“Tutte le notti, prima di addormentarmi, il pensiero va a quel mio commilitone che, la mattina del 20 dicembre 1943, giorno del mio ventesimo compleanno, nel campo di prigionia vicino a Essen in Germania, mi aveva salutato, già molto debilitato, sporgendo con la testa e la sera non lo ritrovai più. Un male morale, oltre che fisico, colpiva in modo particolare i padri di famiglia, che temevano di non rivedere i loro figli”. Nildo Mòsele, classe 1923, asiaghese di nascita, è l’ultimo reduce della seconda guerra mondiale di Gavirate. Alpino del Battaglione Intra, 4° Reggimento, 7^ Compagnia (“la “di Dio”, come veniva chiamata, mentre la 24^ era conosciuta come la “di corsa” e la 37^ la “nobile”, ricorda) ha vissuto nel Montenegro l’ultimo giorno di vita del suo Battaglione, “magnifico e un po’ corsaro”, come lo definisce, mai più ricostituito. E’ stato amico dello scrittore Mario Rigoni Stern, autore de “Il sergente nella neve”, con cui ha passato diverso tempo durante le estati nel paese natale. Oltre che essere compaesani, avevano molte esperienze in comune. “Ci vedevamo tutti i giorni in casa sua, qualche volta nel suo giardino o nel suo frutteto a parlare di tanti argomenti comuni”, afferma. Ha un ricordo vivo della resa dell’Intra il 10 ottobre del 1943 e dell’inizio del lungo cammino dei prigionieri verso le Bocche di Cattaro. “A una fermata della colonna, mentre in lontananza si vedeva il mare, Giovanni Brunella, alpino della 37^, che da ore mi era davanti, si fermò, appoggiato a un muretto -lo vedo come se fosse ora- e mi disse con tristezza: “Oggi è la festa della Madonna del rosario al mio paese, Bardello”. Eravamo tristi, in silenzio, ma ci sorreggeva la convinzione che a Natale tutto sarebbe finito. Fummo caricati su carri bestiame in numero di 54 per ogni vagone e iniziò il lungo viaggio durato 15 giorni verso la prigionia. Il 28 ottobre fummo scaricati alla stazione di Mappen, in territorio olandese -continua- accolti dalla popolazione con sputi, insulti e grida: “Badogliani, traditori!”. Ebbi, però, una fortuna: essere assegnato alla squadra di pronto intervento di una fabbrica, assieme a due russi, due ucraini, uno slavo e due tedeschi prigionieri. Questa appartenenza significava un minor controllo. Fui subito messo al corrente di un piano segreto che comportava la preparazione di una scala multipla alta 4 metri. Finita, fu appoggiata al muro di cinta che divideva la fabbrica dalla ferrovia: vi salirono i russi e quando transitò un treno merci si spinsero su un vagone e scaricarono una decina di sacchi di patate, che subito furono fatti sparire. Era un accordo tacito, tra il macchinista che guidava a passo d’uomo e i prigionieri. Questo avveniva un giorno alla settimana. Così quotidianamente un russo mi consegnava cinque patate che infilate in un apposito ferro abbrustolivo sulla stufa. Per tutto il 1944 anche altri italiani ebbero questo beneficio, senza mai essere scoperti. Fu questo che ci diede la forza di rimanere in vita. Quando fummo liberati espressi ai nostri salvatori la mia più sincera gratitudine. Con il commilitone e amico gaviratese Gianangelo Micheloni fu liberato dagli americani il mercoledì 28 marzo 1945. Tornò a Gavirate nella sua casa di Fignano la mezzanotte del sabato 19 ottobre. Di quel momento ricorda solo le lacrime di gioia.
Federica Lucchini