“Me vegn anmò la pell de capùn”: non riesce a procedere nella sua narrazione Valentino Ruspini, 84 anni di Caldana, uno dei primissimi operai assunti da Giovanni Borghi agli albori della Ignis. Sta ricordando il momento in cui seppe della morte del commendatore nel settembre del 1975. Quella che finora è stata una parlata fluente e gioiosa all’insegna dell’ammirazione e della riconoscenza, si interrompe improvvisamente, tanta è la commozione nel ricordare un uomo fondamentale nella sua vita e nella vita della nostre terra. Il racconto della sua esperienza rappresenta una pagina palpitante di un’epoca felice in cui l’Italia ha saputo risorgere. E’ uno degli ultimi testimoni che sa rivivere con la memoria vivace gli albori della ditta conosciuta internazionalmente, nata al pianoterra di un edificio in via IV novembre a Gavirate, sede attuale dell’Asl. Lui era il “bocia”, il ragazzino quattordicenne, assunto nel gennaio del 1951, grazie all’intervento dell’allora prevosto, don Carlo Baj: “Va giò che l’te ciama”, gli aveva detto. E lui si era trovato a lavorare con i primi quattro operai in uno spazio che conteneva una trancia per tagliare la lamiera, una vasca che conteneva l’acido per togliere l’eventuale ruggine, accanto ad una piegatrice. Ricorda ancora la vernice a spruzzo e i tre frigoriferi smontati provenienti dagli Stati Uniti: da quei locali disadorni sarebbe partita un’avventura che ha avuto dell’incredibile. “Si piegava tutto a mano -spiega- si aggiungeva il sughero per coinbentare, assieme alla lana di vetro. Ci è voluto una settimana per realizzare un frigorifero. Oltre al “Sciur Giuan”, come chiamavamo allora Borghi (in seguito sarebbe diventato confidenzialmente “el Giuan”) arrivava anche il papà Guido e un giorno mi ha detto: “Non buttare via niente. Se trovi una vite senza taglio, mettila in un barattolino e conservala. Ci penso poi io a sistemarla”. E’ significativo questo ricordo, che testimonia con quanta sobrietà è partita l’esperienza. Racconta poi del trasferimento nella struttura più grande che durante il periodo fascista e la guerra era stata la caserma del Genio Militare, nei pressi della piazza del municipio a Gavirate. La vita di Valentino è andata di pari passo con il crescere vertiginoso della ditta, ma è soprattutto sull’insegnamento di Borghi che lui si sofferma, sulla sua attenzione ai bisogni dei dipendenti. “Si lavorava tanto -riprende- non un attimo di tregua, ma non gli si poteva dire di no. Ci era troppo vicino con la sua umanità. In tempi di grandi ristrettezze economiche, incontrare un datore di lavoro che trattenendoci pochissimo dallo stipendio ci ha permesso di comperare una Lambretta (si era nei primi anni Cinquanta) rappresentava un privilegio. E noi per gratitudine lavoravamo con grande entusiasmo. “Se avete bisogno, venite da me!”, ci diceva. Ricordo un giorno in cui, grato per un lavoro impegnativo che avevo svolto, mi diede del denaro. Io mi ritirai un attimo in bagno e lo contai. Sa cosa vuole dire avere vissuto la miseria della guerra e vedere quei soldi?”. Nel raccontarlo, ancora sgrana gli occhi e sembra che li abbia ancora davanti. Poi ci fu il viaggio a Firenze durante l’alluvione del 1966, quando erano stati allagati i depositi della ditta, come responsabile di dieci ragazzi, i viaggi premio in traghetto verso la Svizzera per i meritevoli. Un lungo elenco di attenzioni che Valentino custodisce nel cuore, avute non soltanto da un datore di lavoro, ma da colui che ritiene un padre. “Il nostro era un lavoro, sì, ma all’interno di in una grande famiglia!”.
Federica Lucchini