Teologo e “maggiordomo d’anticamera”. In Marco Vergottini, a lungo stretto collaboratore del cardinale Carlo Maria Martini, queste due ruoli si armonizzarono felicemente nel 1984 durante la visita pastorale a Gavirate dello stesso arcivescovo. Visita durata parecchi giorni. È interessante ascoltare la testimonianza dello studioso, autore e curatore di diversi saggi sulla figura del prelato. Il loro rapporto fu da subito stretto quando l’allora parroco di Gavirate, don Tiziano Arioli, diede alloggio a Martini nella casa attigua alla chiesa e assegnò l’incarico così particolare all’allora giovane insegnante. “Al mattino facevo colazione con lui e lo aspettavo al suo rientro. Potemmo così fare conoscenza -ricorda- Era colpito dal suono della campanella del trenino delle Nord, adiacenti, che frenava e poi ripartiva in direzione di Milano o di Laveno. Si sorprese che nelle classi delle scuole superiori, io e mia moglie proponessimo lo studio dei vangeli. Tenne una lezione di religione sulla parabola dei vignaioli omicidi e si congedò dalla professoressa Vergottini. Mia moglie abbozzò, ma subito replicò: “Io sono Angela Lischetti”. La risposta lo divertì molto. A distanza di anni continuò a ripetermi: “Quando vai a casa, mi raccomando, salutami la professoressa Lischetti!”. Aveva dunque una memoria di ferro? “Assolutamente sì, ed era anche un grande fisionomista. Una sera incontrò a Voltorre il falegname Dante Ossola che era fra i membri del Consiglio pastorale della parrocchia –risponde Vergottini- Qualche giorno dopo lo rivide incontrando il consiglio comunale e subito gli disse: “Noi due ci siamo già presentati”. Quando Vergottini divenne segretario del Consiglio pastorale diocesano -carica che ricoprì per 18 anni- osò suggerire che tra i preti diocesani uno meritava di essere valorizzato. Si trattava di don Giovanni Giudici. Ogni volta che mons. Giudici veniva promosso a nuovo incarico, Martini si rivolgeva a Vergottini in questi termini: “Ho pensato a te. Guarda che talora i pastori ascoltano i consigli buoni dei laici”. A proposito di “consigliare” come “arcivescovo” si comportava nel Consiglio pastorale della diocesi? “Seguiva con interesse i “consigli” dei 150 membri -risponde- A tal punto che in 22 anni furono ben 100 le sessioni del Consiglio. Tutti volevano ascoltare le parole dell’Arcivescovo, ma lui ribatteva: “Sono io che devo ascoltare voi e non viceversa”. Asseriva poi di preferire gli interventi critici verso di lui o verso la Curia, rispetto agli elogi nei suoi confronti. “Da questi ultimi non ho niente da imparare -diceva- Rischiano di farmi inorgoglire e questo non è cosa buona”. Come era il suo rapporto con lui che era così elevato, quasi ieratico? “Per diverso tempo con molto timore e deferenza, poi il rapporto divenne più famigliare e sciolto, tanto che non si fece scrupoli di parlarmi della sua malattia incipiente e delle cure. All’inizio del Duemila, lo interrogai a bruciapelo sulla malattia del Parkinson che ormai si palesava sempre più. Lo rimproverai perché si faceva curare da un anziano neurologo, mentre era necessario ricorresse a un luminare della scienza medica. Lasciò cadere il discorso -continua Vergottini- ma qualche tempo dopo il suo segretario personale mi telefonò a casa chiedendomi di stilare una rosa dei più accreditati studiosi del Parkinson nel nostro Paese. Obiettai che sapevo di teologia, non di malattie neurologiche. “Non so che dirti -ribatté il segretario. Fai quanto ti viene richiesto”. Con l’aiuto dell’amico medico varesino Giuseppe Ramponi, consegnai a breve un elenco di esperti neurologi, segnalando la formazione e le specialità in cui eccellevano. Seppi poi -conclude Vergottini- che la scelta era caduta sul prof. Gianni Pezzoli, presidente dell’Associazione italiana parkinsoniani. Il suo nome era nella lista”.
Federica Lucchini
< Intervista pubblicata su “La Prealpina” (11.01.25 pag.34) .