Un comunità che non sa valorizzare i propri educatori manca di coesione sociale, non sa attivare quelle forze che per loro natura sono predisposte a creare sistema, a fare in modo che le grandi conquiste istituzionali diventino impegno quotidiano, capacità di tradurre in attività pratica la forza persuasiva delle parole. Da un po’ di anni a questa parte la figura dell’educatore, che tanto ha giocato nel fiorire di una cultura umanistico/rinascimentale e risorgimentale, non trova più una collocazione professionale adeguata, sembra che l’educatore sia diventato d’impedimento alla realizzazione della libertà personale, quella che fa comodo quando si tratta di giocare le proprie carte, di tirare l’acqua al proprio mulino. Eppure tutti dovrebbero essere un po’ educatori, dovrebbero sapere che cosa significhi educarsi ed educare, migliorare lo stand comportamentale in un rapporto solidale con la società. Dovrebbe, ma la realtà è un’altra. Di educazione si parla quasi soltanto in circostanze particolari, quando scoppia un caso, quando i nostri ragazzi si mettono a fare i bulli, prendendosela con giovani portatori di handicap o con personalità fragili, non in grado di opporre resistenza. E’ nella straordinarietà degli eventi che si riscoprono i buoni gesti, le giuste reazioni, le soluzioni più adatte, i comportamenti adeguati e soprattutto si comprende quanto siamo lontani dalla realtà, quanto non sappiamo più riconoscere i nostri ragazzi, le loro necessità, le loro aspirazioni, il loro desiderio di crescere, di diventare grandi cercando un appiglio, un appoggio su cui confidare per risolvere problemi che a volte appaiono irrisolvibili. Sono educatori tutti coloro che vivono l’educazione, che la esplicano quotidianamente, che ne fanno una ragione di vita, cercando di far conoscere la bellezza di un’interiorità che altrimenti rimarrebbe ancorata nelle profondità abissali dell’abbandono e della non conoscenza.
L’educatore insegna, insegna soprattutto con l’esempio, ti dimostra che prima di insegnare agli altri bisogna aver sperimentato su se stessi l’impegno educativo. L’educatore non è mai arrivato, la sua è una costruzione difficile, che richiede tempo, studio, collaborazione, fermezza, psicologia, anche quella spicciola che le madri conoscono molto bene per averla vissuta da sempre sulla propria pelle. L’educatore non ha schemi preconfezionati, è uno che crede nella natura umana, che la studia e la condivide, uno a cui piace indicare percorsi da valutare, senza presunzione, ma con la certezza che dentro la natura umana ci siano indicatori stupendi che supportino l’apprendimento, lo definiscano, lo abbelliscano, lo aggiornino, lo rendano più adatto a conoscere i passaggi del tempo. Ogni società ha bisogno di bravi educatori, di persone che sappiano dare un senso compiuto alla vita, soprattutto quando è isolata, persa, incapace di darsi una ragione, di distinguere il bene dal male, quando si dibatte tra mali oscuri e penombre che non permettono di alzare di nuovo lo sguardo e di vedere un pochino più lontano, dove l’orizzonte si alza e permette una visione più ampia dei colori, delle forme e delle prospettive. Una società che non chiama a raccolta i suoi educatori è costituzionalmente fragile, cieca, sorda e muta, diventa preda delle inadempienze e delle iniquità, non si chiede il perché, rimane avvinta nella sua solitudine e nel mutismo, perde il suo sviluppo logico, la sua capacità di andare oltre senza ledere i diritti, ma con la consapevolezza che la coerenza e l’armonia passano attraverso la coscienza del diritto e del dovere, del lavoro di chi, conoscendo l’uomo, lo conduce verso una consapevolezza sociale della propria esistenza, fuori dalle forme di qualunquismo e di materialismo che la svuotano della sua sensibilità morale.