Chi ha vissuto l’esperienza del lavoro sa quanto importante sia che ciascuno faccia la propria parte, lavorando con impegno, s’intende. Di solito si lavora bene quando il clima che si respira è favorevole, quando ciascuno sa esattamente quello che deve fare e come lo deve fare. Scontato? Non direi, di solito la tendenza è quella di vivere il condizionamento del lavoro: orari precisi, comandi, obbedienza, con una certa difficoltà, perché si ha sempre l’impressione che dipendere sia un po’ come appartenere o essere posseduti, essere in una condizione di non libertà. Un tempo gli orari di lavoro erano opprimenti, non davano tregua, costringevano e le costrizioni hanno generato varie forme di reazione: politica, sindacale, sociale, individuale, sviluppando conflitti di ogni genere. Oggi fortunatamente il lavoro ha i suoi tempi, determinati da regole precise, ma in molti casi soffre ancora di mancanza d’identità, fa una fatica terribile a farsi riconoscere, apprezzare, amare per come dovrebbe essere, in molte circostanze viene vissuto come occasionalità da non perdere. In un’azienda ciascuno ha il proprio livello di responsabilità e si sa che i risultati dipendono da come l’azienda viene organizzata e diretta. In molti casi rimane una sorta di campo minato, dove l’identità spesso scompare, si assiste a una spersonalizzazione dell’individuo, che vive una dimensione esoterica del rapporto umano che, in molti casi, non esiste. Di solito da una parte c’è chi comanda e dall’altra chi ha il preciso compito di obbedire, un meccanismo di natura meccanicistica che giova al padrone, ma non alla maturità del lavoratore, che spesso si sente numero e non persona, non vive con pienezza la sua personalità e questa situazione genera frustrazioni di ogni tipo. L’esperienza insegna che l’azienda funziona quando chi la dirige sa far amare il lavoro e sa anche farsi amare. Farsi amare non è facile, ma è un passo che vale la pena fare per raggiungere l’obiettivo. Cosa significa farsi amare? Mettere al centro l’uomo, fare in modo che lavori con la convinzione di essere una persona libera e cosciente, esprimendo al massimo livello la propria condizione emotiva, il proprio essere, la propria personalità.
Quante volte ci siamo sentiti maltrattati, ignorati, combattuti, diffidati, messi da parte, eppure avevamo in cuor nostro una grande gioia, quella di fare le cose perbene, con determinazione e impegno, nel rispetto delle regole e delle persone con le quali condividevamo la nostra storia. In alcuni casi chi opprimeva e creava il disagio era proprio chi avrebbe dovuto evitarlo. Un dirigente inadeguato può creare un mare di guai, guai di natura morale, psicologica, sociale, guai che si ripercuotono sulla sfera affettiva, sui rapporti interpersonali, sulla voglia di fare e sulla voglia di essere. Ci sono lavoratori bravissimi che non trovano spazio, che devono accontentarsi di servire senza mettere sul piatto il desiderio di una collaborazione più viva, più vera, più congeniale, più adatta alle richieste di una piccola o grande comunità. Uno dei problemi è la parzialità del dirigente, il suo sentirsi politicamente inserito, il suo livello di sindacalizzazione, il suo essere incapace di valorizzare tutte le persone che condividono l’impegno lavorativo, l’incapacità di fare sentire persone i lavoratori. Quante volte il dirigente ti ha isolato, fatto sembrare un incompetente, anche quando eri tu, insieme a qualcun altro, che tiravi la carretta, che generavi fiducia nelle persone, che tenevi in piedi il rispetto dell’azienda, che aiutavi i tuoi colleghi, che cercavi in tutti i modi di dare un volto alla professionalità che ti contraddistingueva. Quante volte ti sei sentito messo all’angolo perché non facevi parte di quella cricca o di quel partito o perché non entravi nelle simpatie di quel dirigente. Quante volte ti sei dovuto rassegnare, anche quando con la tua personalità sostenevi i tuoi colleghi, cercando di abbreviare o di ridurre le loro sofferenze. E’ in questa assurda negazione motivazionale che cadono uomini e donne che non credono nella convivialità e che non vogliono entrare nella ricchezza umanitaria del mondo del lavoro, un mondo che può cambiare i mondi, una opportunità in cui chi comanda ha il delicatissimo compito di costruire una grande famiglia in cui ciascun componente viva intensamente questo tipo di appartenenza umana. Se il mondo del lavoro avesse un’anima forse le cose andrebbero meglio, ci si sentirebbe più uniti, più consapevoli, più membri responsabili della propria vita e di quella degli altri.