di Francesco Greco. Elogio della provincia italiana e della kunderiana leggerezza dell’essere, in quella sconfinata agorà dorata dal sole dove ancora c’è spazio per un’idea minimal dell’esistenza, gli improvvisi rossori, le passioni che si accendono con nonnulla, pudori malcelati, insomma, le piccole cose odorose di quotidianità che fanno la vita più dolce e intensa rispetto alla metropoli paranoica e alienante. Certo, la globalizzazione, con i media martellanti e violenti, ha allascato un po’ la percezione delle gioie. Vorrebbero farci vivere in una piazza virtuale formattando la specificità di uomini e cose, fra tv che omologa tutto e il web che concorre a non farci uscire di casa, spinge al solipsismo sciocco, relativizzando quella dolce vita di paese fatta di ritmi sempre uguali: il caffè con l’amico d’infanzia al bar dello sport, le chiacchiere sul pallone, l’apprezzamento per la bellezza che passa dalla piazza ancheggiando e sorridendo maliziosa. Ma noi non ci caschiamo e continuiamo a deurbanizzarci cercando posti a misura d’uomo dove trascorrere il tempo che ci è toccato in sorte, come direbbe E. A. Cioran. A darci ragione giunge lo scrittore Romano Oldrini con “Quel rossore di guancia provinciale” (e altri racconti), Edizioni Menta e Rosmarino, pp. 112, (s.i.p.), con deliziosa prefazione di Mario Chiodetti, mentre il grande artista Antonio Pizzolante (di origine pugliese, Lecce, ma vive a Varese) firma la cover, “Rosso Sera”(tempera su cartone) e altre 6 opere sparse nelle pagine. Oldrini “nasce” poeta, e si vede da come lavora la materia: con un tocco di dolcezza e di fine ironia sparsi in una decina di pubblicazioni. Dal 1997 conduce il “Caffè Letterario Godot” di Gavirate e dal 2003 è presidente dell’Associazione “Amici di Piero Chiara” , che ogni anno organizza l’omonimo premio, uno dei più autorevoli e seri nel Paese delle Meraviglie, dove spesso si premia e si dichiara talentuoso chi manco sapeva di esserlo, talvolta con coppe e medaglie consegnate dall’assessore al ramo in diretta tv. Tale elemento biografico svela lo scrittore come allievo e anche erede del maestro Chiara, in 21, sublimi racconti corti, belli densi e attraversati da una luce che illumina la prosa e i paesaggi in cui si svolge l‘azione. Il genere “storie di provincia” ha un suo nobile passato testimoniato, da Nord a Sud, nell’altro secolo da Nantas Salvalaggio a Chiara, da Mastronardi a Bianciardi, sino a Vitaliano Brancati e Michele Saporaro, incluso Corrado Alvaro e lo stesso Silone. Con i dovuti distinguo filologici: dalla prosa algida di Chiara a quella sensuale e viscerale di Brancati. C’è nei personaggi di Oldrini una tenacia e un candore che fanno tenerezza, una resistenza gagliarda e sublime a ogni forma di omologazione. Alcuni hanno tratti deliziosamente felliniani e surreali, onirici, altri demenziali e folli, e comunque tutti ascrivibili al postmoderno e in grado di restare nel tempo. Certamente si resta conquistati dalla loro originalità e si è grati a Oldrini per averli estrapolati e bloccati sulla carta prima che svaporassero. E se come dichiara il suo sogno era di smettere di crescere per tornare bambino, proprio con lo sguardo incantato e puro del fanciullo osserva un universo di cui si fa menestrello dandogli vita e pathos con un’affabulazione tersa e intrigante. Certi topoi sono unici e solo nel cuore della provincia italiana li puoi ancora incontrare: l’impiegata postale siciliana, la Marchesa di Donnafugata, dal “seno arrogante” che fa innamorare il protagonista e che si mette in fila per pagare bollette di là da scadere, uomini dagli occhi “blu cobalto”, solo qui “puoi vedere un asino volare o un lago che si prosciuga da solo o una rana che parla”, ma anche la “fortuna dei poveri” e “la pazzia degli eccentrici”. Vai avanti nelle pagine e pensi a Lev Tolstoj: se vuoi essere universale parla del tuo villaggio. Oldrini ci è riuscito. Chapeau!