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Lilly Pesaro – “E in quel silenzio assoluto ho ritrovato mio padre!”

 31 Marzo 2019 |  Pippo | |

“Papà, ti presento mio figlio!”. Dopo decenni dalla morte del padre a Birkenau, avvenuta il 19 gennaio 1945, pochi giorni prima della liberazione del campo di sterminio, Lilly Pesaro, testimone della Shoah, ha sentito la necessità di andare in quel luogo di sofferenza per colmare quell’assenza che la assillava da anni. “E in quel silenzio assoluto ho ritrovato mio padre!”. La dimensione del silenzio, quello profondo più potente della parola, ha caratterizzato anche l’incontro, tenutosi nella biblioteca comunale con la testimone residente a Gallarate, invitata dall’Anpi e dal Comune. Attorno al suo racconto, introdotto dai saluti del sindaco Silvana Alberio, si sono susseguite immagini che hanno fatto memoria della sua infanzia, trascorsa a Genova, dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938 (anno della sua nascita) e soprattutto dopo l’occupazione tedesca. Ognuno dei presenti ha sentito sulla sua pelle il terrore di vivere in una città dove gli ebrei richiamati in sinagoga da una finta promessa furono tutti arrestati e la gratitudine infinita nei confronti della famiglia Valle, che a rischio della vita ospitò ben 11 componenti della famiglia Pesaro. Lilly crebbe tra le bugie d’amore, come le ha definite, che giustificavano l’assenza dei suoi genitori, tra affetto e calore umano. E’ la voce dei testimoni della Shoah che ha una connotazione particolare: esce profonda e sofferta. E chi è presente per ascoltare rivive immedesimandosi. Nessun movimento, solo silenzio perché ognuno dei presenti in sala ha vissuto il terrore di quando i tedeschi sono entrati in casa. Ognuno ha sentito l’odore acre dell’acqua sporca buttata sulla stufa per distrarre la loro attenzione. Ha compreso il senso intenso dell’amicizia, ancora oggi viva, tra la piccola Lilly e il piccolo Leopoldo Valle, nascosti sotto il letto, abbracciati e impauriti. “Lo giuro: non mi chiamo Pesaro, ma Damonti”: Lilly ha fatto memoria velocemente di questa espressione, quasi che a ripeterla rinnovasse il rischio corso quando la disse ad un soldato tedesco che inteneritosi l’aveva presa in braccio, durante l’unica passeggiata in città con i genitori. Il suo cognome era compromettente. Era meglio dire quello della mamma, cattolica. Ma lei, bambina, questo non lo sapeva. Amava sognare di vivere all’aria aperta. Poi la tragedia ha preso il sopravvento: l’arresto del padre in piazza Vittoria, attirato con l’inganno di un possibile lavoro, e della mamma, chiamata alla casa dello studente, sede delle SS, col miraggio della liberazione del marito, dietro consegna di parecchio oro, raccolto tra amici. Una malattia ha salvato la madre, già iscritta nell’elenco dei partenti per Auschwitz. Assieme mamma e figlia, al termine della guerra, il padre inghiottito nell’inferno di Birkenau. Nello scorrere della memoria è emersa la figura di Jacob Sturm, compagno di prigionia del padre. Tra loro una promessa: chi dei due fosse tornato, avrebbe raccontato alla famiglia dell’altro la sua fine. “L’angoscia di un padre che non ricordavo, convinta che non mi avesse voluto bene”, è stato il tema dominante la parte finale della testimonianza. La costruzione di una bella famiglia, cresciuta nell’amore e nel rispetto, il dovere di raccontare, il bisogno di scrivere non colmavano quel tassello mancante. “Devo trovare la mia identità”, si diceva. Durante il viaggio sulle orme del padre, di fronte a quel muro della morte ha sentito la sua presenza che ha investito il suo essere di madre e di donna, portatrice di rispetto e di dialogo nel solco dell’amore.
Federica Lucchini

Lilly con il segretario A.n.p.i., Giovanni Migliore

 

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