Tu chino a scalfire la lastra
– un muro che ti sta davanti
una spugna che assorbe, che
solidifica le tue affezionate paure –
Tu che premi con la forza dei disperati
– basterebbe una breccia, una luce
in spiraglio – Ma la lastra resiste,
non può fare altrimenti essa
deve consegnare alla storia il tuo morso
deve partecipare al tuo trionfo postumo
(Romano Oldrini)
“Chi ama le incisioni – scriveva il grande Luigi Bartolini – non può essere un tizio banalone qualsiasi già innamoricchiatosi dei vistosi colori di certi quadroni”. Poi ancora “il chiasso del colore, l’isterica femminilità del colore [..], il fazzoletto da naso o da collo (coloratissimi) sono cose che possono piacere agli zulù. A essi non piacerà mai un’acquaforte di Rembrandt perché mai sapranno leggerla, perché per leggerla occorre essere sottili…”. Sottili, ecco! Chi bussa alla porta della “Bottega dei Costantini” non può essere un “banalone qualsiasi”, ma deve possedere un animo “sottile” perché lì non troverà mai i prodotti consumistici cui il nostro tempo ci ha malauguratamente abituati, ma scoprirà una realtà di nicchia composta da antichi e raffinati saperi. Questa mostra è l’occasione per offrire al pubblico questi e altre preziosità nascoste, e mi riferisco alle incisioni di Marco, Pietro, Lena Costantini e alle porcellane della “Bottega”.
Durante il secolo scorso sono stati pochi coloro che si sono cimentati nel campo dell’incisione con perizia ed efficacia: a Bologna Morandi, maestro insuperato, nelle Marche Bartolini e Castellani, in Toscana c’erano Fattori e Viviani, in Veneto Barbisan, in Piemonte c’erano Bozzetti e Calandri.
In provincia di Varese, un artista incisore svettava su tutti: Marco Costantini.
Mi perdonino i critici autorevolmente qualificati in materia se mi permetto di affermare che, per finezza di tratto, squisitezza tecnica, suggestione poetica, alcuni bulini di Costantini non cedono di un sol punto alle incisioni dei “grandi” di cui sopra. Soltanto la sua storica ritrosia e l’ambiente provinciale gli hanno impedito di assurgere a una maggiore notorietà.
Ora non voglio certo affermare che Costantini sia uno sconosciuto o un dimenticato; gli inviti a grosse mostre nazionali e internazionali non gli sono mai mancate – è stato tra l’altro anche alla Biennale di Venezia – e le sue incisioni sono state sul principale catalogo di grafica (Prandi); sono tuttavia dell’avviso che avrebbe meritato ben altri riconoscimenti.
Nella mostra di Villa Fumagalli, tra le sue opere esposte si possono per altro distinguere due indirizzi: quello legato alle emozioni che gli derivano dal vero, dai paesaggi che si impongono sulla lastra con l’energia della loro bellezza e con l’intensità severa delle loro linee; e quello più interiore collegato ai ricordi del suo passato: sono soggetti a cui pensa, di cui fantastica, dei quali ha come dentro di sé un’impronta indelebile che risale ai tempi della sua giovinezza.
In entrambi i casi si può però riconoscere quell’unità poetica che lo rende inconfondibile al tratto. Nelle sale dell’esposizione incontriamo poi anche alcuni lavori all’acquaforte di Pietro Costantini, realizzati in giovanissima età. Purtroppo il Padreterno non ha concesso a Pietro il tempo necessario per esprimersi al meglio; tuttavia anche queste opere degli inizi rappresentano una promettente testimonianza.
Lena Costantini invece fissa con tratti sapienti tutta la soleggiata armonia delle sue carte calcografiche seguendo, con uno stile totalmente diverso, la strada maestra del padre.
Inoltre, con l’aiuto di Franco e Serena, rispettivamente marito e figlia, continua una tradizione ceramica che appartiene anch’essa a questa famiglia di artisti. E pure in questo settore le opere sono riservate a palati fini: la porcellana non viene decorata con le usuali decalcomanie, ma utilizzando una tecnica, chiamata “incisa oro zecchino”, tanto antica quanto nobile, rispolverata da Marco Costantini e che ebbe i suoi sviluppi nel primo Ottocento inglese.
Questa lavorazione esige una serie di passaggi e viene eseguita solo su porcellana finissima; si utilizzano lastre di metallo incise e, con un’attenta morsura all’acido, si arriva a scavare lo smalto. Si fa poi risaltare in oro lo scavo così ottenuto, con doppia cottura in forno e successiva sabbiatura e brunitura con pietre d’agata. Si tratta di una lavorazione molto lunga e di notevole difficoltà realizzativa che la “Bottega” sa condurre con grande perizia. I risultati sono di notevole effetto: porcellane che sembrano venute al mondo con una meravigliosa patina di secoli addosso e che possiedono tutte le credenziali per non invecchiare mai.
Di fronte alla raffinatezza del tutto il visitatore non potrà rimanere indifferente e cullerà nell’animo un impalpabile piacere. “Sottile”, per l’appunto.
Alberto Palazzi