Paolo. Basta questo nome come titolo sulla copertina di questo libro per svelare come le pagine abbiano saputo entrare nell’anima di un ragazzo, intrise di quell’amore che sa cogliere i più profondi palpiti. L’autrice, Roberta Lentà, è stata la sua insegnante della scuola primaria di Masnago “Antonio Locatelli”. La strada da lei scelta per sottolineare la ricchezza che ancora elargisce Paolo Talamoni, 17 anni, bravissimo giocatore di basket, scomparso nel 2017 per un tumore al cervello, è particolare: non si racconta come docente, ma calandosi nella figura della madre. Un’angolazione, in apparenza in salita, che lei ha scelto tale è stata la vicinanza -ancora presenza quotidiana nell’animo- con il ragazzo anche durante il periodo della malattia. E’ il vissuto di due interiorità fra madre e figlio, una “osmosi” fatta di inseguimenti, di allontanamenti che in realtà sono un lasciarsi accogliere. Paolo, o Paul, il nome urlato dagli spalti durante le partite di basket, “un metro e ottantasette per sessanta chili, che non mangia da diciassette anni, eppure è fortissimo, regge quasi ogni giorno almeno due ore di allenamento”, scrive l’autrice che, come inizio di presentazione dell’alunno, sceglie il giorno in cui ha le prime avvisaglie del male. Sono significativi quei corsivi che l’autrice usa per indicare cosa l’animo suggerisce al di là delle parole. Lui entra arrabbiato, insofferente, lamentandosi dei cinque piani di scale, camminando più lento. “Lei vorrebbe chiedergli semplicemente cos’hai, che cosa è successo, perché a risonanza, come sempre con suo figlio, le arrivano altre parole. Ma aspetta che la piena abbia fatto il suo corso”. E’ un inseguimento continuo il suo, alla scoperta di un figlio che spesso non ritrova nelle parole degli insegnanti. E lui è un libro che continua ad aprirsi, già uomo nelle sue fragilità e nelle sue contraddizioni: rivoluzionario e abitudinario, timido, segreto e sbruffone “con quel suo delicato, tragico senso di inadeguatezza” e con “quella eleganza dell’animo che ha pudore delle parole”. E’ un lavoro di scavo quella dell’autrice: “Forse conosco meglio te di me stessa -dice nelle vesti di madre rivolta a lui- e pure non ti ho mai afferrato, pure l’amore che ti devo non basta”. La lezione di vita che dà Paolo durante la malattia è scritta nelle attenzioni nei confronti degli amici che giungono in ospedale per una partita a carte vissuta con stanchezza, nelle attenzioni nei confronti di Giulia, la sua ragazza in gamba, già donna, che ha convissuto con il cancro del padre da quando era bambina e che lo aiuta di più di tutti col suo afferrare la più intima essenza. Intensa e solenne nel suo silenzio è la mamma che si fa da parte, esce di camera e lascia il figlio a Giulia “perché lei soltanto poteva darti un barlume innamorato, affidato di consolazione, di felicità”. C’è una frase che può essere considerata la più pregnante: “Si chiede ancora cosa le insegni suo figlio!”.
Federica Lucchini