Un manifesto della scuola Bosina di Varese recita così: «Gli uomini sono come gli alberi, se non hanno radici sono come foglie al vento e i bambini sono come i semi che devono trovare il nutrimento dalla [sic] terra in cui vivono per divenire querce secolari, di quelle che affrontano le tempeste della vita rimanendo salde [sic] al terreno».
Questa inaccettabile metafora quercofila mostra la goffa insipienza culturale di chi vuole inculcare ai bambini l’idea che senza radici si è come “foglie al vento”, lasciando implicitamente intendere che chi è nato e vissuto in un certo luogo è un essere superiore, mentre chi approda da altri luoghi non è all’altezza perché non ha radici!
E smettiamola! Cose che appartengono ad un passato per fortuna lontano. Con queste idee incancrenite nella zucca abbiamo già messo alle spalle parecchie “accoglienze“ di cui vergognarci e ne stiamo gestendo un’altra (extra-comunitari) in modo inadeguato. Vero che Il vedersi sotto casa i volti, le lingue e i costumi degli immigrati acuisce, in tanti, questa sensazione, ma altrettanto vero che Il “diverso”, nella storia passata, ha portato sempre qualcosa di positivo.
Durante gli anni ‘30 cominciarono ad arrivare da noi i primi villeggianti, quasi tutti da Milano. Furono accolti con grande circospezione: trattati con diffidenza, la gente del paese non perdeva occasione per criticare i loro modi e possibilmente irriderli.
A me bambino avevano insegnato una filastrocca che recitava così: “Milanees pestascees / vann in Gesa a dees a dees / vegnen föra duu a duu / cunt i man dedrè dul cuu”.
“Papà quel signore è milanese?”. “Si!”
Allora sottovoce … “Milanees pestascees / van in Gesa a dees a dees / vegnen föra duu a duu / cunt i man dedrè dul cuu”.
Mi era concesso. AnzI: diventava un fatto culturale, quasi venivo educato in tal senso.
Papà non aveva da ridire perché a Caldana i “padroni” eravamo noi e loro erano solo degli intrusi senza averne titolo (e pensare che portavano notevoli vantaggi economici!).
Figurarsi quando poi arrivarono in paese i meridionali. Questi non venivano da Busto o da Milano; questi provenivano addirittura da Ciapani e da Piezza Armerina!
Se ci chiedevano la casa in affitto, inventavamo scuse, se ci chiedevano un posto di lavoro, aprivamo desolatamente le braccia.
Il Sud era per noi un mondo estraneo e incomprensibile. Ci vollero parecchi anni prima che il paese abbassasse la guardia nei loro confronti. Ora incominciamo ad apprezzarne le doti, ma solo una ventina di anni fa, quando una ragazza faceva sapere in famiglia di essersi fidanzata, il papà regolarmente chiedeva: “Sarà mia un terun?”. A risposta negativa, tirava il fiato.
Fin qui atteggiamenti vergognosi e basta, ma la situazione talvolta può anche degenerare e allora dobbiamo stare molto attenti. Pensate alla drammaticità delle guerre combattute per questioni identitarie. Fino a toccare livelli inumani: nelle regioni dell’Africa sub-sahariana, si arriva a difendere pratiche di mutilazione femminile in quanto connesse con le radici dei popoli che abitano quelle aree.
Significa, allora, che le radici meglio lasciarle da parte?
No, e del resto sarebbe ben strano che una negazione della tradizione venisse proprio dal direttore di una rivista come Menta e Rosmarino. Tuttavia appare indispensabile farne un uso assennato; chi è onesto intellettualmente, dovrebbe difendere questi valori in quanto tali, in quanto facenti parte della sua storia, dovrebbe dare loro dignità storica, farne memoria, non certo utilizzarli come pretesto per odiare e separare. (Ap)