C’era una canzone anni sessanta, Pietre, di Antoine, che diceva così: “Sei buono e ti tirano le pietre, sei cattivo e ti tirano le pietre, sei bello e ti tirano…”. Una canzone ritmica, un testo semplice, estremamente esplicativo, capace di farti sorridere e allo stesso tempo pensare alla condizione umana. In molti lo abbiamo cantato e anche condiviso, come se quel cantautore dinoccolato e simpatico avesse scoperto l’America. Eppure in quell’America così apparentemente frivola si nascondeva una verità: la condizione umana è fortemente instabile, soggetta a essere presa a pietre in faccia, anche quando vorrebbe essere solidale, amichevole, attenta e generosa. Uno si domanda come mai, come mai il bene debba pagare un prezzo troppo alto, mentre il male trova sempre delle vie di fuga per farla franca. Ci si domanda soprattutto come mai ci siano esseri umani che prediligano consapevolmente il male, pur sapendo a quali guai possono andare incontro. La lotta tra il bene e il male è atavica, esiste da sempre, dalle origini del mondo, è componente di una natura che non si affranca a sufficienza dall’idea che si possa vivere e vivere bene agendo da persone corrette, che fanno il proprio dovere, nel rispetto degli altri. Questa guerra la si può notare anche senza andare troppo lontano dalla nostra vita quotidiana, ogni attimo è buono per riflettere sul tema, per osservare, ascoltare e rendersi conto di quanta strada occorra ancora fare per ridurre la distanza tra il bene e il male. Oggi poi è diventato ancora tutto più difficile, perché il male ha affilato le armi, le ha rese tecnologiche, sofisticate, è in grado di fare tutto e il contrario di tutto, ha raggiunto una ipersensibilità intellettuale che gli consente di insinuarsi, interferire, interrompere, disorientare. Gioca moltissimo sui lati deboli della condizione umana, quelli che proprio per la loro natura possono esporsi a vari tipi di curiosità, agendo con diabolica finezza discorsiva, trovando sempre modalità perverse per infierire.
Ci troviamo dunque in una realtà che si è complicata al massimo, volendo peraltro dimostrare di essere diventata popolare, democratica, alla portata di tutti. Il problema è che, quanto prima, si renderà necessaria una nuova alfabetizzazione della ragione, soprattutto per chi dovrà governare con autorevolezza e senso di responsabilità le libertà consentite e quelle proibite. Forse bisognerà ripristinare il valore della bontà, farlo amare e apprezzare a cominciare dalle famiglie, dove in molti casi è diventato preda di egoismi elevatissimi. Essere buoni non significa essere stupidi, come in molti casi si pensava una volta, quando per giudicare negativamente qualcuno si diceva di lui: “Ma è così buono”. La bontà è forse qualcosa di più e di meglio, è fonte di speranza e di nuove certezze, che vanno oltre la smania di un momento. Ripristinare la bontà significa ridare fiato e respiro al bene nella sua versione normale, quella che si ciba di volontariato, di rispetto, di solidarietà, di generosità e di aiuto. La filosofia della puntualità tecnologica non basta più, ha dimostrato i suoi limiti e non solo, ha acuito il conflitto, la ritorsione, la lotta, l’intemperanza, mai come oggi si sente la mancanza di una pax spirituale, la necessità di un ritorno alla casa materna e paterna, un po’ come ai tempi del figliol prodigo, quando dopo aver girato il mondo a averlo provato ci si accorge che il bene sta nel ritorno. Cosa significa ritornare? Non certamente perdere dei punti o abiurare il progresso, ma rispolverare tutto ciò che abbiamo accantonato troppo in fretta, ritenendolo vecchio e superato. La ricchezza, da qualsiasi parte arrivi, non si butta mai viva, va rianimata, magari restituendolo un significato diverso, più umano, più vero, più attento alla città dei valori. Anche la ricchezza può essere un valore se la si sa commisurare, distribuire, avvalorare, se diventa un motivo in più per vivere meglio, con meno problemi, meno angosce, meno ansie e con più fiducia nelle cose belle di questo mondo.