Don Herve comunica per telefono che sarà tra noi in Italia a fine luglio e resterà circa due mesi.
Ci invia questo prezioso pensiero
Non sono mai stato a Nazareth, ma ora mi piacerebbe conoscerla per comprendere meglio anche quello che sto vivendo. Per due volte avevo cercato di poter andare, ma per gravi motivi di sicurezza in quei luoghi non mi è stato possibile. Oggi venerdì 21 febbraio, qui accanto alla croce sulla collina di Bomoanga, una piccola collinetta vicino alla mia “casa nella savana”, poco più di un chilometro, pensavo a quel luogo cosi ricco della presenza storica di Gesù, ma ancora sconosciuto per me. Dalla collina mi guardavo attorno. Una terra brulla di poverissimi pascoli e ora assetata d’acqua che le verrà donata solo dopo circa nove mesi d’attesa. Cosi da questo fazzoletto di terra la preghiera mi spingeva a comprendere un po’ di più la vita “nascosta” di Gesù a Nazareth là dove Dio scelse di venire ad “abitare” con noi. Il silenzio mi avvolge, il cuore è pieno d’emozioni che il vento della savana non toglie anche quando improvvisamente rompe il silenzio con la sua presenza sabbiosa dalla quale cerco di ripararmi. Poi, ancora il silenzio e lo sguardo che sale e scende dalla croce per seguire i pensieri che si rincorrono. Anche il sole mi avvolge, da lui, qui sulla collina non c’è riparo se non il mio cappello tirolese che mio fratello mi aveva regalato nell’ultima vacanza. Devo dire che è proprio un buon riparo per la mia testa. Guardo attorno mentre prego senza una preghiera particolare, ma come rapito da questo mistero di essere “abitato” da Dio, di essere alla sua presenza e di non veder niente se non “il silenzio” squarciato da questa croce ai cui piedi sto vivendo da qualche ora in compagnia di me stesso, con il mio passato, il mio presente e in preghiera per essere aperto al progetto di Dio a cui mi è amorevolmente e totalmente chiesto di partecipare. Vedo senza essere visto dei pastorelli che vanno con il ritmo della mandria di queste povere mucche che cercano tra cespugli assolati qualche cosa da mangiare. Io sono là con la Parola di Dio che da anni ho ricevuto e accolto che mi riparla ai piedi della croce di tutta la sua “impotenza” umana. Mi guardo e mi accorgo di respirare, qui in questa mia esperienza, tutta questa mia impotenza umana ad annunciare il Signore crocifisso e risorto. Posso morire e tutto nel mondo continuerebbe senza di me. Ricordo a tentoni il salmo che mi ricorda la vanità umana che come l’erba è bella e fresca al mattino e dissecca alla sera. Mi ribello a questi pensieri. Comprendo per la croce che mi sovrasta che non hanno nulla a che fare con il vangelo, con Lui Gesù, anzi secondo me fanno ”a pugni”. No la croce che sto guardando rende ancora più vivo il mio rifiuto a questa prospettiva che sento di poter accogliere solo nella parabola del “seme” che seminato diverrà spiga e poi pane e cibo e … comunione, fraternità e … Nello stesso tempo sento profondamente questa fraternità semplice e nascosta che mi unisce a “Nazareth” che non conosco ancora se non per la Parola di Dio. Mi rendo conto che la vita nascosta di Gesù non è lontano da nessuno di noi. Tutti la stiamo vivendo in modi differenti, ma vivi. Qui a me mi è data la grazia di riconoscerla abbondante e bella per tutti. La parola “nascosta” sembra una “brutta parola” in un mondo che propone il successo individualista, ma qui la riscopro come colei che permette di “disegnare” rapporti intimi e totali anche se non c’è “ricchezza”. Qui l’intimità con gli altri non può essere finzione, ma verità perché in questa “povertà” di vita non ci può essere separazione, ma solo accoglienza e senza misure. La misura del povero infatti è quella di non avere misure, ma disponibilità. Per i “piccoli fratelli Peul” da un po’ di tempo mi chiamo Iunussa Ɗaɗi (Iunussa = Giona, Ɗaɗi = Radice/vena). Per loro è difficile pronunziare la V di Hervé. Questa lettera non esiste nel loro alfabeto e quindi io diventavo inevitabilmente Herbé. Ricordo che già i miei parenti veneti facevano la stessa cosa in particolare ricordo il mio nonno che mi chiamava già Erbé.. Per questa difficoltà di pronuncia mi sollecitavano ad avere un nome di “casa”. Ed ecco questo nuovo nome che unisce la mia esperienza camerunense con i fratelli Fulbé. Iunussa infatti era il nome del figlio maggiore del mio amico Peul: Ɗaɗi con cui avevo cominciato un “cammino” di fraternità. Così alla loro richiesta ho potuto dare una risposta piena di fraternità: Iunussa Ɗaɗi. Ora sto ritornando a piedi alla mia capanna accompagnando l’inseparabile bicicletta che quasi giornalmente buco per le tante spine che ci sono sul terreno, ma rese invisibili per la sabbia; loro sono là e zac la foratura è fatta. Devo però anche dire che i copertoni sono un po’ come la carta velina, la loro consistenza è apparente, poi di fatto non respingono neanche una spinetta. Ibrahim (il bimbo di Buba di quasi 6 anni) mi viene incontro e mi chiama Iunussa. Poi mi domanda: “questa sera mangiamo spaghetti?” Gli occhi gli brillano al solo pensiero. Lo prendo per mano poi lo metto sulla sella della bici e guardandoci negli occhi gli rispondo: “spaghetti ɗuuɗi (tanti)”. Lui ride contento e io penso di cominciare a “conoscere” Nazareth per questa vita “nascosta” che mi è donata. Mi sembra che sia proprio questo di cui avevo bisogno: riscoprire il valore della vita “nascosta” di ognuno per saperla apprezzare e così rompere in me stesso quelle distanze costruite apposta per impedire di condividere ricchezze, affetto, scoperte scientifiche, fraternità etc. etc. Con affetto a tutti voi don Hervé Iunussa in particolare:
a Vittorio che oggi compie gli anni e agli amici che hanno saputo aprire la loro casa non solo ai figli, ma al prossimo accogliendone anche le “fatiche” che la gioia della comunione domanda.