“La guerra non l’ho voluta. Anzi ho lottato contro di essa. Non voglio chiamare nemici quelli che ci stanno di fronte, costretti come noi a farla!”. Sono intense queste considerazioni dell’alpino ventiquattrenne Rinaldo Corti, nato a Travedona Monate nel 1891: scritte nel 1915, originariamente su foglietti, come tutta la sua esperienza vissuta in trincea durante il primo conflitto mondiale, furono affidate a mani amiche, all’insorgere del fascismo dopo il 1922. Avrebbero costituito motivo, a causa delle frequenti perquisizioni nella sua casa alla ricerca della bandiera rossa della Sezione Socialista, di ulteriori motivi di accusa. I piccoli notes, laceri, sporchi, sgualciti, ma riordinati durante il periodo della degenza in ospedale a seguito di ferite di guerra, dopo il 1945 finirono in un cassetto, destinati a rimanere muti. Ma non furono dimenticati. Confluirono nelle pagine del libro “La guerra di un contrario”, pubblicato con 22 illustrazioni dalla casa editrice diretta dallo stesso Corti “Collana artisti e scrittori varesini e prealpini”. Ricordare l’autore significa far memoria di una personalità varesina che fu sempre lineare con i principi della libertà. Nell’aprile del 1945 fece parte del Comitato di Liberazione della città. Fu lui, assieme all’ingegnere Pedoja, che assistette alla firma della resa dei fascisti e dei tedeschi. “Quando uscirono dal municipio, pur essendo di tendenze politiche diverse, uno comunista, l’altro della Democrazia Cristiana, si abbracciarono felici a sottolineare la loro unità di intenti”, ricordano i figli Cesare e Amalia. Era orgoglioso del suo tesserino di giornalista. Quando il “Corriere prealpino”, come si chiamava nel 1945 il nostro quotidiano, passò in gestione al Comitato di Liberazione, lui assunse l’incarico di redattore della terza pagina, quella culturale. Poi continuò come corrispondente di Varese per “Libera Stampa”, il quotidiano socialista di Lugano. Per tutta la vita si interessò di arte. Efficaci sono molte pagine del suo diario di guerra che presentano risvolti inattesi. Prima dell’iniziale combattimento tutti i compagni avevano fatto testamento: “Tutti avevamo qualcosa da confidare all’amico, al “pais”, al vicino. Pareva che ognuno volesse purificarsi -scrive- disparvero i rancori, i sentimenti cattivi, gli odi; non più interventisti o neutralisti, non più discussioni o litigi; divenimmo tutti amici, tutto fratelli pronti a morire l’uno per l’altro”. Nelle pagine più avanti dopo un combattimento: “Ma chi si ricordava ancora dei propositi fatti? Roba lontana, roba vecchia del tempo di pace. Qui in guerra siamo accomunati da uno stesso grande interesse: quello di salvare la vita proteggendo noi stessi e i compagni”. Intense sono le pagine in cui l’autore riceve la comunicazione del suo congedo, essendo figlio di madre vedova. Ci si sarebbe aspettato pagine di gioia, per un pacifista. No, quel ritorno a casa scese per lui come una mannaia. “Ero assente e mi pareva di essere estraneo a me stesso -annota- La mia anima era rimasta con gli alpini, alpino io stesso più di quanto avessi potuto supporre”. Così ritornò tra i commilitoni per la memoria dei quali scrisse il libro.
Federica Lucchini