“Mi affascina la sacralità. Ritengo che l’artista sia come lo sciamano, un tramite, cioè, tra l’umano e il sacro. Quello che lui crea spesso assume un significato devozionale”. Le ultime opere dello scultore comeriese Angelo Maineri custodiranno delle preziosità verso cui sarà rivolto lo sguardo dei fedeli da oggi (domenica 12 settembre) nel santuario della Madonna del Prodigio di Como: si tratta di due reliquiari in ottone dorato e argentato, arricchiti da pietre dure. All’ interno di uno saranno conservati un pezzo di abito di Giovanni Paolo II e di una garza intrisa del suo sangue, consegnati ufficialmente durante la messa odierna celebrata dal vescovo della città lariana, Monsignor Oscar Cantoni, in occasione del 25° anniversario della visita di Papa Wojtyla. “Il santuario era noto al pontefice -spiega il rettore don Maurizio Salvioni- Gli era stato presentato nel 1990 dall’allora prevosto don Luigi Galli, in occasione di un udienza, e quel giorno lo volle benedire sorvolandolo in elicottero prima di atterrare nello stadio cittadino”. All’interno del secondo reliquiario è conservato un pezzo di osso di papa Innocenzo XI, Benedetto Odescalchi, nato a Como nel 1611 e morto a Roma nel 1689. Fu lui che estese a tutto il mondo cattolico la festa del santo nome di Maria, fissandone la ricorrenza il 12 settembre, giorno nel quale, in questo santuario lariano si celebra l’anniversario di un prodigio miracoloso, avvenuto sul mare Adriatico, e legato a una sacra immagine dipinta su tavola. Qui è venerata e valorizzata da una cornice creata dallo stesso Maineri, il quale ha ora realizzato una teca a parete, fusa in bronzo con lo stemma papale -la tiara e le chiavi incrociate- per conservare le reliquie. Dietro queste creazioni dell’artista c’è un luogo che ha una atmosfera particolare e predispone alla ricerca. E’ lo studio dell’artista, calato in mezzo al verde e lontano dai rumori, pur essendo adiacente la strada statale, è fonte di studio, dove ogni oggetto ha un’aurea di sapienza. Tra le sue opere e quelle di altri artisti che con lui hanno un legame, la biblioteca fa da padrona. Vissuta, meditata, approfondita. Sottostante, il laboratorio – grandi vetrate- che fa venire alla mente la parola “fucina”. Perché qua è il luogo della nascita delle sue opere in un disordine creativo, calato in una dimensione fuori dal tempo. Qui c’è il suo bisogno di far propri i classici, emerso fin dalla frequenza dell’Accademia delle Belle Arti con uno studio tenace e approfondito per poi trasformarli a propria immagine con il bronzo e la terracotta. Così la sacralità si fonde con la classicità. Lo sa chi ha modo di ammirare i suoi bassorilievi nelle chiese o ammirare “La Natività” al Sacro Monte di Varese.
Federica Lucchini