo, è scoprirsi poco per volta, strada facendo, passando attraverso percorsi non sempre preordinati o precostituiti, che rappresentano la chiave di volta della felicità. Lavorare significa impegnare il corpo e la mente in un viaggio attraverso la condizione umana, di cui si scoprono strada facendo quei tesori che diventano terreno conquista. Non c’è lavoro che non sia espressione di una vocazione, di una tensione, di una capacità di saper scoprire ciò che la natura umana riserva. Non esiste un lavoro giustizialista, esiste un lavoro rigenerante, liberatorio, che introduce all’energia vitale del mondo in cui si ha l’onore di vivere, amare e operare. Se il lavoro reprime è perché non viene fatto conoscere abbastanza, non se ne ha coscienza, viene presentato come una colpa da espiare, una condizione di servilismo sociale, in cui predominano scadenze di ordine materiale. Molto spesso manca una cultura del lavoro che sappia individuare e stimolare la vocazione di un carattere, aprendo le porte alla valorizzazione, alla conferma che nulla avviene per caso e che ogni impegno vale una conquista, come risposta a quell’intelligenza dinamica che ci coinvolge e ci proietta verso forme cognitive sempre più ampie e profonde. Il lavoro ha anche un valore pecuniario, a seconda di come lo si realizza e lo si promuove. Non è qualcosa di statico, di inamovibile, di maledettamente coercitivo, se lo si sa apprezzare e vivere diventa la fonte di cambiamenti straordinari, di realizzazioni impensate, è una sorta di bacchetta magica con la quale si può dare un significato vero e profondo alla nostra vita. Credo sia sbagliato distinguere i lavori in buoni e cattivi, usuranti e non, il lavoro richiede attitudine, comprensione, attenzione, volontà, determinazione, resta pur sempre l’unica vera via di una redenzione e di una riconciliazione con la propria voglia di fare, progettare, realizzare. Dunque il lavoro va prima di tutto amato anche quando parrebbe inadeguato e indisponente, non adatto alle nostre aspettative. E’ difficile trovarne uno che sia tagliato perfettamente per noi, chi lo ha provato sa che prima di arrivare a qualcosa di buono bisogna lottare, pazientare, rinunciare, provare e riprovare, non basta mettersi seduti ad aspettare. Troppe volte assistiamo a varie forme di attendismo fatalistico, di persone che aspettano di essere baciate dalla fortuna. Nella maggior parte dei casi la fortuna bisogna crearsela. Le persone che ce la fanno ci hanno creduto, non hanno lasciato nulla al destino, ma hanno fatto di tutto per conquistarlo. A volte il lavoro arriva servito su un piatto d’argento, a volte si fa desiderare come una bella donna, a volte sembra non arrivare mai, creando spazi di frustrazioni e depressioni, in certi casi si fa persino odiare per la violenza con cui viene fatto conoscere. Manca spesso un approccio positivo al lavoro, qualcosa che lo renda espressione di una cultura personale e sociale di grande spessore etico e morale. E’ prassi comune che il lavoro abbia una fondamentale funzione morale, chi non lo trova lo sa molto bene, vivere aspettando è una delle condizioni più avvilenti, è come se il mondo si fosse dimenticato di noi, della nostra dignità, della nostra vita, della nostra vocazione naturale alla partecipazione, può così diventare fonte di molte malattie sociali. Chi non lavora vive nella povertà e nella solitudine morale, materiale e sociale, non ha possibilità alcuna di realizzare ciò per cui è stato creato. Chi parla di famiglia oggi senza pensare o lavorare per aiutarla a trovare la sua fonte di approvvigionamento materiale, non conosce a fondo i diritti e i doveri del genere umano, si comporta con disprezzo di quei valori che danno un senso positivo alla realizzazione di una armonica vita di relazione. Eppure basterebbe poco, basterebbe forse uscire di casa e guardarsi attorno, magari negli angoli più nascosti, dove la povertà si trincera dietro varie forme di pudore, dove la disuguaglianza è sfrontata e dove anche chi dovrebbe risolvere è assente, perché troppo impegnato a inseguire il proprio egoismo. Partire dai lavori più piccoli per arrivare a quelli più grandi, togliere tasse e balzelli inutili, alleggerire il mondo del lavoro, eliminare la burocrazia con tutte le sue trappole e le sue iniquità, aprire le porte a chi ha buona volontà e voglia di fare, di essere creativo, di voler dimostrare la propria intelligenza, guardarsi attorno e ricominciare con una cultura del lavoro più forte, più aperta, meno padronizzata e sindacalizzata. Insegnare la cultura del lavoro a scuola, insegnare cose pratiche, creare scuole attrezzate con laboratori annessi e con personale specializzato capace di trasmettere le nozioni della sopravvivenza, favorire l’apprendimento in tutte le sue forme, avvicinare la scuola al mondo della lavoro e non solo, trasformandola in un grande laboratorio, dove l’umanesimo e la letteratura aiutano l’essere umano a migliorare la conoscenza di sé e quella del mondo che lo circonda. C’è un concetto fondamentale che è alla base di tutto, s’impara amando, trasmettendo entusiasmo, passione, arricchendo il prossimo di nuove speranze, risvegliando il cuore e la mente sulle cose belle che occorre fare. Fino a quando il lavoro rimarrà nelle mani di chi lo utilizza come strumento per le proprie ambizioni personali, politiche o imprenditoriali, sarà sempre portatore di conflitti e di disuguaglianze sociali. C’è un grande bisogno di chi lo faccia apprezzare, di chi gli restituisca il suo significato profondo, la sua straordinaria funzione costruttiva e innovativa, non dimenticando mai che il lavoratore è prima di tutto un essere umano e che, come tale, è degno di essere amato e apprezzato a qualunque ordine sociale appartenga. Un lavoro senza umanità diventa servitù, condizione servile, coercizione, reprime e annulla, privando l’uomo della sua identità naturale, del suo essere cuore e anima, corpo e spirito, parte integrante di quell’intelligenza divina da cui ha ricevuto in dono le opportunità per incontrare una seppur piccola porzione di paradiso. Dunque prima del lavoro deve cambiare la mentalità di chi lo amministra. Non è più il tempo delle lotte di classe, del buono e del cattivo, del bello e del brutto, è forse quello di insegnare all’essere umano che la sua umanità non è merce di scambio, ma dono prezioso e fondamentale, senza la presenza del quale tutto il resto diventa alienazione, robotizzazione, povertà e solitudine esistenziale.
IL LAVORO HA ANCORA UN’ETICA?
Capita sempre più spesso di imbattersi in lavoratori che mancano delle più elementari nozioni di base dell’etica, lavorano con l’idea che il cliente sia un nemico da abbattere con la furbizia. E’ una condizione ignobile che, purtroppo, si verifica di frequente e alla quale risulta difficile opporsi con il buon senso, con la capacità persuasiva della logica. Ci sono momenti in cui ti senti tradito. Ti rendi conto che quel sorriso e quelle parole di circostanza racchiudono la parte peggiore dell’essere umano, quella che non si ferma neppure davanti alla fiducia, alla benevolenza, al desiderio di vivere nel rispetto reciproco, con una voglia immensa di collaborare, di dare vita all’umanità e di trasmetterla. Quante volte abbiamo riposto tutta la nostra fiducia in un artigiano o in un professionista o in una persona, quante volte ci siamo lasciati accompagnare da un sorriso e dalla forza persuasiva delle parole, pensando di aver risolto una volta per tutte i nostri problemi e quante volte invece siamo diventati oggetto di una maledetta furbizia all’italiana che ci ha fregato, fregati in molti casi proprio da chi ci aveva promesso lealtà, professionalità, impegno e moderazione. Quante volte abbiamo agito con tutta la nostra onestà e siamo stati travolti dalla malafede. L’iniquità c’è sempre stata, così come la furbizia, quella avvelenata, ma oggi il caso è diventato norma, il gioco si è fatto tiranno e la tirannia consuma gli ultimi valori rimasti, quelli che dovrebbero rilanciare un paese in crisi, vittima in molti casi della sua stessa protervia e della sua disonestà. Forse il mondo del lavoro è in crisi proprio nella sua parte più bella e anche più fragile, quella che dovrebbe suggellare un patto di onestà con il mondo che lo circonda, mentre in realtà alimenta il disagio, il gelo, la cattiveria, l’antagonismo, la rabbia. E’ diventato difficile, se non impossibile, credere, avere fiducia, pensare che quel mondo possa essere anche diverso da come lo abbiamo conosciuto in circostanze difficili, è molto complicato infatti allacciare rapporti di lavoro, stabilire patti, tutto corre sull’onda di un’ambiguità, di promesse non mantenute, di errori voluti e mai ripagati, di un’assoluta mancanza di correttezza e di onestà. Eppure il lavoro dovrebbe essere il punto di forza di una società che unisce, che collabora, che rispetta le consegne, che dà il massimo di se stessa per il bene comune, per dimostrare che i valori sono la base su cui poter costruire una democrazia vera, leale, onesta, al di sopra delle bassezze umane. Ci sono momenti in cui ti rendi perfettamente conto che il lavoro va prima di tutto insegnato, accolto, amato, vissuto con tutta l’anima, capendone il valore storico e morale. Tra i tanti fini del lavoro c’è anche quello di un benessere individuale e collettivo, ma c’è soprattutto la capacità di saper dimostrare che non basta promettere e fare, ma fare bene, con coscienza, con onestà, rispettando il prossimo, non tradendo le aspettative di chi crede ancora nel valore della democrazia, delle sue norme, delle sue regole, delle sue leggi, della sua capacità di trasformare l’uomo e di renderlo capace di dare voce alla straordinaria bellezza che porta nel cuore.
IL LAVORO CAMBIA IN MEGLIO LA VITA DELL’UOMO
Il lavoro non è una condanna, ma un impegno che cambia in meglio la vita dell’uomo. Se chi lo ha creato nel corso della storia ne avesse capito fino in fondo l’importanza, forse non saremmo arrivati alle reazioni di piazza, alle lotte sindacali, alle rivolte contro il potere, gli uomini ne avrebbero capito il significato più vero e profondo e lo avrebbero accolto come una benedizione. Il problema è che non basta scrivere belle parole e belle frasi, spennellare la Costituzione di articoli bellissimi, abbandonarsi a lunghi e convincenti monologhi scolastici, sono le persone con il loro esempio che devono testimoniare il valore di ciò che è stato scritto con dovizia di particolari. E’ vero che la storia è maestra di vita, ma ha bisogno di conferme quotidiane, di valori che si aggiungano a valori, di testimonianze che rendano effettivo ciò che spesso rimane costretto in un’idea o in un teorema o in una volontà. Il lavoro realizza, completa, permette alle persone di capire qualcosa di più di sé, della propria identità, di poter esprimere la propria personalità. Il lavoro è libertà cosciente, consapevolezza interiore, esplorazione e gratificazione. Chi lo ama lo promuove, lo valorizza, lo fa vivere, lo rende autentico, ne favorisce l’autonomia, l’indipendenza, lo rende gradevole e appassionante anche quando chi lo esercita e lo promuove non è uno scienziato, ma un semplice cittadino. Ogni lavoro ha una sua precisa identità, una sua importantissima ricaduta sociale, consente di fare un passo avanti senza il timore di guardare al futuro con terrore o sospetto. Quanta psicologia c’è nel lavoro, nella sua capacità di trasformare la vita delle persone, di creare relazioni, stabilità, equilibri, rapporti interpersonali rispettosi e collaborativi, il problema è che non sempre la fonte dalla quale zampilla è cristallina, trasparente, capace di educare e di informare, di incoraggiare e di gratificare, di dare una pacca sulla spalla dicendo anche solo: “Coraggio!”. Il lavoratore non è un automa e neppure un sottomesso, ma una persona che presta un servizio in cambio di un salario che gli serve non per sopravvivere, ma per vivere dignitosamente. Ci sono persone che hanno lavorato per ben oltre trent’anni, con passione, impegno e buona volontà e che non hanno mai ricevuto neppure un semplicissimo grazie, quel grazie che avrebbe contribuito a creare gioia, riconoscenza. Gli esseri umani non sono dei robot, hanno un’anima, la facoltà di pensare, di riflettere, di voler bene, di amare, certo è che le facoltà vanno stimolate, valorizzate, fatte conoscere, consolidate e potenziate. In che modo? Trattando gli esseri umani con rispetto, perché dentro quella presenza c’è la sostanza del mondo, quel mondo di cui siamo tutti una piccolissima ma importantissima parte. Le grandi rivoluzioni della storia sono sempre state determinate da varie forme di stupidità umana: odi, rancori, interessi, sopraffazioni, ambizioni, l’uomo ha sempre cercato di sottomettere l’altro, trasformandolo, in molti casi, in un asservito al potere dominante. Ogni volta che vediamo uomini e donne senza fissa dimora, senza un lavoro stabile, uomini e donne che attraversano i mari per cercare condizioni di vita accettabili significa che chi avrebbe dovuto provvedere non ha provveduto. Alla base dei grandi problemi dell’umanità ci sono sempre radicali inadempienze, responsabilità mai assunte, ricchezze mai distribuite, volontà non rispettate. Non considerare l’essere umano, trattarlo come fosse un servo, usarlo e poi abbandonarlo sono comportamenti vili, privi di qualsiasi forma di rispetto. Il lavoro era e resta un’ immensa opportunità di vita, ma come tale va coltivato, stimolato, insegnato, fatto vivere e fatto amare. Chi usa il prestatore d’opera come oggetto di consumo non rispetta la condizione umana, non gli consegna quell’ identità che è patrimonio universale di ogni essere vivente. Oltre ai diritti nazionali esistono infatti diritti e doveri di natura universale, che riguardano tutti e di cui l’autorevolezza umana deve tener in debito conto ogniqualvolta fa il proprio esame di coscienza. Forse sta finendo l’epoca delle colonizzazioni selvagge, delle arroganze razziali, delle irrispettose utopie che hanno massacrato la storia, forse sta iniziando un periodo in cui i confini non sono prigioni, ma ragioni di ordine storico e morale da cui partire per arricchire la storia di un mondo sempre troppo piccolo per crescere e maturare. Il lavoro, anche nella sua forma di pura e semplice gratuità, ha bisogno di gratificazioni morali, di dimostrare che il bene era e resta un valore ampiamente apprezzato.
RITROVARE IL LAVORO E LA FATICA
Uno dei grandi temi della vita umana, se non il più grande, è il lavoro. Se in un passato ormai lontano veniva considerato quasi una condanna, l’uomo ha imparato a viverlo e ad amarlo, ad apprezzarne gl’infiniti significati. Nel lavoro c’è la fatica intesa come impegno e abnegazione, prassi capita e voluta, accolta e stimata nella sua sostanza etica e morale. La fatica oppone spesso rifiuti per un istinto primordiale, il corpo e la mente non amano infatti sottomettersi a sforzi che ne definiscano i limiti, preferiscono la poltrona o la scrivania, ma con il passare del tempo imparano che il valore di una conquista è incommensurabile e che tutto concorre a rafforzare una consapevolezza. La fatica del lavoro, se ben inquadrata, diventa la chiave di volta di un’idea che finalmente prende corpo. Rifiutare la fatica reprime, per questo bisogna spiegarne e insegnarne il significato, la forza che sprigiona e le conquiste che sa generare. Per capire il significato della fatica bisognerebbe aver conosciuto e vissuto anche indirettamente la civiltà contadina, quella in cui non esistevano orari e dove la maggior parte della fatica stessa era affidata alle braccia. Erano tempi in cui tra l’uomo e l’animale la distanza era minima, spesso la fatica dell’uno era di supporto a quella dell’altro, il tempo era dominato dalle bizze di una natura che concedeva e sottraeva, alimentava e sminuiva, per dimostrare che nello spirito che muove il mondo ciascuno mantiene viva la propria identità primaria. La fatica è il prezzo che paghiamo per trovare l’ equilibrio. E’ così che i nostri genitori ci hanno insegnato l’educazione, facendoci capire che nulla arriva per caso, che tutto ha un prezzo da pagare non come una condanna, ma come passaggio per salire un gradino più in alto. La fatica è un bene sulla tavola di tutti, anche di coloro che sembrano toccati da un’elitaria predestinazione. Non fa distinzioni, chiede impegno unanime, non fa promesse, dimostra sul campo che quella dell’impegno è la via più sicura per camminare senza il pericolo di incespicare e di cadere. Su alcune persone la fatica ha effetti laceranti, su altre funge da esplosivo, genera, produce, indirizza, scuote, aiuta a trovare la parte migliore, è un rassicurante regolatore di pressione. C’è chi si piega alla fatica al punto di diventarne schiavo, non riuscendo più a capire quale sia la strada. In molti casi diventa divinità a cui immolare tutto, anche la libertà. Trovare un equilibrio non è facile, soprattutto quando l’amore diventa sudditanza e il rapporto incapace di generare scoperta, creatività, bellezza, sorpresa e interesse. Il lavoro non è egoismo, ma convinzione di utilità, capacità di capire che ogni azione o pensiero ha vocazioni diverse, ma convergenti: crescere e far crescere. Spesso si è portati a pensare che solo gli adulti debbano lavorare, escludendo quella parte che attende segnali positivi per cominciare a crescere, dimostrando che ognuno deve fare la propria parte, in relazione all’età, alla condizione e alla predisposizione umana e caratteriale. Insegnare ai giovani l’arte del lavoro, magari passando attraverso il gioco, può essere una delle vie per rimettere in campo tutte le forze, per creare armonia, unione, convergenza. Il capitale umano va coltivato, amato e protetto, per questo bisogna aprire uno spazio ancora più ampio all’educazione, alla famiglia, alla scuola, bisogna investire sulla formazione e su tutto ciò che migliora il livello culturale, umano e sociale delle persone, soprattutto il lavoro. C’è stato un tempo in cui il lavoro veniva denigrato, vilipeso, disprezzato, ma la colpa era di chi lo sfruttava per sottomettere la condizione umana, impedendole di essere democraticamente partecipativa, attrice di una storia che la metteva in primo piano togliendole la libertà necessaria. Il lavoro è il segreto di una rinascita, ma richiede attenzione, consapevolezza, impegno e soprattutto va insegnato, va fatto amare, riattivandolo nella sua sostanza etica. Si lavora non solo per un motivo di ordine economico, la forza e la bellezza del lavoro sta anche nella convinzione morale di chi lo insegna e di chi lo esercita. C’è chi lo scopre strada facendo, magari in modo del tutto autonomo, ma abbisogna sempre di qualcuno che ne porti allo scoperto la parte meno visibile, quella che definisce la natura sociale e migliorativa del lavoro, la sua funzione ausiliaria e definitoria, la sua capacità di rigenerare e ricostruire, di aprire la cassaforte di una natura umana che troppo spesso viene lasciata in balìa di una solitudine che non aiuta. Si è sempre detto troppo poco sulla natura provvidenziale del lavoro, sulla sua capacità di rialzare, di rifondere, di rimettere in gioco gli affetti e le volontà. Il lavoro è dunque anche fatica, ma soprattutto acquisizione di consapevolezza, di autorità, di esercizio di professionalità e di garanzia, è l’antidoto a ogni forma di disagio sociale, è straordinario nella rinascita della natura umana, soprattutto quando si trova incastrata nelle diatribe del mondo. Di lavoro si parla troppo poco, c’è troppa poco disponibilità a sollecitarlo, a insegnarlo, a farlo decollare, spesso manca la volontà per farlo emergere, per consentirgli di vivere libero dagl’incastri e dai vincoli di una società che tende a confinarlo in uno stato di profonda depressione umana e morale, sempre più spesso preda di una assillante precarietà. Insegnare a far fatica è l’unica via possibile per consentire a ciascuno di iniziare a scoprire qualcosa di più di se stesso e delle responsabilità che lo attendono. Una società è autenticamente democratica quando sa valorizzare il lavoro e la sua fatica, quando lo propone e lo sollecita, avendone ben chiari gli effetti rigenerativi.
IL LAVORO NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO
Nell’immaginario collettivo il lavoro è quasi sempre visto come un corpo estraneo, qualcosa di ingeneroso e impietoso da dover adottare per sopravvivere. In passato succedeva che diventasse una sorta di incentivo necessario per diventare uomini e donne maturi, pronti ad affrontare con una certa sicurezza i guai e le gioie della vita. Ci si arrivava dopo la scuola primaria, secondaria, dopo gli istituti tecnici, magistrali e il liceo, dopo l’università. Certo sono pochissime le persone che parlano con benevolenza del lavoro nella sua dimensione etica, morale, sociale, umana, culturale. In passato capitava spesso che lo presentassero come un regolatore di conti che avrebbe messo fine ai capricci, alle sfrontatezze, ai vizi e a tante altre cose negative, come ad esempio perdere tempo inutilmente. C’è stato poi un momento in cui, a seconda delle ideologie politiche, diventava passionario, incendiario, rivoluzionario, paritario, costituzionalista, democratico, tirannico. Erano davvero in pochi a sostenerlo nei suoi aspetti migliori, quelli legati all’intelligenza, alla fantasia, all’immaginazione, all’organizzazione, al lavoro come maturazione intellettuale e sociale dell’individuo. C’è stato persino chi, sul lavoro, ha costruito la propria filosofia personale, sostenendo che gli uni avrebbero disarcionato gli altri e avrebbero così instaurato la pax sociale, la tanto sospirata parità, quella cosa che mette tutti sullo stesso piano di fronte alla legge, come se la cultura e le capacità individuali non fossero ghiotte occasioni per dimostrare che la forza di un lavoratore non dipende tanto dalla sottomissione o dalla costrizione, ma dalla sua capacità di saper interagire con se stesso e con la realtà nella quale vive. Il lavoro è la massima espressione della condizione umana, è l’energia con cui le persone si attivano, la capacità di essere sintoniche e coordinate, di dimostrare quanto sia bello e importante portare in luce quelle risorse che madre natura ha voluto donare perché diventassero un insieme proficuo sotto ogni punto di vista. Nel lavoro si esprime la vera ricchezza, la capacità di essere dentro la storia, portando quel contributo che rende unici e irripetibili. Dunque il lavoro va fatto conoscere e amare, mai disprezzare. Va insegnato, costruito, realizzato con passione e con entusiasmo, stimolato, avviato, condotto, consolidato e potenziato. Nel lavoro, anche in quello più semplice e naturale del mondo, ci siamo noi con la nostra personalità, il nostro modo di essere, la nostra aspirazione, le nostre capacità. Amare il lavoro significa farlo bene, mettendoci tutta la buona volontà e la determinazione di cui siamo capaci. Nel lavoro bisogna crederci, perché è l’unica vera occasione che abbiamo per vivere con dignità la nostra esistenza, quello spazio identitario che abbiamo ricevuto in dono e che dobbiamo cercare di rafforzare. Quando ascoltando la televisione o la radio o leggendo un giornale ci imbattiamo nei guai del mondo del lavoro proviamo una profonda tristezza, perché dentro quei guai apparentemente individuali o di gruppo c’è l’anima di una comunità che crede fermamente nel lavoro, che desidera confermare la propria presenza e la propria autenticità. E’ difficile troncare con quella voglia di essere e di fare che moltiplica le risorse, che rende più autorevole e piena l’esistenza, è davvero triste spegnere la voglia di creare e di fare che anima la vita, è davvero incredibile come una società che si dichiari apertamente democratica non sappia o non voglia promuovere la felicità attraverso il lavoro. Amare il lavoro è amare il lavoratore, fare in modo che la sua coscienza sia piena, consapevole, convinta, che si senta amata e invogliata. Il lavoratore è prima di tutto persona e come tale ha bisogno di sentire che la società civile gli stia vicino e lo sostenga nella buona e nella cattiva sorte. Chi pensa di prolungare l’età pensionabile, senza valutare la condizione umana, morale, mentale, sociale e materiale del lavoratore compie un grossolano errore. Lavorare più a lungo si può, ma valorizzando al massimo l’esperienza del lavoratore. Se il mondo del lavoro fosse davvero un mondo aperto alla crescita individuale e collettiva sarebbe un ottimo compagno di viaggio sempre, anche nei momenti difficili della vita. C’è un altro problema fondamentale nella vita di un lavoratore: il merito. Si lavora non solo per una ragione di carattere esistenziale o istituzionale, ma anche per essere gratificati nella realizzazione del bene individuale e di quello della comunità in cui si è inseriti. Il lavoro è sempre stato, nella sua massima accezione costituzionale, un toccasana per la salute fisica e mentale, per questo va garantito, protetto, conservato e promosso sempre. Grazie al lavoro si stabilisce un complesso e articolato sistema di relazioni con la vita, aprendo le porte a quei sentimenti e a quelle emozioni che altrimenti rimarrebbero orfani. Lavorare è star bene con sè stessi e con il prossimo. Per tutte queste ragioni deve poter diventare strumento di crescita e non di frustrazione, come molto spesso è accaduto e continua ad accadere. La maggior parte dei lavoratori soffre il lavoro, lo vede e lo sente come una forzatura, un peso, come qualcosa che si deve fare, che stravolge la spontaneità, l’inventiva, la natura umana e i suoi slanci, è su questi punti che forse conviene fare una riflessione profonda, per cercare di umanizzarlo e di fare in modo che contribuisca alla rinascita di una società decadente, riconoscendone la valenza morale. C’è dunque un aspetto che deve essere valutato seriamente se si vuole che sia un grande momento di libertà, di valorizzazione personale e collettiva, la libertà del lavoratore, la sua voglia di sentirsi al centro e quindi protagonista della sua vita. Per questo la politica deve aprire nuove strade, dare nuove certezze, deve rafforzare l’aspetto etico del lavoro, evitando la mummificazione morale e salariale di chi crede nella sua missione abilitativa e riabilitativa.
IL LAVORO, UN MODO IMPORTANTE DI ESSERE NELLA STORIA
Il lavoro riempie la vita, la rasserena, la rassicura, le dà un senso, le permette di crescere sul piano umano, razionale, sentimentale, fisico e culturale, le fa capire quanto sia importante condurre fuori quelle energie che madre natura ci ha donato senza riserve, con la certezza che prima o poi le avremmo scovate, portate alla luce, ammirate, usate, conservate e migliorate. Non per nulla la nostra Costituzione, ampia, profonda e comprensiva, lo mette al primo posto e non solo, afferma con sicurezza che il lavoro è atto ufficiale di fondazione della nostra vita e della società che ci accoglie. Potrebbe sembrare una forzatura politica, in realtà è la convinzione morale di uomini e donne che hanno capito quale sia il terreno fertile su cui far crescere una società e uno stato convinti della loro investitura, della loro missione, di quale banchetto convenga approntare perché tutti, indistintamente, possano partecipare e dare il meglio di se stessi. Se il lavoro è il vero, unico, indivisibile collante di una comunità che vuole essere rispettosa delle proprie regole, non solo sul piano delle promesse scritte, ma anche nell’azione quotidiana, bisogna che possa contare sempre sulla collaborazione di chi lo ama. Dunque il lavoro è il punto di partenza, la cinghia di trasmissione di una comunità che ricerca la coesione, la collaborazione, che vuole dare un senso compiuto alla propria presenza, allontanando in tal modo ogni tormento eversivo, ogni tentativo di convertire la libertà in schiavitù morale e sociale. Ma proprio per questo, il lavoro ha bisogno di incontrare comprensione, amabilità e fermezza, deve potersi esprimere in tutta la sua legale e giustificata ampiezza, senza cadere nella retorica di una macchina politica che lo manipoli al punto di farlo diventare meta prediletta di un egoismo di fondo. Il lavoro è il volano di una società matura, che sa posizionare il fine e lo scopo del suo pensiero e della sua azione, di cosa occorra fare per offrire dignità, perché la mente dell’uomo possa coltivare un’adeguata pedagogia del diritto. Il lavoro ha cambiato l’assetto sociale, ha rinvigorito lo spirito democratico, ha creato le basi di una sicurezza sociale ampia e convinta, ha aperto le porte a un sistema di relazioni sociali di natura più democratica, ha gettato le basi per una crescita della nostra popolazione, permettendole di diventare sempre più consapevole e di cambiare in meglio le cose. Per garantire la forza innovativa del lavoro però, lo si è dovuto difendere da chi cercava di sfruttarlo, di addomesticarlo per farlo diventare strumento di ricchezza personale e di sfruttamento delle classi povere, quelle che ancora oggi ne soffrono la mancanza, perché chi avrebbe dovuto avere il dovere/diritto di costruirlo e realizzarlo, ha pensato troppo a se stesso, lasciando cadere nel nulla la forza della persuasività democratica del lavoro stesso, la sua capacità di cambiare in meglio non solo lo spirito di una popolazione, ma anche la sua dotazione identitaria, in particolare la dignità. In troppe occasioni, infatti, il lavoro non ha ricevuto quell’attenzione che gli avrebbe consentito di andare oltre, di prepararsi per tempo, di vedere più chiaro, di convincersi di esser veramente l’anello di congiunzione necessario, il punto di partenza e quello di arrivo, la possibilità, forse l’unica, di dare un senso compiuto all’esistenza. Lo si è trattato come se fosse un nemico, un avversario da tenere sotto controllo, elemento disgregativo, socialmente pericoloso, lo si è marginalizzato in ambiti più di natura classista, a tratti persino razzista e spesso si è trovato a essere protagonista di filosofie che lo hanno categorizzato, incasellato, inquadrato, impedendogli di godere di quell’ampiezza che gli avrebbe consentito di poter sviluppare la sua articolata e stimolante natura elaborativa. Invece di spronarlo verso nuove mete e nuovi orizzonti lo si è tenuto al guinzaglio, si è cercato di padroneggiarlo, di sottometterlo, di non lasciargli compiere quella necessaria maturazione democratica che avrebbe mutato in meglio la consapevolezza culturale e sociale di una popolazione troppo vincolata a regole e leggi create più per una sorta di paura ancestrale, invece di essere risposta ferma a una società da rivedere, da rilanciare, da indirizzare verso una visione meno personalizzata e più comunitaria. Nella nostra tradizione politica ha sempre prevalso la contrazione partitica. Abbiamo sostanzialmente imprigionato la dignità del lavoro, l’abbiamo fissata nelle nostre regole, non volendo neppure immaginare che fosse figlio del tempo, di mutate condizioni sociali e culturali, di rimescolamenti razziali, di incroci interreligiosi, di spinte sociali diverse da quelle che ritenevamo irripetibili e irrinunciabili. Così il lavoro invece di progredire, di animarsi di nuova creatività e di nuove consapevolezze, si è lasciato imbrigliare dal complesso bancario, dall’idea che la banca e i soldi fossero l’unica possibilità che gli venisse riconosciuta per farsi amare, apprezzare e valere. Tutto si è piegato a una fissità sociale, a visioni di natura conflittuale, a personalismi, all’idea che non ci potesse essere nulla oltre la forza e la strategia del prestito bancario. Il mondo del lavoro ha perso per strada la sua autorevolezza, la sua forza, la sua capacità di far sognare, di incoraggiare, di dimostrare sul campo che l’uomo è il vero motore trainante di tutto. Invece di potenziare i livelli di umanità, di definire meglio i rapporti tra salariati e imprenditori, di rafforzare l’autorità culturale e morale della prassi lavorativa, si è cercato di puntare sull’aspetto monetario, dividendo il mondo in ricchezza e povertà e relegando tutto a un contratto di natura prettamente materialista. Il lavoro parte innanzitutto da una condizione umana, in cui confluiscono materia e spirito, dedizione e consapevolezza, autorità e serietà, volontà e libertà, consapevolezza e senso di responsabilità. Al lavoro ci si prepara, non basta essere esecutori aggiunti, bisogna diventarne protagonisti, essere cioè attenti a quello che si fa e a come lo si fa, al perché lo si fa, bisogna dare un senso, trovare significati, stabilire un orizzonte entro il quale definire la nostra vita. Chi è stato per molto tempo nel mondo del lavoro ne conosce gli aspetti positivi e quelli negativi, sa che non basta avere delle garanzie; le garanzie vanno verificate ogni giorno, ogni ora, con grande passione e buona volontà. In molti casi gli esseri umani non sanno approcciarsi al lavoro, non lo sanno cogliere, lo vivono come un espediente, come strumento di guadagno e di consumo, perché non sono stati abituati a pensare e a vivere con autorità e prestigio la loro condizione, non hanno incontrato sulla propria strada chi aprisse loro gli occhi, chi fornisse un’indicazione più vera, più seria, più umanamente onesta. Il mondo del lavoro deve valorizzare, deve dare spazio a chi è bravo, a chi si impegna, a chi fa le cose con coscienza senza rubare, sfruttare, violentare, depredare, l’onestà deve essere una costante e lo spirito deve puntare sempre sull’autorevolezza del servizio, un servizio che va ben oltre il benessere personale. Il lavoro deve essere un autorevole strumento di crescita umana, culturale e sociale, va insegnato, coltivato, definito, fatto amare e apprezzare, evitando di ridurlo a un semplice spazio o a un ben definito tempo in cui la bellezza rimane imprigionata e non gode di quella libertà di cui ha bisogno per esprimersi e realizzarsi. Incoraggiare vuol dire dimostrare che c’è terreno per chi vuole lavorare bene, con determinazione, fantasia, creatività, per chi ha un animo aperto sulla vita e i suoi tesori. Nel lavoro c’è anche l’aspetto economico, che è pur tuttavia fondamentale, ma non basta se non viene supportato da un ordine di natura morale che ne sovrintende e ne armonizza le potenzialità e il servizio. Riaprire al merito è fondamentale, perché è la natura umana stessa che lo richiede. Chi lavora vuole essere apprezzato, vuole sentire una voce che riconosca privatamente o pubblicamente la sua identità. Bisogna dunque far amare il lavoro, evitando le defezioni, gli allontanamenti di persone che nel lavoro credono, ma che non trovano condizioni per poterlo dimostrare. Come diceva san Benedetto ogni uomo deve essere valorizzato per quello che è, riconoscendogli quelle capacità di cui madre natura l’ha dotato. La bellezza del lavoro non è solo un problema di quanto guadagno o di quale carica mi avranno riservato, ma cosa posso fare per dimostrare le mie capacità, la mia voglia di esserci, di saper rispondere in modo adeguato alle necessità di una comunità che sa guardare avanti riconoscendo i diritti e i doveri di tutti.
ORGANIZZARE IL LAVORO SIGNIFICA ORGANIZZARE LA VITA
Il lavoro è importante, ma non può essere totalizzante, deve imparare a convivere con l’aspirazione all’affettività degli esseri umani. Ci sono persone che al lavoro immolano entusiasmi, tempo, affetti, ritenendolo fonte primaria dell’armonia. In molti casi è una dedizione che non lascia spazio al tempo delle relazioni, che riduce gli slanci ad una forsennata rincorsa al benessere, alla ricchezza, al potere. Ci sono padri che non vedono quasi mai i propri figli, madri che tornano a casa stanche e frustrate, fratelli costretti al ruolo di genitori, nonni trattati come schiavi, vittime di un sistema che non ama abbastanza la famiglia, che la condiziona, le toglie le bellezze dell’amore. E’ in questa confusione di ruoli e aspirazioni che covano solitudini e depressioni, desideri insani che si legano alle amicizie sbagliate, a evasioni chimiche e fisiologiche. In questo clima di corsa inadeguata ai tempi lavorativi scivola via tutto il resto, soprattutto la consapevolezza che la vita è una e che proprio per questa merita un’attenzione tutta particolare, che si lega allo stupore e alla meraviglia, alla bellezza e alla ricerca, alla volontà e alla scoperta, alla conoscenza come umanissima forma di riappropriazione. Il lavoro deve lasciare il tempo della formazione, della conversazione, dello studio, del piacere, della fantasia e dell’emozione. Nei paesi dove la democrazia custodisce e promuove il valore della libertà la vita corre lasciando all’uomo il tempo dell’immanenza e quello della trascendenza, dell’impegno lavorativo quotidiano e quello della rigenerazione interiore. Lettura, sport, amicizia, socializzazione e arte, ritemprano il campo cognitivo, predispongono l’animo ad un rapporto solidale con se stessi e con il mondo. Dunque lavorare sì, ma con lo sguardo rivolto anche oltre, per non perdere di vista la natura umana nella sua elegante, unica e aristocratica bellezza. E’ in questa direzione che le parti in causa devono convergere i loro ruoli e le loro competenze, è sul piano della centralità dell’uomo che il sistema deve armonizzare le proprie energie, è nella ricerca di una compatibilità tra diritto e dovere, libertà personale e libertà sociale che si gioca la crescita umana e civile di una società democratica.
GUAI SE MANCA IL LAVORO
Vedere giovani bravi, capaci, pieni di iniziative, pronti a sorprendere con le loro idee, la loro creatività, il loro spirito di iniziativa è bellissimo, ci riempie di gioia, di entusiasmo, di fiducia nella vita, ma tutto questo decade quando questi stessi giovani vengono sottaciuti, lasciati in disparte a coltivare i propri sogni, quando quel mondo che li esalta scompare dietro varie forme di perbenismo, continuando sulla via di un egoismo estremo, spingendoli in tal modo a intraprendere la via dell’esilio o quella della frustrazione perpetua. Purtroppo è così. Era così allora ed è così adesso, nell’era in cui i giovani dovrebbero essere la punta di diamante di un radicale rinnovamento di costume. L’abbassarsi dei livelli di guardia, quelli che consentivano un’attenzione particolare sul mondo del lavoro e sulle sue problematiche ha creato una sorta di improvvisazione in cui chi ha la voce più grossa e più protetta trionfa, mentre chi vive la quotidianità è costretto a tirare la cinghia e a sperare che la sopravvivenza non si trasformi in catastrofe. In questi ultimi anni siamo passati da un mondo del lavoro superprotetto, campo di battaglia di partiti e sindacati, a un mondo del lavoro dominato dal superego dei leader, personaggi che dominano la scena con uno spirito oltranzista, che non guarda in faccia alle tradizioni, alle regole concertate e condivise, ma impone la sua filosofia della globalità, in cui si annullano i sani nazionalismi, quelli che hanno favorito la nascita e la diffusione di una straordinaria cultura del lavoro. La politica, soprattutto quella che ha tentato di costruire modelli compatibili, è quasi del tutto scomparsa, in molti casi al seguito delle rogne migratorie, persa in un tira e molla che non giova a nessuno, se non all’impoverimento progressivo del paese. Le politiche del lavoro sono sempre più spesso impennate occasionali, sussulti a singhiozzo di realtà decadenti, non hanno più la forza e la capacità di riportare garanzie e sicurezza in un mondo che è fondamentale per il nostro riscatto e la nostra rinascita. La politica è sempre meno politica e sempre più un interesse di parte fatto di sparate, urla, insulti, esacerbati antagonismi, non coglie più l’aspirazione popolare, quella che si muove nelle zone basse, dove i bisogni e le necessità sono fondamentali. Mancano progetti, manca una volontà comune, manca la serietà nell’affrontare i problemi, manca un contatto diretto con la realtà. I nostri giovani sono sempre più allo sbando, vivono di espedienti in un mondo del lavoro sempre meno protetto, sempre meno presente nelle varie fasi di un percorso che diventa fondamentale nella vita delle persone. Cadute varie forme di protezione e di promozione, caduta una sana filosofia delle condizioni lavorative, lasciate sempre più in balia di un comparto industriale privato poco attento alla vita culturale, morale, economica e sociale del lavoratore, ci stiamo avviando verso una china molto pericolosa, in cui ad attenderci c’è la multinazionale con le fauci spalancate, pronta a ingoiare gli ultimi ritagli di arte italiana. Guai se manca il lavoro, ma per rimetterlo in pista occorre ridargli fiducia, rianimarlo, offrendogli spazi di creatività, di sicurezza e di speranza. Urlare non serve, serve piuttosto accorgerci che abbiamo ottime capacità e che abbiamo bisogno di gente che le sappia raccogliere e valorizzare.
IL LAVORO RICHIEDE PROFESSIONALITA’ E IMPEGNO
Quando insegnavo capitava spesso di incontrare colleghi molto preparati sul piano della cultura personale, avevano infatti tutti i carismi necessari per trasformare l’insegnamento in uno straordinario laboratorio creativo, per stabilire una relazione stabile, per stimolare le doti di un carattere, di una personalità, avrebbero potuto fare la fortuna della classe, dei colleghi, dei presidi, dei genitori, di un paese. Spesso, però, mostravano difficoltà nel rapporto con la classe, la subivano, non riuscivano a creare relazioni sintoniche e molto spesso rimanevano schiacciati da varie forme di prevaricazione, senza riuscire a venirne a capo. Un dramma. Quando chi ti sta di fronte decide di voltarti le spalle, puoi fare qualsiasi cosa, ma in buona parte dei casi non la spunti, a meno che non trovi la via che, magari scavalcando la materia, conduca direttamente al cuore, passando attraverso il sottile gioco delle emozioni, dimostrando con gentile audacia e risoluta fermezza che la vita chiama tutti, nessuno escluso, ad assumersi delle precise responsabilità nell’interesse della comunità. Il miracolo succede quando la trasgressione si converte e, convertendosi, capisce l’inutilità di un atteggiamento o di un comportamento, si rende conto cioè che esistono modi molto diversi di esprimere un sentimento, una pulsione, una volontà e che agendo con duttilità e coraggio si possono raggiungere risultati insperati. Quando si parla o si discute di professionalità e di impegno si mette sul campo una infinità di doveri, di regole, di valori, di principi, ci si addentra in un labirinto complicatissimo, che rischia di destabilizzare un carattere non adatto a un certo tipo di lavoro, come quello dell’insegnante ad esempio, che richiede preparazione, umiltà, coraggio e molta determinazione. L’umiltà non è sottomissione, subalternità morale e spirituale, sociale o politica, esprime un legame profondo con la parte migliore dell’essere umano, quella che affonda le proprie radici nell’humus profondo, che sovrintende alle tentazioni di prevaricare o di trasgredire, quello che ci fa scoprire chi siamo, cos’è meglio fare, quali siano le amicizie da frequentare, a quali valori adire, che tipo di comportamento sia meglio tenere per raggiungere risultati soddisfacenti, che cosa siano l’amore, l’onestà, la correttezza, la lealtà, il senso del dovere, l’impegno e la solidarietà. L’humus è la parte nobile della natura umana, quella che non si vede, ma che si fa sentire con richiami talmente significativi che non siamo forse più in grado di decifrare, sommersi come siamo da dipendenze di ogni tipo, in primis da quelle di una presunzione tecnologica, che vorrebbe far credere che tutto si possa con un telefonino, un computer, dimenticandosi che le tecnologie più avanzate le possediamo già, solo che se ne stanno tranquillamente posizionate in profondità, in attesa di poter offrire una nobile consegna allo “scommettitore” di turno. Non occorre dimenticare che chi insegna apprende, l’insegnante è il primo a essere governato dalle leggi dell’educazione, è il primo che ogni volta si sottopone al giudizio insindacabile della coscienza individuale, prima ancora di soggiacere al giudizio pubblico, quello di persone prontissime ad ascoltare, a osservare, a giudicare, per scoprire che forma abbia quel mondo con il quale sono costrette a fare i conti tutti i santi giorni. L’incomprensione è sempre stato il vero dramma del rapporto con la classe. Avere molte nozioni da insegnare, ma non sapere esattamente da che parte cominciare, come veicolarle, essere poco predisposti alla conoscenza dell’animo umano, essere spesso carenti di empatia, cedere troppo facilmente al temibile gioco delle lusinghe, all’idea che un sistema paritario possa disarmare il “nemico”, sono tutte situazioni che determinano un stato di perenne conflittualità. Quante volte ci siamo riconosciuti o dichiarati impotenti. Avevo colleghi e colleghe bravissimi, ma incapaci di stabilire un qualsiasi rapporto educativo con la classe. La classe li rifiutava, li faceva diventar matti, li martellava al punto che poteva anche succedere che scappassero dalla classe, oppure che si rifugiassero in qualche aula silenziosa a meditare, chiedendo disperatamente l’aiuto del salvatore o della salvatrice di turno. I ragazzi hanno una straordinaria capacità di capire chi sia la persona che li sfida, che vorrebbe guidarli, educarli, condurli su strade diverse rispetto a quelle cui sono abituati. E’ molto difficile convincerli che possa essere vero il contrario. Eppure una via esiste e non è sempre studiata a tavolino o estrapolata da qualche manuale di pedagogia, spesso la verità è dentro di noi, ce l’abbiamo e non lo sappiamo, forse perché non siamo stati abituati a conoscerla, a interrogarla, a promuoverla, i nostri educatori forse, non tutti chiaramente, non ci hanno insegnato la parte più bella della lezione, quella che aiuta a riflettere su chi siamo, cosa facciamo, sulle cose che portiamo dentro, in particolare la voglia di stabilire contatti, di metterci alla prova, di capire che cosa si possa davvero fare per cambiare in meglio le sorti del mondo, soprattutto di quello con il quale condividiamo quasi quotidianamente i cammini e gli stili di vita. Il lavoro è fatica sempre, anche quando si presenta con il colletto bianco e con i polsini stirati. Nulla viene regalato, tutto ha un prezzo, capita molto spesso di dover ricominciare ogni volta senza dover perdere mai la pazienza, convinti che con la buona volontà si possano risolvere tutti i problemi. Quando si lavora si sbaglia e si sbaglia anche di frequente, ma lo sbaglio è taumaturgico, perché insegna a riflettere, è sbagliando che si cercano le vie d’uscita, quelle che fino a qualche tempo prima sembravano inesistenti, è sbagliando che s’impara a mettere sotto la lente d’ingrandimento il nostro carattere, la nostra personalità, è passando attraverso l’errore che s’impara a conoscere e a costruire di nuovo. Uno dei grandi limiti della società tecnologica è quello di puntare a tutti i costi sulla novità, sul successo imprenditoriale, dimenticando forse che alla base di tutto c’è l’educazione alla conoscenza di sé e del mondo, una stagione diversa e più attenta della nostra identità, riservando alla dignità uno spazio adeguato, capace di aiutarla a ritrovare la motivazione giusta per riprendere ad amare, a pensare, a essere attiva e presente nell’evoluzione umana. La professionalità ha bisogno di molto impegno, di aprire le porte di quel mondo che si lascia troppo spesso in balia della superficialità e della trascuratezza, forse c’è bisogno di un recupero, di una rinnovata presa di coscienza, di ritrovare il gusto delle cose belle, quelle che aiutano l’umanità a crescere di nuovo con gioia e con entusiasmo.
IL SISTEMA LAVORO E’ DA RIPROGRAMMARE
Chi ha un minimo di esperienza lavorativa sa quanti siano gli errori che sono stati e che continuano a essere alla base dei tantissimi problemi che riguardano il mondo del lavoro. La mancanza di professionalità è uno dei tanti. In molti casi il lavoro viene affrontato e vissuto con superficialità, come se si trattasse di un corpo estraneo da tenere il più possibile a distanza per evitare di esserne contaminati. Manca una cultura del lavoro che lo faccia apparire per quello che realmente è e cioè un diritto/dovere individuale e comunitario previsto in parte dalla nostra Costituzione e in parte dalla nostra consapevolezza di essere cittadini di una società e di uno stato che hanno bisogno del nostro contributo, qualunque esso sia, per migliorare. Manca in questo senso una cultura vera e profonda del lavoro, una cultura che generi consapevolezza, senso di responsabilità, coscienza. In moltissimi casi il cittadino non sa che cosa significhi appartenere a una comunità, esserne parte viva, attiva, non lo sa perché forse non glielo hanno insegnato nel modo giusto, quindi quello che fa è spesso frutto di una incoscienza di fondo, in cui si legano in modo confuso quegli aspetti interpersonali che danno un peso e una misura alla crescita di personalità attente e consapevoli. Essere professionali significa svolgere il proprio lavoro con passione, entusiasmo, competenza e con la voglia di esserne all’altezza, di dimostrare la propria capacità, per questo bisogna creare le condizioni. L’autostima è fondamentale e soprattutto l’idea del valore di quello che si fa contribuisce in misura determinante a far amare il proprio lavoro. Per troppo tempo è stato trattato come un corpo estraneo, un peso da sopportare, una pena da dover pagare, anche per colpa di chi avrebbe dovuto fare di tutto per farlo apprezzare e stimare. Basti ricordare i conflitti tra classe imprenditoriale e classe operaia, tra padrone e prestatore d’opera, ma una vera preparazione al mondo del lavoro non è mai stata fatta, neppure quando si sono messi di mezzo coloro che del mondo del lavoro si sentivano i rappresentanti. Ripartire dalla professionalità significa qualificare come attore protagonista chi la esegue e soprattutto aiutarlo a comprendere fino in fondo il significato e il valore di quello che fa e delle finalità per cui compie una determinata azione. C’è una sorta di correlazione tra emancipazione materiale e morale, tutto contribuisce a creare un’ identità credibile e affidabile. Il lavoratore si è sentito spesso un escluso, una macchina da usare, un cittadino di serie b, un alieno, spesso non è riuscito a sintonizzarsi, a trovare un equilibrio, a capire fino in fondo l’importanza del proprio ruolo. Quanti lavori hanno dovuto cambiar nome per diventare degni di essere pronunciati, perché il lavoro se ne potesse fregiare con fierezza e onore. Un esempio fra tutti potrebbe essere quello dello stradino. Un tempo chi puliva le strade era lo stradino o scopino, poi col passare del tempo il nome si è evoluto e così lo stradino è diventato operatore ecologico, magari senza conoscere a fondo il significato letterale dei termini, ma con un ritrovato senso dell’onore. Era come se all’improvviso fosse diventato una sorta di medico sociale della pulizia. In molti casi bastava cambiare etichetta, appioppare quella più adatta, per consegnare anche solo l’idea che il lavoro fosse più dignitoso di quanto non venisse propagandato.. L’aver discriminato ha creato non pochi problemi di natura conflittuale, mentre in realtà ogni lavoro nasce con una propria identità e dignità sociale, che contribuiscono in maniera determinante al raggiungimento del bene comune. Ogni lavoro ha pertanto una sua precisa dignità, la differenza la fa la qualità. Anche i lavori più semplici, se fatti bene, risultano determinanti al fine di un ordine sociale equilibrato e armonico. Rilanciare il lavoro significa fare in modo che non finisca nelle mani della demagogia e dello sfruttamento, ma che diventi fiore all’occhiello di una società civile che vuole progredire fuori da schemi preordinati e precostituiti, da condizionamenti di ideologie e di schemi, capace di creare entusiasmo e inclusione, voglia di essere sempre un pochino migliori.