Tre mesi di premio subito dopo la laurea, grazie alla gentile raccomandazione di un sacerdote. E chi se non i preti potevano raccomandare? Se poi conoscevano bene la tua famiglia e tu eri un bravo ragazzo, beh qualcosa poteva saltar fuori e io sono stato fortunato. Dopo la laurea nell’estate del 1972 sono diventato uno stagionale del pomodoro, sono stato assunto come operaio: tuta blu, orari distribuiti tra il giorno e la notte e poi un particolarissimo muletto in dotazione, per caricare le cassette di pomodoro sui cassoni del camion. All’inizio ho pensato che non sarei mai stato bravo a guidare quelle macchinette infernali, eppure me lo hanno imposto e io ho eseguito. I camionisti era sempre attentissimi, guai toccargli il camion con le lame, erano accaldati, stanchi, molto spesso incazzati, l’attesa li rendeva irrequieti, un principiante non era velocissimo a caricare, doveva fare tutto con molta attenzione, stare sempre molto attento, quindi era più soggetto a sbagliare. Qualche volta li sentivo bestemmiare, forse gli avevo toccato il cassone, ma ormai mi ci ero abituato, cercavo di migliorare, di non lasciarmi intimidire, di imparare la lezione, di fare sempre meglio. Da studente laureato a stagionale del pomodoro il salto è stato qualitativamente forte,eppure l’ho fatto e l’ho voluto con la consapevolezza di chi si mette in gioco per scoprire chi è veramente. Vivere in quel mondo non era per nulla semplice. Gli stagionali tra loro si conoscevano bene, quasi ogni anno si dedicavano a quella occasione redditizia, uomini e donne insieme, i rapporti interpersonali erano molto amichevoli, direi in alcuni casi persino troppo, soprattutto di notte quando il buio metteva una croce e una delizia su tutto. Qualcuno mi guardava strano, forse non riusciva a capire come un laureato potesse essere li a fare l’operaio, a guidare un muletto, forse mi vedeva un po’ spaesato, anche se ce la mettevo tutta per cercare di non fare brutta figura. A pranzo e a cena insieme alle tutte blu era uno spasso, ne sentivo di tutti i colori, in alcuni momenti mi divertivo anche, certo è che bisognava fare in fretta, non si poteva sgarrare. Un giorno uno dei capi, forse mosso a compassione, mi ha chiamato in ufficio e mi ha proposto una promozione in ufficio a pesare i carri carichi di pomodori, insieme a un dottore in agraria, che tra l’altro era amicissimo dei miei fratelli. Ho risposto subito di sì, mi sembrava di aver fatto un passo avanti, anche se, per la verità, forse si saranno resi conto che come guidatore di muletti non ero il massimo e che avrei potuto riuscire meglio altrove. La vita in ufficio era noiosissima. Ogni tanto arrivava un trattore con il suo carico, dovevi pesarlo e quindi procedere allo scarto: pomodoro roma o tondo liscio, quanto di buono e quanto da buttare? Rilasciavi la fattura e tutto filava via dritto. Una noia infernale, ma il gioco valeva la candela. Dalle mie parti gli stagionali venivano pagati molto bene e poi non avevano nessun tipo di trattenuta. Un giorno il mio capo mi dice se potevo portare in ufficio la mia carabina, una Diane 35, così nei momenti di pausa ci saremmo divertiti a sparare al bersaglio. Allora non c’era il problema del porto d’armi, potevi usare liberamente la carabina e noi lo facevamo ogni volta che i trattori non arrivavano. Il cortile era ampio e tranquillo, i trattori li sentivi arrivare da lontano, quindi avevamo tutto il tempo per prendere la mira e colpire il bersaglio. Il capo era una brava persona, ma aveva un carattere non molto lineare, poteva essere temporaneamente simpaticissimo oppure molto antipatico, persino sprezzante e un po’ odioso. A volte si arrabbiava per un nonnulla, bastava uno zero in più dopo la virgola e subito dava in escandescenze. Ho pensato che stare in quel piccolo ufficio a pesare i carri carichi di pomodori non fosse il suo sogno, magari come dottore in agraria avrebbe aspirato a una vita diversa, più direttiva, più dinamica e poi avere a che fare con uno stagionale che di lì a poco se ne sarebbe andato per incontrare una nuova vita forse non lo esaltava. Eravamo agl’inizi degli anni settanta, il mondo era aperto a tutte le soluzioni, trovare un impiego non era un’impresa difficilissima, ma bisognava sapersi accontentare e magari prendere in mano la scopa e pulire l’ufficio, prima ancora di aspirare a tenere in mano una matita o una penna. L’importante però era esserci, era quello che ci avevano insegnato i nostri genitori, non mollare nulla e dare la giusta importanza a tutto. L’obiettivo non era bighellonare, l’importante era portare a casa un po’ di soldini e imparare a far fatica. I genitori di una volta avevano il culto del sacrificio e della conquista, ogni cosa dove essere frutto di un impegno quotidiano assiduo e pervicace. Come neolaureato non ero al massimo della soddisfazione, ma l’idea di poter fare qualcosa di utile e di poter portare qualche soldo pulito da mettere in banca mi stimolava moltissimo. Ero uno stagionale come tanti, uno che pesava i carri dei pomodori, che parlava con i contadini, che doveva valutare se il prodotto era all’altezza della situazione e in quale percentuale, ma ero felice perché si trattava di un’esperienza completamente nuova, era un modo vivo e operoso di condividere con altre persone un lavoro considerato dai più intelligenti, come un ripiego. L’errore che si commette più di frequente oggi è quello di pensare che esistano lavori di serie a e lavori di serie b, che se non si guadagna abbastanza e che se non si è ricchi le ragazze si girano dall’altra parte. Tutto sbagliato. Ero molto orgoglioso di aver fatto carriera come stagionale, di essere passato da operaio semplice a operaio “specializzato” e poi a impiegato. Non mi potevo lamentare, anche se alcuni miei amici dei piani alti della città festeggiavano la laurea con un bel viaggetto o con una bella vacanza al mare o in montagna. I mesi trascorsi al servizio dei pomodori sono stati una bellissima esperienza: vita all’aria aperta, un po’ rustica, ma vera. Ho imparato a convivere con la bellezza e il profumo del pomodoro, rimanendo per tutto il giorno nel cuore della campagna, tra filari di pioppi, gente semplice, ma stracarica di umanità, piena di voglia di lavorare, ma anche di cantare, di ridere, di scherzare. Era figlia di borghi e paeselli distribuiti nella bellezza planetaria della pianura con le sue distese di campi, con le sue colline, i suoi fiumi, i suoi canali e le sue rogge, il tutto avvolto in un caldissimo sole agostano che arrostiva le orecchie. Ricordando questa mia esperienza, seppur limitata nel tempo, non posso non immaginare la fatica di quelle persone che trascorrono le loro giornate a raccogliere i prodotti della terra sotto un sole che spacca le pietre. Non posso non pensare a quei poveretti che, schiavi di un meschino caporalato, sono costretti a lavorare come bestie da soma, ricevendo stipendi da miseria, trattati malissimo, senza un minimo di umanità, in balìa di uno stato che non fa abbastanza per sconfiggere questo fenomeno di natura squisitamente delinquenziale. Un paese che si vanta della propria democrazia e che la festeggia con tutti gli onori dovrebbe fare un profondo e serio esame di coscienza, dovrebbe rendersi conto che il lavoratore ha una dignità che va difesa, protetta, consolidata e potenziata e che ogni lavoro, se fatto con amore e con coscienza, produce effetti benefici su tutta la società civile. Dunque onori alla Costituzione, allo Statuto dei lavoratori, all’impegno sindacale, ma impegnarsi subito a rivalutare tutto il mondo del lavoro, anche quello che potrebbe apparire meno dignitoso, meno gratificante, meno importante degli altri. Ogni lavoro ha una propria dignità e una propria storia che si lega a quella umana, ogni lavoro, unito agli altri, è la vera fonte della ricchezza economica e morale di una democrazia e di una costituzione, quindi non bisogna vergognarsi di dimostrare la propria buona volontà sempre, in ogni luogo e in ogni circostanza. Oggi i pomodori li coltivo con orgoglio nel mio orto insieme a mia moglie e alla mia famiglia e ogni volta che li raccolgo e li mangio non posso fare a meno di ricordare quell’indimenticabile esperienza vissuta all’interno dell’industria conserviera più importante della mia provincia, sotto un caldissimo solleone, quando smessi i panni dello studente neolaureato e indossata la tuta blu mi apprestavo a compiere un lavoro che mi avrebbe insegnato molte cose utili e interessanti come l’orgoglio, la fierezza, la buona volontà, l’impegno, il voler fare le cose fatte bene per fare bella figura, il rispetto degli orari di lavoro e soprattutto la soddisfazione di aver iniziato subito, anche se dentro coltivavo pensieri di tutt’altra specie. Quando molto tempo dopo ho cominciato a insegnare nella scuola pubblica, cercavo di arrivare sempre prima dell’orario previsto: essere in orario era infatti un modo per dimostrare a me stesso e ai ragazzi che nella vita non basta predicare, bisogna sempre dare prima l’esempio.
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