LO STUDIO E’ ANCORA IMPORTANTE?
di felice magnani
Nelle famiglie povere di una volta lo studio era visto come l’unica via d’uscita, la possibilità di emanciparsi dall’ignoranza, di guardare a un futuro più bello, gioioso, fatto di riscatti e gratificazioni. In molti casi i genitori facevano sacrifici per permettere ai figli di fare un passo avanti, di entrare nella gerarchia sociale, di poter contare, di non diventare vittime designate della protervia altrui. La vita aveva un costo piuttosto elevato, mantenere un figlio o una figlia a scuola significava spendere tutto, privarsi di qualche piccolo beneficio, bisognava soprattutto saper rinunciare. La gente era abbastanza abituata alla rinuncia, sapeva che al sacrificio degli uni corrispondeva la vittoria degli altri, era consapevole che bisognava pagare uno scotto e che diventava indispensabile investire sul futuro dei figli, la famiglia diventava così il perno attorno al quale si edificava lo spirito collettivo e non solo. Tutto è andato avanti tra mille difficoltà, fino a quando la scuola è diventata obbligatoria e le condizioni sono un pochino migliorate per le famiglie stesse. L’industrializzazione del paese ha consentito dei passi in avanti sul piano dello stato sociale, si è passati da una scuola di élite a una scuola aperta tutti, dove il popolo poteva realizzare il sogno di poter diventare qualcuno. Lo studio diventava certezza di democrazia vera, dove a ciascuno veniva riconosciuto il diritto di proseguire sulla via del benessere sociale. In molti casi però era considerato il “pezzo di carta”, il documento da esibire per concorrere al posto di lavoro, per far cadere le barriere dell’antagonismo e quelle del conflitto sociale. Uno studio così concepito rimaneva un bene circoscritto, utile sì, ma privato della sua sostanza speculativa, della sua volontà di affermarsi attraverso l’impegno intellettuale delle persone. Spesso tra studio e lavoro non c’era corrispondenza, coesione, si studiava per il pezzo di carta, ma senza la convinzione che sarebbe stato qualificante, che avrebbe potuto avere una sua configurazione naturale. Le élite di fatto rimanevano tali e la perpetuazione del potere passava nella maggior parte dei casi attraverso un titolo di studio gestito da chi possedeva la ricchezza materiale per poterlo manifestare. Erano tempi in cui iscriversi all’università era un’impresa da ricchi, solo i ricchi potevano farlo in virtù di una continuità gerarchica, di famiglie che avendo patrimoni alle spalle potevano permettere ai loro figli la frequentazione degli anni universitari, durante i quali non era possibile avviare iniziative legate al mondo del lavoro. L’idea dello studente lavoratore era ancora lontana, chi studiava doveva studiare e basta, soprattutto nelle famiglie perbene, quelle che godevano della fortuna del destino. Qualcosa si è mosso grazie alle borse di studio e all’indigenza familiare, chi infatti aveva una famiglia non abbiente poteva chiedere un contributo. Investire su studi di lungo termine creava seri problemi a famiglie con problematiche lavorative e finanziarie di una certa consistenza. Solo in pochi casi lo studio assumeva un’identità nuova, quella di essere strumento di formazione educativa della persona, di determinare una linea di condotta, di delineare un ruolo, spesso restava scorciatoia per approdare al tanto sospirato posto di lavoro pulito, quello che garantiva di non sporcarsi le mani, di non ricadere nella polvere della povertà e dell’ignoranza. Tra studio e lavoro non c’è mai stata una sintonia, neppure oggi che le distanze si sono dimezzate e che dovrebbe essere più facile creare una continuità tra mondo della scuola e mondo del lavoro. Purtroppo siamo alle solite, si intraprende uno studio e si finisce per fare un lavoro che non ha nulla a che vedere con quello che si è imparato. Per questa ragione molti studenti sono costretti a migrare all’estero per poter confermare ciò che hanno fatto, per dare continuità agli studi intrapresi, alla loro vocazione. Viviamo in una società che risente moltissimo dei livelli di partenza, della storia delle origini, quando tra studio e lavoro c’era una distanza abissale, una distanza che creava le basi di una conflittualità sociale molto elevata, nella quale le differenze facevano sentire il loro peso. E’ stata una società, la nostra, che non ha saputo far tesoro dell’umanità della sua gente, ha sempre coltivato pubblicamente o in segreto una furbizia assai deleteria, che ha avuto riverberi negativi sulle generazioni e sulla loro emancipazione culturale e sociale. Che il nostro sia un sistema alquanto inefficiente lo si può leggere attraverso la storia attuale, quella che ci dimostra quanto labile sia stata la rivoluzione economica del dopoguerra, legata a varie forme di individualismo e di occasionalismo. La gente era animata da volontà positive che, col tempo, diventavano bandiera di una non ben definita voglia di prevaricazione, di sovrapposizione, di andare per proprio conto, senza neppure ipotizzare che una visione più ampia, guidata e coesa avrebbe consentito una presa di coscienza più dettagliata e profonda della cultura sociale e delle sue possibilità. Abbiamo dato il via libera alla formazione di ideologie e di leadership che col passare del tempo sono diventate vere e proprie prigioni, armi di propaganda e di consolidamento del potere personale, un potere che si è arroccato fino a diventare garante di se stesso e di quei gruppi sociali che lo hanno vincolato al proprio stato. Invece educare a studiare, avviando un sistema di ricerca pianificata e coerente, si è consentito di lasciare allo studio quell’opportunismo scriteriato che lo ha reso globalmente insufficiente, incapace di delineare, di configurare, di ampliare, è rimasto nelle mani di pochi che lo hanno utilizzato per consolidare la propria forza sociale, economica e finanziaria. Lo studio della visione umanistica della vita, improntato a una sempre più umana condizione sociale e morale, si è via via trasformato in una corsa a un benessere indifferenziato, dove il più forte trovava terreno fertile per la propria superiorità e il più debole doveva riattivare la propria incapacità ad adattarsi a un sistema perennemente elitario, dominato da poche famiglie padrone del campo. Ha perso così la sua vocazione democratica, la sua caratterizzazione sociale, si è di nuovo trasformato in una corsa alla superiorità, alla dimostrazione che comandava chi lo univa a un già ben definito benessere individuale. Col passare del tempo sì è cercato di dargli una valenza materialista, legata alla capacità dell’essere umano di utilizzare la propria intelligenza per prevaricare, per sottomettere, per arricchirsi, per arrivare alle leve del potere, per dimostrare che con il potere del denaro si poteva fare tutto e il contrario di tutto, lo si è usato, ma per scopi molto diversi rispetto a quelli ai quali ci aveva cautamente insegnato la nostra Costituzione. Non studio come elevazione sociale delle persone, ma come opportunità personale, individuale di chi poteva con la furbizia sopravanzare il prossimo. Oggi si sente una fortissima mancanza di studio come formazione di un carattere aperto e solidale, capace di contribuire in modo disinteressato al benessere della collettività, che contribuisce a creare una solida coscienza e a formare un’immagine rispettabile della propria condizione. La mancanza di una traduzione sociale dello studio ha contribuito in modo determinante a varie forme di regressione, come ad esempio quella di natura prettamente consumistica, dove l’umanità si è persa nel mare di un materialismo senza frontiere, abbarbicato a un piacere temporaneo, piuttosto che a una presa di coscienza umana e morale. Il problema vero è che c’è stato un risveglio globale della coscienza sociale, un risveglio che sta determinando varie forme di destabilizzazione, al punto che lo stesso studio diventa bisognoso di una revisione, di una ricollocazione, perché non riesce più stare al passo con i tempi. Il fenomeno migratorio, la crisi del lavoro, la mancanza di uno stato sociale serio, capace di individuare e risolvere i problemi della gente, inducono a una radicale revisione del patrimonio storico nazionale, diventato ormai incapace di affrontare i problemi e di fornire delle risposte. L’idea di una cultura basata sulla ereditarietà di un sapere autoctono si dissolve strada facendo e riesce sempre più impellente cercare forme di cultura che riuniscano e arricchiscano l’esser umano da qualsiasi parte del mondo provenga. Si tratta di affrontare un momento storicamente fondamentale per riconsegnare allo studio quella valenza culturale che non si ferma e non si chiude, ma che tende ad abbracciare e a ricercare nuove fonti sulle quali impiantare una cultura di carattere universale, meno soggetta alla sovranità di un potere privo di caratterizzazioni umanitarie e troppo vincolato al proprio egoismo. Dunque lo studio conta, ma ha bisogno di spazi in cui poter dimostrare quanto sia fondamentale aprire il cuore e la mente delle persone, non solo di quelle che godono dei favori del destino. Studiare ha un senso se i valori dell’umanità trovano fonti comuni a cui abbeverarsi, a cui affidare le sorti di un domani che coinvolge sempre di più gli abitanti della terra. Leopardi, Foscolo, Manzoni, Pascoli e d’Annunzio assumono una valenza culturale, sociale e morale universale se le loro storie, i loro racconti e le loro poesie sapranno trasformarsi in cultura della crescita umana. E’ in questa ottica che si muove il nuovo mondo e vivere di rimpianti sarebbe oltremodo disagevole, soprattutto per chi guarda alla cultura come via di libertà e di affrancamento da quelle schiavitù che hanno limitato lo sviluppo della ragione umana, più vincolata a mantenere intatta la propria identità che ad aprirsi a un confronto con quella parte di mondo lasciata per troppo tempo in una sorta di limbo esistenziale.