GIUSEPPE SARONNI: L’ASSO DEL CICLISMO CHE HA FATTO SOGNARE L’ITALIA
Giuseppe Saronni in maglia rosa al Giro d’Italia
Per molti anni il campionissimo delle centonovantaquattro vittorie si è allenato con l’indimenticabile compagno e amico Miro Panizza, tra le suggestive bellezze delle Prealpi lombarde, nella terra del grandissimo Alfredo Binda. Un amore profondo quello di Saronni per il Cuvignone, il Brinzio, Marzio, il Sacro Monte di Varese e per tutte quelle salite che s’incontrano nelle verdi valli varesine, a ridosso del lago Maggiore. Un amore che si è concretizzato con l’abitazione di Besozzo e con l’amicizia con vecchi compagni di corsa come Silvano Contini e Luigi Botteon, con i quali condivide ancora oggi salutari passeggiate in bici, proprio dove un tempo l’agonismo della corsa metteva a dura prova la tensione muscolare e la concentrazione del campione.
Giuseppe Saronni un predestinato? Sicuramente un figlio d’arte, uno che ha respirato fin da sempre il sapore esilarante dell’agonismo. Un padre con la passione della bici, una madre giocatrice di basket, due fratelli innamorati anch’essi del ciclismo e praticanti, un feeling naturale con la sfida. Per il giovanissimo Giuseppe Saronni la pista diventa il palcoscenico naturale. A 15 anni è già passione. E’ un vincente. Lo è per le sue doti fisiche, ma lo è soprattutto per la sua intelligenza. E’ uno che impara alla svelta, non ha bisogno di troppe lezioni per rendersi conto che il ciclismo può dare molte soddisfazioni e che essere ciclisti significa prima di tutto avere una visione chiara di quello che si è e di chi si vuole diventare. Consegue un’infinita serie di vittorie sulle piste in cemento di Varese, del Palasport, del Vigorelli e di Busto Garolfo. A 17 anni diventa campione europeo juniores, vince due medaglie d’oro ai Giochi del Mediterraneo,vince sistematicamente nella velocità e nell’inseguimento, è chiamato a rappresentare l’Italia ai Mondiali di Montreal, da dilettante vince cinquantasette volte su strada e più di cento volte su pista. E’ un atleta dotato di una classe naturale e soprattutto si sa gestire. Ha una visione chiara di quale sia la sua vocazione e di cosa voglia ottenere dalla vita. E’ uomo con la testa sulle spalle prima ancora di essere atleta e campione, sa come distribuire i tesori che madre natura gli ha consegnato. A diciannove anni e mezzo ottiene il passaggio al professionismo. E’ giovanissimo, ma ha cuore e cervello per dimostrare chi è anche nelle corse in linea. Capita che i passaggi possano essere traumatici, che richiedano tempo e pazienza. Beppe Saronni non ha bisogno di tempi lunghi, ha una mente viva, molto attenta, sa prendere le misure, capisce gli avversari e soprattutto intuisce al volo come, quando, dove e perché. E’ uno che non si lascia intimorire, che sa stare al gioco, che non si lascia prevaricare, doti che dimostrerà sempre, anche nella futura carriera direttiva. Non ama le esagerazioni, usa le parole con parsimonia, controbatte, mette i puntini sulle i, ma con il buon senso di chi ricorre all’ironia senza cadere nel sarcasmo. Il campione della pista diventa anche campione su strada e insieme a Francesco Moser, suo grande rivale, accende la passione popolare degl’italiani. Due uomini molto diversi tra loro, due caratteri tenaci, forgiati nelle officine degli dei, abituati alla puntualità e al sacrificio, coscienti del ruolo che madre natura ha riservato loro. Francesco un trentino tutto d’un pezzo, abituato alla vita dei campi, un gran fisico, ma anche dotato di una bella dose di intelligenza tattica e di carattere. Beppe un uomo e un atleta capace di dare sempre il massimo, soprattutto quando l’avversario crede di averlo in pugno. Un talento naturale capace di bruciare le tappe di una carriera splendida, senza perdersi per strada, senza lasciarsi irretire dal solito antagonismo di maniera. Due campioni che danno vita a un sano duello all’italiana, creando entusiasmo e passione, lasciando nel cuore degli sportivi una desiderata voglia d’ilarità. Beppe è più giovane, ma ha un impianto caratteriale molto solido, sa stare al gioco anche quando questo si fa duro, sa difendersi e contrattaccare, con quella fierezza che lo fa amare, anche da chi si posiziona su sponde opposte. E’ un uomo con le idee chiare, lo è sempre stato, anche quando pur di dimostrare la sua giovanile autorevolezza lavorava in pasticceria o quando, riabilitando il valore dei libri, decideva di diventare un bravo elettrotecnico, approdando alla Olivetti. Sa prendere la vita di petto quando è il momento, ma sa anche concedersi il lusso di riconoscere il valore altrui. Ci sono momenti in cui taglia sempre per primo il traguardo, il suo è un appuntamento quasi quotidiano con la vittoria, ma non per questo la sua caparbietà crea assuefazione, ai tifosi e non solo piace così quel ragazzo che sprinta sulle strade del mondo come se fosse sparato dalla bocca di un cannone. Non c’è solo Francesco che lo aspetta al varco, ci sono fior di campioni che attendono solo il momento di batterlo, di dimostrare che anche un campione come lui può subire l’onta della sconfitta. Battere Saronni tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta è molto difficile, se non impossibile, la sua forza muscolare e quella agonistica sono una miccia incendiaria, alimentata da un rarissimo intuito tattico che lo rende imprendibile. 194 corse vinte in carriera, 85 frazioni di corse a tappe (24 al Giro) e 49 circuiti, un palmarés da sogno, vissuto con l’orgoglio di chi dà sempre tutto. Tra l’82 e l’83 vince Sanremo, Giro, Mondiale, Lombardia, diventando il corridore della fucilata di Goodwood, il ciclista italiano che infiamma i circuiti mondiali in ogni parte del pianeta. Beppe Saronni è uno dei grandi dello sport italiano e lo è ancora oggi nella sua veste dirigenziale. Dal 2005 è infatti Team manager della UAE Team Emirates (già Lampre). Non è cambiato. Le parole sono sempre poche e molto misurate, l’atteggiamento è quello compassato del professionista serio, attento a non andare mai oltre misura. La sua, è la puntualità di un’intelligenza dal volto umano, che si porta dietro da sempre, fin da quando da ragazzino sognava di diventare un campione, battendo i grandi della pista nelle arene di mezzo mondo.
IL PALMARES DEL CAMPIONE
Inizia la sua carriera professionistica a diciannove anni e mezzo, vestendo la casacca della Scic, la squadra diretta da Carlo Chiappano. Debutta nel Trofeo Laigueglia il 23 febbraio 1977 e si classifica secondo dietro il belga Freddy Maertens. Il 29 marzo dello stesso anno coglie il suo primo successo nel Trofeo Pantalica. Nella stessa stagione conquista la Tre Valli Varesine e il Giro del Veneto. Viene convocato in Nazionale per i Campionati del Mondo di S. Cristobal. Nel 1978 vince la Tirreno Adriatico, Il Giro di Puglia e tre tappe al Giro d’Italia, dove conquista il quinto posto in classifica generale. E’ secondo alla Milano Sanremo, battuto in volata da Roger De Vlaeminik e quarto ai Campionati del Mondo del Nurburgring. Nel 1979, a ventuno anni e otto mesi si aggiudica la classifica generale al Giro d’Italia. Vince il campionato di Zurigo, il Giro di Romandia, il Gran Prix du Midi Libre e si aggiudica il Trofeo Baracchi in coppia con Francesco Moser. Nel 1980 passa alla Gis Gelati e vince la Freccia Vallona, sette tappe al Giro d’Italia, è medaglia d’argento ai Campionati del Mondo di Praga, conquista diverse vittorie nelle classiche del calendario e il bronzo mondiale di BRNO. Nel 1982 corre per la Del Tongo Colnago e vince la Milano Torino, la Tirreno Adriatico, il Giro del Trentino, il Giro della Svizzera, è sesto al Giro d’Italia, vince il Campionato del Mondo di Goodwood e il Giro di Lombardia. Nel 1983 vince la Milano Sanremo e il Giro d’Italia. Nel 1985 vince due tappe al Giro. Nel 1986 è secondo al Giro d’Italia e terzo ai Campionati del Mondo di Colorado Springs, vince la Milano Vignola. Nel 1988 vince il Giro di Puglia e la Tre valli Varesine. Saronni è uno dei ciclisti italiani che ha vinto di più, imponendosi in pista, su strada, nelle classiche e nei Giri, dimostrando straordinarie doti atletiche, umane e sportive. Bravissimo come atleta, si è dimostrato anche ottimo Team manager, portando le squadre da lui dirette, a imporsi nei traguardi più ambiti e significativi della scena nazionale, europea e mondiale.
GINO BARTALI, UN FULGIDO ESEMPIO DI ITALIANITA’
Gino Bartali è stato grande non solo perché ha dimostrato sul campo le sue qualità atletiche, ma perché dentro quel suo innegabile tesoro coltivava il rispetto di una condizione umana che aveva bisogno di aiuto per affermare valori come la giustizia, la legalità, la libertà, il rispetto, la generosità, l’altruismo, l’amore per la vita. Il grande Gino schiacciava gli avversari nella morsa della sconfitta, ma contemporaneamente apriva le porte della speranza a chi era perseguitato. Non è stato solo il campione dei due Tour de France, dei tre Giri d’Italia, delle quattro Milano Sanremo, dei tre Giri di Lombardia, delle quattro maglie di campione d’Italia e delle centinaia di corse vinte sui traguardi di tutto il mondo, non è stato solo l’atleta che seminava gli avversari sulle grandi salite, che si cimentava con Fausto Coppi in sfide titaniche, ma soprattutto l’uomo che sapeva svestire gli abiti del trionfo, per indossare quelli della persona cosciente di quanto fosse bello e importante difendere il valore della vita umana, sfidando la morte. Ci sono immagini di Gino che sono simboliche ed emblematiche, come quella sul col di Galibier, nel Tour del 1952, quando passava la borraccia a Fausto Coppi, dimostrando che l’amicizia va ben oltre l’antagonismo, poi c’è quella dello sport che salva vite umane, lo sport che si batte per stemperare odi e rivalse, regalando di nuovo la forza del sorriso. L’immagine di Gino è quella di uno sportivo che si trasforma in collante di umanità, di gioia ritrovata, di rispetto e di democrazia. Parlare di Bartali è come andare alle origini della nostra storia, scoprire quello che il ciclismo ha saputo offrire non solo sul piano delle vittorie personali e dei trionfi, ma per la sua capacità di saper risollevare il cuore della gente regalando emozioni, una gran voglia di vivere, soprattutto quando il clima diventa aspro e inospitale. Con Gino Bartali l’Italia ritrova la sua fiducia, la sua capacità di saper interpretare la voglia di sognare della gente comune, si lascia condurre per mano da un campione toscano tenace, schietto e generoso, che sa interpretare al meglio il desiderio di un popolo di cancellare le tristezze del passato, riscoprendo la bellezza e la gran voglia di un riscatto morale, sociale, politico, economico e religioso che riguarda tutti, anche ci la pensa diversamente da noi.
RAYMOND POULIDOR, IL CAMPIONE RIVALE DI FELICE GIMONDI AL TOUR DE FRANCE DEL 1965
Dopo Felice Gimondi, un altro campione se n’è andato, se n’è andato poco tempo dopo chi lo aveva sconfitto al Tour de France del 1965, uno tra i più combattuti e i più belli del dopoguerra. Gimondi e Poulidor, due assi di un ciclismo deciso a risollevare lo spirito di uno sport che aveva toccato i vertici con Bartali e Coppi, per poi adagiarsi ad attendere che qualche nuovo atleta tornasse a entusiasmare. Poulidor – Gimondi, fianco a fianco nelle crono, nei grandi giri, sulle grandi montagne ammantate di attese e di speranze. Due fantastici combattenti decisi a rallegrare l’animo di tifosi in cerca di emozioni da ricevere e da regalare, una coppia fortissima che non si piega e non si dà mai per vinta. Forte, pignolo e ostinato l’uno, determinato, forte e molto dotato tecnicamente l’altro, entrambi rappresentanti di un ciclismo che si concedeva poco alle quisquiglie, molto attenti a far risaltare le qualità umane, prima ancora di quelle atletiche. Felice Gimondi, un bergamasco combattente, capace di non deludere mai, lucido e calcolatore, uno che non si concedeva smancerie, che guardava dritto in faccia la realtà per non perderla mai di vista, neppure quando questa avrebbe voluto concedersi momenti di riflessivo attendismo. Raymond Poulidor, l’eterno secondo del ciclismo francese, l’atleta che non mollava mai, un viso aperto e simpatico, un’aria ruvida e tenace di chi sapeva di valere, di poter competere con i più grandi, ai quali ogni tanto strappava la gioia struggente della vittoria, in particolare a quel Jaques Anquetil sempre splendido per la sua bellezza atletica e per quel suo legame indissolubile con la vittoria al Tour, nei grandi giri e nelle grandi classiche. Gimondi e Poulidor, due campioni che si giocavano metro dopo metro la possibilità di uscire allo scoperto per dimostrare la bellezza di uno sport popolare, amato dalla gente comune, quella che attende i suoi campioni ai bordi delle strade, sui versanti delle colline e sulle grandi salite, dove spesso la forza individuale prevale sulla sfortuna e regala impennate di adreanalina allo stato puro. Al ciclismo hanno dato tantissimo, non si sono mai tirati indietro, hanno insegnato il valore del sacrificio, dell’impegno, del non darsi mai per vinti, del saper lottare ad armi pari ovunque, mettendo davanti a tutto il valore umano della loro ricchezza. Se ne sono andati uno dopo l’altro, come se dovessero di nuovo essere alla partenza di una grande classica o di un nuovo giro, lasciando un vuoto in tutti coloro che li hanno amati e seguiti nelle loro straordinarie performance e nelle loro attività, mantenendo sempre un rapporto di profonda onestà con quel pubblico che non ha mai smesso di amarli per come hanno vissuto il loro impegno umano, morale e sportivo nel mondo delle bici da corsa.