Nel mondo del cinema si è scatenata la tempesta; pare che nessuna attrice (o aspirante tale) possa sottrarsi alle avances del produttore o del regista di turno, a meno di dover rinunciare alle proprie aspirazioni o di troncare sul nascere una promettente carriera. Violenza? Sì, questa indubbiamente è violenza, ma non nel senso “fisico” del termine. È difficile ipotizzare una scena di aggressione segnata dai lividi e dalle percosse, perchè la violenza in questione è quella del ricatto e della coercizione morale, subdola e poco appariscente e, quel che è peggio, diffusa e praticata fino a diventare una regola del sistema. Il mondo dello spettacolo fa sempre notizia, ma la vera domanda è: in quali altre circostanze si applica questa “regola” che non è scritta da nessuna parte ma che le donne sono costrette ad accettare? In ufficio? In fabbrica? O perfino tra le rassicuranti pareti domestiche, là dove l’uomo è ancora “quello che porta i pantaloni”? l’uomo, il maschio, colui che da millenni detiene il potere e lo esercita nel modo che ritiene più opportuno al di fuori e al di sopra dei giudizi e delle critiche. Il capo branco, il capo tribù, il capo famiglia, il capo ufficio; il potere non è di genere neutro, ma è inequivocabilmente di genere maschile. Persino la terminologia clinica è rivelatrice: quando non funzionano bene il cuore o i reni si parla di insufficienza cardiaca o renale, ma quando il maschio perde colpi si parla di impotenza sessuale. La cultura del terzo millennio è ancora disposta ad accettare il connubio tra il sesso e il potere maschile, nonostante gli sforzi di una società civile che si è obbligata a riconoscere la parità di diritti tra uomini e donne. Da sempre ammiro le donne che cercano l’emancipazione attraverso la loro presenza attiva nel lavoro, nelle istituzioni o nella famiglia, ma credo che il salto di qualità lo dobbiamo fare noi uomini, uscendo per sempre dall’idiozia dei luoghi comuni. Se non abbandoneremo la logica del “ogni lasciata è persa”, finiremo con il perdere tutto.