In questo nuovo anno durante il quale ricorre il centenario della realizzazione del monumento al Milite Ignoto, simbolo dei soldati deceduti in combattimento e di cui non è stato possibile risalire all’identità, è significativo incontrare uno dei massimi esperti di piastrini di riconoscimento, indossati dai militari, a partire dal 1892 in Italia. Riccardo Ravizza, varesino, 32 anni, perito ed esperto, nominato dalla Camera di Commercio della nostra città per la categoria Antiquariato in particolare di materiale storico militare dal Risorgimento alla seconda guerra mondiale, oltre essere collaboratore di diverse realtà museali internazionali per quanto attiene l’archeologia della Grande Guerra, è autore di due libri che approfondiscono il tema, mai affrontato da scrittori interessati a tematiche di equipaggiamento militare. Libri preziosi, corredati da foto (fra le quali quelle raffiguranti alcuni piastrini dei 300 della sua collezione) che accanto ai dati storici, portano alla luce il valore di questi piccoli oggetti, che, una volta inseriti nella divisa, significa “mettersi davanti all’evidenza che si sta andando a morire”, spiega il perito. Bisogna guardarli con rispetto, consapevoli del vissuto che ci sta dietro: era l’oggetto più personale del soldato. L’elmo poteva essere scambiato, ma il piastrino no. “Certo, il fatto che durante il primo conflitto mondiale fosse vincolato ad un capo di corredo anziché direttamente alla persona, non garantiva la necessaria stretta associazione dei dati riportati con il rispettivo corpo -spiega Ravizza- Il vestiario poteva lacerarsi, andare perso, o più semplicemente, non essere indossato. Inoltre il precario supporto cartaceo non era in grado di assicurare la sopravvivenza dei dati alle difficili condizioni ambientali del teatro di guerra”. Ma quella sottile placchetta rettangolare di zinco, dalle dimensioni di 80 x33 mm., inserita nella patta copribottoni, tra la prima e seconda asola, testimoniava l’identità del milite: all’interno un foglietto di carta allungato, scritto a china, in cui erano riportati i dati a cui risalire per l’identificazione. Ci fu nel 1916 un nuovo modello ad astuccio che andava portato al collo. Da quando c’è stata una evoluzione nel modo di combattere, portando agli omicidi di massa, nacque il culto dell’ignoto, legato alla differente concezione della morte e al maggior rispetto che di essa se ne ebbe. I famigliari non sapevano dove piangere: sorsero gli ossari, grazie all’opera delle associazioni costituite con lo scopo di onorare i caduti. Nel libro “Il piastrino di Riconoscimento” Ravizza riporta la foto dell’ossario di Custoza, dove, dopo la battaglia, vennero custodite le spoglie dei caduti. “E’ stato oltre la metà del XIX secolo, con la nascita del primo embrione dello stato sociale, che si pose la necessità di assegnare l’identità chiara, incontrovertibile e facilmente registrabile ad ogni singolo soldato in battaglia”, spiega. Nei tempi morti tra un combattimento e l’altro capitava che i piastrini potessero essere personalizzati dal milite. Nel libro “I piastrini degli Imperi Centrali – Germania e Austria”, scritto con Roberto Todero, fra le tante illustrazioni, compare quella di uno il cui astuccio è stato decorato dal proprietario, incidendo da un lato il richiamo nell’anno 1914 nell’altro la continuazione della storia nel 1915 e le iniziali del soldato: J.S. Nel libro appare, inoltre, l’immagine di un piastrino particolare, appartenuto al cannoniere Heinrich Jelinek, che ha contenuto il suo testamento: “Le mie ultime volontà. Scritto a Col Galli – 11 settembre 1918. In caso di mia morte le mie uniche eredi di tutto ciò che io possiedo saranno le mie sorelle Franziska e Steffanie Jelinek, nonché Marie Hlavatsch nata Jelinek. Mia moglie Marie Jelinek nata Schlattner non ha diritto alcuno, poiché durante la mia assenza non ha osservato i doveri coniugali e secondo lettere e testimoni convive con un altro e io ora non posso avviare la separazione, dato che sono al fronte. Firmato di mia mano, convalidato da due testimoni”. Questa è la preziosità di documenti che, al di là della freddezza del metallo, testimoniavano la presenza di una vita con la sua inestimabile ricchezza di luci e di ombre.
Federica Lucchini
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