Quel maledetto ponte Morandi l’abbiamo percorso migliaia di volte, sempre con un pizzico di paura: chissà perché? Eppure l’appellativo di “ponte di Brooklyn” non era per caso, ricordava vagamente quello americano sospeso nell’aria con una struttura avveniristica, completamente diversa dalla compattezza muraria dei ponti romani, giunti fino ai giorni nostri quasi per dimostrare che le opere sono fatte per essere consegnate alla storia. La paura inconscia del vuoto, l’idea dell’imprevisto che portiamo dentro e che ogni tanto si fa sentire, una velata forma d’incompatibilità ambientale o un rifiuto inconscio opposto a qualcosa di cui non ci fidiamo fino in fondo, sono tutte espressioni di uno stato d’animo che coglieva ogni volta che, uscendo dalle gallerie, la strada iniziava il suo volo sulla città. Il dramma si consuma all’improvviso, coglie di sorpresa famiglie, uomini, donne e bambini, che procedono incolonnati verso la sospirata vacanza di ferragosto. In un attimo la vita si accartoccia e si dissolve, lasciando nell’aria un vuoto profondo, uno sgomento senza precedenti. Esclamazioni, stupori, paure, angosce e subito dopo sirene che corrono e arrivano loro, quei meravigliosi vigili del fuoco, che insieme alla protezione civile, ai volontari e alle forze dell’ordine sono sempre in prima linea a rischiare la propria vita per gli altri.
Non sembra possibile, eppure è successo. E’ successo proprio mentre, il pensiero vola verso la speranza, lasciando dietro le spalle la discontinuità di un mondo a tratti ambiguo e irrequieto. All’improvviso l’estate di ferragosto dimentica la festa del solleone, la gioia del mare e quella della montagna, con inaudita asprezza mette l’uomo di fronte alla propria coscienza, chiamando la vita a rispondere di quel senso di responsabilità di cui ci dimentichiamo spesso o che deleghiamo per evitare un confronto serio con quello che facciamo e con quello che diciamo. Mentre la magistratura fa il suo corso e la macchina della ricostruzione si mette in moto, Genova piange il suo dramma, lo fa con quell’eleganza di stile che la rende superba. Nella sua voce strozzata dalle maglie di un dolore acuto e profondo, non c’è nulla che lasci intuire rabbia incontrollata, vendetta, arroganza. Ogni persona esprime con sobria compostezza la propria angoscia, sorretta da una forte vocazione al trovare, al fare, all’ obbedire. Lo fa cosciente di avere tutta la forza necessaria per dimostrare che nulla può fermare l’impegno di chi continua a credere che non bisogna arretrare e che la vita ha bisogno di altra vita per riproporsi, per dimostrare alla generazioni che non c’è mai nulla di scontato e che tutto è conquista, fierezza, orgoglio, anche quando il buio della notte sembra impedire ogni forma di luce. E’ la Genova delle grandi alluvioni, quella che ha imparato a lottare in silenzio, a guardare avanti, a non lasciarsi sopraffare, a mettere sul campo ogni forza per rispondere alle provocazioni di una natura che in molti casi chiede il conto. E’ la Genova che conosce a fondo il dramma del cambiamento, l’idea di trovare spazi per sopravvivere, di non lasciare nulla di intentato, di mettere in campo le sue risorse anche quando la conquista ha un prezzo elevato.
E’ la Genova paterna e materna, riservata e attenta, forte e coraggiosa, che conosce le alternanze e le discrepanze, che conosce molto bene il significato profondo della ricerca e della conoscenza, abituata a dialogare con il mondo con la poesia della sua terra, a tratti aspra e tagliente, dura e rocciosa, abituata a convivenze difficili, ma sempre pronta a dare il meglio di sé in ogni occasione. E’ la Genova del triangolo industriale, avvinghiata al suo porto, alla sua storia, alle sue lotte, al lavoro, all’idea che ogni cosa, anche la più piccola, abbia la sua importanza, sia il frutto di un impegno sentito, ampio e profondo, dove l’anima spesso s’impone sulle reticenze umane. E’ questa Genova che si accinge a ripartire credendo più di prima nella forza unificante dei ponti, in un destino aperto, dove il mondo, anche quello più lontano, possa sempre trovare quella parte di sé che lo renda più umano, più capace di costruire speranza e libertà. Il crollo del ponte Morandi ci ha insegnato che l’attenzione deve essere sempre alta, che non bisogna mai prorogare e che le malattie, quando ci sono e sono evidenti vanno curate nel migliore dei modi senza aspettare, ma ci ha anche posto di fronte a una città e a un popolo la cui fede nella persona umana va ben oltre schemi e dottrine, perché s’identifica con la vita, con la voglia di superare e di andare avanti. Una Genova che insegna a non perdere mai il filo, anche quando diventa sottile, troppo sottile, una Genova che guarda all’orizzonte con la speranza che il dolore sia davvero l’inizio di una nuova vita e che le vittime del dramma insegnino, con il loro sacrificio, che bisogna credere fino in fondo nella propria missione, anche quando il sacrificio mette in gioco il valore stesso della vita.
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