“Avrei avuto l’opportunità di conoscere il nome della spia che favorì la nostra cattura, ma non ho voluto saperlo, ritenendo inutile perpetrare quella catena d’odio, memore degli insegnamenti dei miei genitori”. Questa frase, densa di significato, è di Carlo Metelerkamp, ex partigiano, conosciuto con il nome di Pupo, che ha operato nella nostra zona. La sua testimonianza, preziosissima, finora inedita, va ad arricchire il panorama di quei giovani che scelsero di opporsi ai nazifascisti, a rischio della vita. “Ero molto amico di Carlo Dolcetta, il cui padre, direttore generale della Banca Commerciale, abitava in una villa accanto ai Miogni. Assieme, avevamo frequentato il ginnasio, il liceo, giocavamo a tennis, pattinavamo. Lui aveva contatto con il partito liberale che in quel periodo, per la verità, non aveva alcun peso”. Fu così costituito il Battaglione Italia, formato da un numero esiguo di giovani che si erano prefissi di prepararsi per la liberazione, recuperando il maggior numero di armi possibile. “Le azioni erano decise tra noi – spiega Pupo – Ricordo ancora il viso di un anziano repubblichino al quale ad Arcisate, puntandogli una pistola ai reni, riuscimmo a sottrarre un mitra”. Sorride ricordando che non bastava il cappotto a nascondere l’arma: fuoriusciva la punta, ma non si poteva fare altrimenti. “Tutte le nostre azioni avvenivano così: non uccidemmo mai nessuno”. Finché giunse la notte della loro cattura a Comerio, il 19 aprile 1945: a causa di una “soffiata”, il gruppo Zeta della Brigata Nera “Dante Gervasini”, li bloccò lungo la strada, colpì al fegato il giovane Emilio Ossola, che tentò di scappare e mentre il ferito venne lasciato sul camion, Pupo fu torturato. Rilasciato dai suoi stessi aguzzini il 24 aprile, raggiunse la casa dell’amico Dolcetta dove aveva avuto sede il comando della Wehrmacht e l’indomani, giorno della Liberazione, sfilò per Varese, con la fascia tricolore al braccio che definiva il suo ruolo di capo del Battaglione Italia. Accanto, la sorella Pupa, Ettore Grandis, varesino, ingegnere e Giancarlo Illiprandi, il celebre maestro di design, recentemente scomparso. “Fu più che altro una liberazione intima – ricorda – finalmente non esistevano più posti di blocco, finalmente si poteva circolare. Era comunque un marasma completo, una confusione generale. I fascisti non sapevano dove scappare”. Il 27 maggio successivo alle ore 9,30 nella chiesa parrocchiale di Comerio, gremita, furono celebrate le esequie di Emilio Ossola, deceduto in ospedale. Fu Pupo, come amico e comandante a commemorarlo. Nove giorni dopo all’albergo Bel Sit, assieme ad amici, organizzò “una veglia danzante all’aperto”, dalle ore 21 alle ore 5 il cui incasso era devoluto al “Comitato Comunale di assistenza pro ex-internati”. La sua testimonianza spazia anche oltre l’esperienza partigiana: grazie alla formazione pacifista, voluta dal padre Herman, pittore, e dalla madre, giornalista di origine tedesca, che aveva provato sulla sua pelle la fame dopo la prima guerra mondiale, sapeva che cosa era la solidarietà: ospitò al Cugnolo, dopo il 1943, un giovane reggiano renitente alla leva e lo accompagnò alla sua casa di Rivalta, in bicicletta, forte del fatto che la lingua parlata in famiglia fosse il tedesco. E sempre grazie a questo fatto, dopo esperienze quasi rocambolesche, riuscì a far sì che la caduta di un aereo tedesco in una vigna, senza nessun morto, si tramutasse per i contadini nel possesso di una preziosissima damigiana di benzina.
Federica Lucchini
A sinistra in piedi un partigiano soprannominato Stelvio, Piero Ardenti, Metelerkamp
Seduto Sergio Favre, architetto,e un partigiano chiamato Bubi.