L’accorpamento dei comuni con meno di 5 mila abitanti fa discutere. Gli amministratori e i cittadini vedono il rischio di
perdita dell’identità culturale e della storia delle comunità.
Adriano Biasoli ci scrive
L’unione fa la forza….oppure no?
L’amico Pippo Cassarà mi chiede un’opinione circa l’ipotesi di accorpamento che riguarda i comuni con meno di 5000 abitanti e le possibili ricadute sulla cultura e sulle tradizioni di questi luoghi. La prima cosa che mi viene in mente è un pensiero cattivo: se nel terzo millennio qualcuno se la prende ancora con Garibaldi perché ha contribuito a unificare l’Italia, figuriamoci se è disposto ad unificarsi con il comune limitrofo! Questo per dire che di pretesti per stare da soli se ne possono trovare finché si vuole.
In realtà nessuna persona civile può negare agli altri l’identità che si è formata nel corso degli anni, anzi il segno della civiltà è considerare questa identità come una ricchezza su cui costruire la comunità del futuro. I provvedimenti come l’accorpamento degli enti locali toccano da vicino un ambito amministrativo che ha poco o nulla a che vedere con la tradizione e la cultura dei luoghi, ma che dovrebbe occuparsi soprattutto dei problemi di gestione del territorio: viabilità, urbanistica, depurazione delle acque, gestione dei rifiuti, tanto per citarne alcuni.
Da parte mia ritengo necessaria, oltre che auspicabile, una fusione tra comuni di piccole dimensioni e credo che siano in molti a pensarla allo stesso modo; piuttosto (e qui mi viene in mente un altro pensiero cattivo) siamo sicuri che i politici siano tutti d’accordo? Detto fuori dai denti: la poltrona di sindaco è così “scomoda” da poterci rinunciare per il bene della comunità? La forza degli amministratori locali consiste nel trovare i voti necessari per la nomina attraverso il consenso maturato nel proprio territorio di provenienza e l’esperienza insegna che il decentramento all’italiana (regioni, province, comunità montane, ecc.) ha cercato di accontentare un po’ tutti gonfiando l’organico dei presidenti, degli assessori e dei consiglieri, senza con questo risolvere i problemi della popolazione.
Quindi, per concludere, nelle fusioni tra comuni non vedo alcun rischio per la cultura dei nostri paesi, a meno che la sovrabbondanza di amministratori locali non faccia parte anch’essa…..della tradizione.
Adriano Biasoli
Amerigo Giorgetti ci scrive
Piccoli comuni con l’acqua alla gola
Che fare dei piccoli comuni? Vanno aboliti o difesi e potenziati?
Il Decreto Legge n. 95 del 2012 prevede, all’interno di disposizioni varie sul risparmio della spesa pubblica, anche la determinazione delle funzioni fondamentali dei comuni e l’esercizio associato di funzioni e servizi. In pratica, i comuni fino a 5000 abitanti sono obbligati ad associare i vari servizi, (di segreteria di polizia municipale, trasporto etc.) sotto forma di convenzione o di unione. In realtà, le convenzioni sono già operanti nei piccoli comuni, che non possono permettersi il lusso di avere personale a tempo pieno, o servizi di igiene pubblica o scolastica in proprio, e che quindi condividono con altre amministrazioni. Più complicata è invece l’unione, dato che prevede l’unificazione dei bilanci e l’accentramento delle rappresentanze consigliari. Sarebbe interessante sapere quali amministrazioni si sono tempestivamente adeguate alle nuove norme e con quali risultati.
Anche se la parola è nuova (spending review), la questione è vecchia, visto che se ne parla dall’età napoleonica, o forse anche prima, quando lo stato accentrato ha cercato di razionalizzare la complessa amministrazione locale in forme adeguate ad una unica normativa e soprattutto in grado di produrre un risparmio sui bilanci pubblici. Ora come allora queste riforme, più o meno ben congegnate, incontrano forti difficoltà dovute principalmente al municipalismo di coloro che vedono messa in forse l’esistenza stessa delle comunità di cui sono parte. Ma ora, diversamente da allora, è certamente possibile sollevare forti dubbi sulla fondatezza di una simile pretesa, basata per lo più sulla difesa di una identità locale del tutto inesistente. Tale identità viene infatti definita dall’appartenenza ad una tradizione di cui la comunità sarebbe esclusiva depositaria. Ma qui il cane si morde la coda, poiché per dirla con Eric Hobsbawm: “Mai il termine ‘comunità’ è stato usato in modo tanto insensato e indiscriminato come nei decenni in cui le comunità sono diventate sempre più difficili da trovare nella vita reale”. Noi usiamo un termine che richiama la primigenia vita di un villaggio rurale, che è precisamente agli antipodi di ciò che viviamo ogni giorno in una società individualistica e consumistica dominata dal problema della sicurezza. L’identità è un surrogato della comunità, che funziona nel nostro mondo individualista, proprio per ovviare alla scomparsa dei legami comunitari. Non si comprende dunque quale identità culturale potrebbe essere distrutta da un accorpamento di comuni che non amministrano da tempo alcuna comunità. D’altra parte, i piccoli comuni, che dovrebbero garantire la continuità delle tradizioni locali, in tutti questi anni hanno abbondantemente smarrito il senso comunitario, principalmente i valori del territorio, e in nome della loro autonomia hanno consentito che fosse devastato il paesaggio rurale con una urbanizzazione selvaggia spesso solo per far fronte alle proprie spese correnti fuori controllo.
Come un decreto sovrano non ha la facoltà di istituire una comunità, non ha nemmeno quello di abolirla. Pare invece che sia vero il contrario, perché si crede erroneamente che abolendo un comune si abolisca anche una comunità. Si commette cioè l’errore di scambiare il comune con la comunità, due istituzioni approssimativamente sovrapponibili solo prima della riforma teresiana del 1750, ma via via distinte anche contrapposte nel periodo seguente: il comune fu sempre più stato e sempre meno comunità, fino al punto in cui siamo, in cui esiste il comune ma senza la comunità corrispondente. Prima di quella riforma i comuni (o le comuni) deliberavano per mezzo di assemblee di villaggio in cui avevano diritto di voto tutti i capifamiglia e che si riunivano nella pubblica piazza per approvare le tasse e le spese, secondo i riparti inviati dalla camera milanese, per eleggere i sindaci, assegnare le terre comuni ecc. I poteri di questa assemblea erano fondati sul possesso di vaste zone di terre comuni che venivano utilizzate collettivamente per il bosco e il pascolo. L’apporto di questi usi civici era fondamentale per un’economia agricola di sopravvivenza, dominata dai grandi possidenti feudali. Con la riforma, i convocati comunali furono dominati, non più dai “comunisti” autoctoni, ma dagli estimati, cioè dai possidenti gravati dagli estimi, estranei in gran parte alla comunità locale. L’affermazione dello stato moderno è andata di pari passo con l’alienazione di questi beni comuni, divenuti “comunali” all’inizio dell’Ottocento e poi privatizzati alla metà del secolo. La privatizzazione delle terre comuni rappresenta il punto di non ritorno della dissoluzione comunitaria. Certo, il solidarismo comunitario continuò nel mondo contadino, fin quasi a noi, ma l’evoluzione dell’istituzione comunale divenne sempre più orientata alle ragioni e agli interessi della politica nazionale, piuttosto che a quelle della comunità locale ormai priva di rilevanza politica.
E’ evidente che le funzioni che oggi vengono attribuite ai comuni dal Decreto citato, anche secondo quanto previsto dalla Costituzione, come l’organizzazione dei servizi pubblici, gli acquedotti, la raccolta dei rifiuti, i trasporti ecc. sono più facilmente e meno dispendiosamente gestibili per una popolazione più numerosa di quella di un piccolo comune. Molto spesso i bilanci dei piccoli comuni, in tempi di vacche magre, non servono ad altro che a mantenerli in vita, senza che si possa aumentare o migliorare i servizi. Non si comprende dunque per quale ragione i piccoli comuni debbano temere da questa più efficiente organizzazione dei servizi. Il problema è semmai un altro: se questi servizi possano o debbano essere forniti da un soggetto pubblico o privato (o misto) e soprattutto se i comuni possano rinunciare al controllo di quelli che sono, o ritornano ad essere, dei “beni comuni”, come l’acqua, l’aria, la salute, l’istruzione, ecc. Se il comune, piccolo o grande che sia, perde la facoltà di tutelare gli interessi degli amministrati riguardanti i beni comuni, allora in tal caso non ha più alcuna ragione di esistere sia in proprio che associato con altri. E in effetti, quello che è successo negli ultimi anni sembrerebbe avvallare quest’ultima considerazione. La parola d’ordine degli ultimi decenni è stata “privatizzare” ciò che le pubbliche istituzioni non riuscivano a far funzionare con efficienza. La domanda che non è stata presa in considerazione è così formulabile: fino a che punto dei beni pubblici possono essere soggetti alle leggi di mercato in una società giusta e civile? Lo scopo primario di un’azienda privata ospedaliera è quello di raggiungere obiettivi di bilancio o quello di garantire il diritto alla salute di un cittadino qualunque? E’ possibile che gli obbiettivi di bilancio possano armonizzarsi con i diritti dei cittadini? Le privatizzazioni all’italiana ci insegnano che il servizio privato costa assai spesso maggiormente agli utenti ed è non di rado peggiore di quando era pubblico.
Qui ci stiamo addentrando in un intricato ginepraio, dal quale possiamo uscire solo con una storiella, che riecheggia un famoso romanzo di Silone, ma che meriterebbe un vero narratore.
C’era un volta un piccolo paese (di certo inferiore a cinquemila abitanti) che usciva stremato da una guerra sanguinosa e insensata. Fino ad allora tutti i paesani cavavano acqua dai pozzi con i secchi e le carrucole nelle corti più importanti dell’abitato. E’ anche vero che durante il ventennio il regime aveva costruito delle pubbliche fontane a cui tutti potevano comodamente approvvigionarsi; ma l’acqua era sempre quella che si conservava negli immancabili secchi appesi alle pareti di casa. Finita quella guerra il comune costruì un moderno acquedotto rifornito da un pozzo comunale che si trovava ai bordi del villaggio. Per qualche tempo tutto sembrava funzionare al meglio, anche perché il basso bacino in cima al castello dava acqua sufficiente a tutti gli abitanti. Ma ad un certo punto l’acqua incominciò a scarseggiare ripetutamente. Cosa era successo?
Una grande fabbrica metalmeccanica sorta proprio in prossimità del pozzo comunale vi attingeva l’acqua a sé necessaria, avendo la bontà di lasciare solo il resto ai padroni della sorgente, cioè scarsa e di pessima qualità. Fu così che il comune abbandonò la sua proprietà e fu costretto ad entrare in un consorzio che serviva vari paesi della zona. La gestione dell’acquedotto era ancora comunale; ma tutti i sabati ce n’era sempre una. L’acqua mancava soprattutto alla zona alta, perché pareva che il bacino si svuotasse troppo rapidamente, in base all’aumento di richiesta in certi momenti. Poi c’era una pompa che non funzionava, un galleggiante del troppo pieno usurato, la presenza di coli, …. Il comune decise così di fare un serbatoio di riserva (mai entrato in funzione) che avrebbe dovuto pompare acqua nel bacino per mantenere il livello.
Sapete che cosa si scoprì dopo anni di tribolazione? Che c’era un grosso sasso nella tubatura principale che impediva l’afflusso normale dell’acqua in bacino; e inoltre che la zona alta del paese poteva essere comodamente rifornita attaccandola direttamente all’acquedotto provinciale senza passare dal bacino.
Ma non è mica finita qui, perché ad un certo punto il comune non si sente più in grado di gestire in proprio un acquedotto che è provinciale. Ed è a questo punto che entra in gioco una società mezzo pubblica e mezzo privata che garantisce al comune un’assistenza completa del servizio idrico, ma, attenzione, ai prezzi che considera per sé remunerativi. Nel frattempo un referendum nazionale blocca la privatizzazione del servizio idrico e dunque si mette in moto la macchina per aggirare la chiara volontà popolare. E’ vero che l’acqua è pubblica, ma come si fa a gestire l’approvvigionamento e la distribuzione che da tempo è stata ceduta ai privati? Siamo ormai arrivati al presente.
Mentre si formano società srl in house composte dai rappresentanti dei vari comuni, compreso il nostro, per controllare l’uso ottimale delle risorse idriche, nulla cambia ancora nel funzionamento degli acquedotti ormai controllati da privati. L’acqua ce l’hai se te la danno e al prezzo che vogliono loro. I cittadini più accorti, nel frattempo, hanno rimesso in funzione i vecchi pozzi intasati dalla terra e dai sassi di mezzo secolo. Non si sa mai.
E la storia ritorna da capo.
Amerigo Giorgetti