“Chesta sira vu fai un pitanzin de lecass i barbiis”
“Cusa i fai, mama?”
“Vu fai re pantöla”
“Aah, boona re pantöla!”
Così la mamma regiora reclamizzava le sue specialità prima di presentarle alla famelica tribù dei suoi familiari. Questi, per la verità, non avevano bisogno di tanta pubblicità per onorare la mensa. Ma cos’è la pantöla? Ecco gli ingredienti: farina, latte, sale, fagioli e una grana de buteer. Era uno dei piatti tipici de
La cucina dei nostri nonni.
Si mangiava alla buona ed i piatti caratteristici erano generalmente piatti poveri. Protagonisti indiscussi e incontrastati della mensa erano la polenta e le minestre. La polenta veniva servita in parecchie varianti: pulenta e lacc, pulenta merluzz e scigoll, pulenta e fasöo, pulenta e strachin, pulenta e furmagìna, pulenta cunscia, pulenta e gratùn, pulenta e pucia e per i più sfortunati pulenta vedua (polenta e niente altro). Una pulenta potevano permettersela tutti, poveri diavoli compresi e tutti faceva felici perché re puleenta le cuntenta!
Anche le minestre venivano cucinate con un’ampia varietà di ingredienti e le loro combinazioni sposavano magnificamente l’indigenza con la fantasia.
Ve ne propongo un elenco: riis e lacc, riis e zucch, riis e erburin, riis e burdun, riis e fasöo, supùn, supùn burlanda, supa de scigoll, pancott, pantriid.
La minestra veniva posta a cuocere sul camino della cucina, dentro il caldàr.
Quando era cotta ciascuno si avvicinava con re tazina e la mamma con ur cazü ne versava un paio di mestoli. Poi ci si andava a cercare un posto a sedere in qualche angolo della cucina (non necessariamente al tavolo) e si dava sfogo agli appetiti solitamente arretrati.
Il menù offriva normalmente anche un pezzo di pan giald e un frutto di produzione propria. Uno, ma non di più. Altrimenti l’incauto approfittatore avrebbe corso un grosso rischio:
Gheva una volta un omm
chel mangiava peer e pomm
n’ha mangià vuna de pu
ghè sciupà la pel del cu.
Talvolta, però, quando si presentava l’opportunità, la tavola sapeva anche impreziosirsi.
Principe di queste trasformazioni era il maiale, un personaggio che nella storia culinaria delle nostre genti vanta insigni benemerenze. Si devono alla generosità del porco (ur purscell) piatti appetitosissimi quali la rustisciada cunt i lumbèr (sangue di maiale, cipolle e lombo di maiale) oppure codigh, luganighit e purè o meglio ancora la cazöra cunt ‘re pulenta.
Piatti un po’ pesantucci, ad onor del vero. Ipercalorici direbbe oggi il dietologo. Ma allora non c’era il dietologo e non c’erano problemi.
Anzi, “grasso era bello”. Era sinonimo di ricco e di florido. Che bella grassa si esclamava al passaggio di una donna prosperosa. Per secoli l’ideale della bellezza femminile ha coinciso con linee curve e pingui. Donne che, quando s’immergevano nel bugiùn per il bagno, alluvionavano il pavimento.
E i piatti della nostra cucina sfruttavano volentieri queste opportunità offerte dalla moda.
Una feta de lard trovava posto in quasi tutte le pietanze. C’era poi un piatto che quanto a grassi non aveva rivali. Si tratta dei gratùn (grasso animale, lardo, pelli di prosciutto cotto e avanzi di pancetta). Dopo lenta cottura si estraevano i gratùn, dei pezzettini rosei dal sapore inconfondibile. Questi erano mangiati ancora caldi ed erano tanto gustosi che, prima di metterli in bocca, venivano quasi “baciati” con religiosa libidine.
Si tratta di un piatto inventato dall’antica e ora debellata miseria della nostra gente e che oggi è scomparso dalle nostre mense.
Non possiamo poi dimenticare la vecchia e cara buseca (trippa) o il macch (castagne pelate, lessate, scolate e cucinate con latte e farina) o i patati in sguazèt (patate in umido) o i machitt (verze, patate, fagioli, rape, sale, burro e latte). La domenica se meteva sù a bui ur less mentre per Natale o per la Madòna d’agost si cucinava il rost de pulin o il rost de berin. Il grass de rost (che riferito a una persona non era certo un complimento) diventava un condimento favoloso; lo si conservava nello stuin e lo si utilizzava poi nei giorni successivi. Una di quelle cose che la regiora cucinava quando voleva fare la gioia dei grandi e dei piccini erano i però. Si trattava di frittelle a base di uova, latte, farina e bicarbonato. Sono entrate a far parte anche dell’aneddotica scolastica. Erano talmente incisi nella mente dei ragazzini che, quando mio padre maestro assegnò come compito di scrivere una frase con la congiunzione “però”, ci fu uno scolaro che scrisse: “La mia mamma, ieri sera, ha fatto i però”.
Sto citando dei piatti particolari, ovviamente caratteristici, che si consumavano in occasioni non frequenti. La mensa quotidiana era povera e i cibi erano ben lungi dall’essere raffinati.
La regiora, purtroppo, si affidava spesso a una filosofia quaresimale che recitava pressappoco così “Oli, saa e ai fan mangiaa incà i strupai” (Olio, sale e aglio fanno mangiare anche le cose più scadenti).
Nelle torride giornate d’estate (ma non solo) si poteva bere la caolca (latte e vino) e quando ci si sentiva un po’ giù la rusumada (uova montate a neve, vino o marsala, zucchero).
Il riso trovava molto più consensi della pasta. Un tempo il riso non veniva venduto già selezionato e pronto per la cottura, ma, prima di cucinarlo, bisognava scernerl, abbisognava cioè di un’oculata selezione chicco per chicco per eliminare sassolini o eventuali chicchi marci. Si metteva poi nelle minestre oppure si cucinava il riis in cagnun (riso in bianco) oppure il riis cun re curada (riso con il polmone) o, di domenica, il risott cunt ur zafran (risotto con lo zafferano).
La pasta era quasi esclusivamente prerogativa dei benestanti. Arrivò sulle mense della povera gente molto tardi; quella di produzione industriale arrivò addirittura agli inizi del Novecento. A Caldana i primi a consumarla abitualmente furono i Conti Mörlin-Visconti. La facevano arrivare a casse da Napoli e ne davano in assaggio anche ai Caldanesi.
Per loro non c’erano problemi economici, potevano gustarne a volontà e, quando ne rimanevano sprovvisti, mandavano un telegramma a Napoli: “Moerlin senza maccheroni” e i maccheroni arrivavano.
I formaggi facevano invece la delizia sia dei poveri sia dei ricchi. Si consumava quasi esclusivamente la furmagina (formaggio tenero) e si mangiava preferibilmente in insalata cui scigoll, condita poi con olio e aceto.
Poi si faceva la quagiada, un formaggio che si ricavava dal latte inacidito ed era anche molto diffusa l’abitudine di produrre, con la penagia, il burro. Dalla lavorazione di questi due prodotti scaturivano il sarùn ed il lacett. Quest’ultimo era riservato di diritto a chi si faceva carico della preparazione del burro: “Chi mena ur bachet, guadagna ur lacett”.
Col latte si mangiavano le castagne (castegn e lacc) e il latte si utilizzava un po’ per tutto. Si utilizzava anche per mandare qualcuno a quel paese: “Va a cà a faa rustii ul lacc!”.
Nelle case più abbienti, e solo a partire dagli inizi del ‘900, arrivò il furmacc de grataa,
cioè il parmigiano. A esso si attribuivano virtù terapeutiche straordinarie.
“El rinforza la capèla dul stomich” – si diceva.
Mentre la furmagina si poteva trovare indoasessìa, il parmigiano era agli inizi merce rara, riservata a pochi.
Poi c’era il sancarlin, formaggio tipico delle nostre zone. Sulla sua origine si racconta una leggenda, ma non è obbligatorio crederci. Si racconta che ogni tanto passavano dalle nostre parti baldanzose truppe che rubavano, devastavano e uccidevano sistematicamente. All’arrivo di questi manigoldi la nostra povera gente era allora costretta a rifugiarsi sulla montagna abbandonando le proprie case.
Fu così che una volta, all’arrivo di questi usurpatori, abbandonarono la casa e lasciarono un pentolone di latte che col caglio iniziava la sua fermentazione.
Quando tornarono dopo una decina di giorni, trovarono la pentola ancora al suo posto e dentro vi trovarono un formaggio a pasta molle ricco di siero. Lo assaggiarono e gli aggiunsero pepe, aglio e sale. Il gioco era fatto. Ne uscì un formaggio dal sapore maschio e dal profumo “celestiale” tanto che per battezzarlo si decise di scomodare perfino un Santo del cielo: San Carlo. Sul sancarlin si racconta un aneddoto.
Subito dopo la prima guerra mondiale venne a soggiornare presso la famiglia Rodari una poetessa, tale Guglietti (o Guglielmetti?).
Scriveva delle rime stupende, piene di sentimento e di musicalità. Veniva facile pensare che uno spirito così etereo potesse cibarsi esclusivamente di rugiada e petali di rosa. Ebbene, un giorno assaggiò il sancarlin. Non l’avesse mai fatto. Gettò via rime e petali di rosa e si buttò a capofitto su quel formaggio. Esagerazioni a parte ogni giorno se ne sbaffava delle mezze tazzine tant’è che a Caldana qualcuno ancora ricorda. (Della sua poesia non si ricorda più nessuno).