Ci sono cose che non si comprendono mai abbastanza, vuoi per la giovane età o per ignoranza o per una scarsa attitudine all’approfondimento individuale o collettivo, eppure il lavoro apre gli orizzonti umani, li colora di sfumature, fa capire quanto ci sia da dare e da ricevere e soprattutto ci aiuta a scoprire parti sconosciute della nostra persona e di quel mondo bellissimo che ci ruota attorno. Capisci meglio tutto ciò quando non lavori, quando la società in cui vivi parla, parla e poi parla ancora, senza rendersi conto che ci sono giovani bravissimi, carichi di belle speranze che non riescono a entrare, che fanno una fatica incredibile a farsi accettare, perché quel mondo del lavoro che sogni è nella mani di gente senza scrupoli che sfrutta le energie giovanili, abbandonandole al loro destino. Chi è cresciuto con immagini di mani rugose e di visi consumati davanti agli occhi, chi è stato testimone di stanchezze croniche, di orari senza orari, di gente trattata come carne da macello, di gente che a quarant’anni ne dimostrava ottanta, di ragazzini trovati a fare mestieri pesantissimi in barba alla loro età, sa quanto sia importante creare una cultura del lavoro, dove non ci sia posto per l’eterna contrapposizione di ideologie superate dalla storia, dove non ci sia posto per lotte e conflitti, per guerre politiche e utopie, ma è consapevole che occorra invece dimostrare quale sia la forza trasformante del lavoro, il suo valore morale e culturale, l’importanza che riveste nella conoscenza di sé e in quella degli altri e soprattutto il suo ruolo guida nella vita delle persone, nella capacità di costruirsi una personalità, una famiglia, un benessere che ripaghi di tanti impegni e sacrifici.
Il lavoro come scoperta, come realizzazione, come fede in quello che si fa, come base e punto di arrivo, come forza inclusiva, forse il modo migliore per stabilire relazioni, per avviare un cammino di collaborazione e di confronto sociale, per dare il via libera a metodi, modalità, trasformazioni, invenzioni, un lavoro insomma che non sia solo “ TU DEVI”, ma soprattutto vivere e collaborare per trovare insieme una via alla nostra felicità terrena, quella che ci consente di realizzare anche solo una minima parte dei nostri sogni. Le capacità umane sono tantissime, lo aveva riconosciuto con grande intelligenza Paolo VI, quel cardinal Montini che aveva dato il via a una forte espansione dell’intelligenza umana, favorendo il lavoro in tutte le sue forme, quasi fosse una benedizione del cielo. Un papa incredibilmente capace di valorizzare, di finalizzare, di dimostrare sul campo quanto dell’intelligenza divina risiedesse nella capacità umana di fare e di dimostrare. Un papa che è stato vicinissimo sempre al mondo del lavoro e alla sua capacità riabilitativa e promozionale anche in campo religioso, collaborando intensamente per la costruzione di chiese e oratori, di luoghi di culto dove poter affermare la forza attrattiva della natura umana.
E’ in questa dimensione culturale che il lavoro diventa qualcosa di molto più grande e importante, si riveste quasi di un carattere sacro, perché è la fonte di tutto, dal lavoro infatti dipende la famiglia e la sua possibilità di trovare conferme nel rinnovamento di una società in perenne trasformazione. L’amore per il lavoro è l’inizio di una grande trasformazione dei modi di pensare, dei modi di essere, nel lavoro e con il lavoro l’essere umano si sente parte viva di una grande realtà, sente dentro di sé la forza del mondo, si misura, si attiva, si propone, si dispone, dà il via libera a quella parte di sé che altrimenti sarebbe preda d’immobilismo e frustrazione. Ma è mai stata fatta una politica del lavoro che ne attivasse realmente l’aspetto culturale, la capacità di trasformare la vita dell’uomo in una spinta verso un legame più intimo e più stretto con le cose e con gli altri esseri umani? Si è cercato di andare oltre le lotte di classe o i conflitti generazionali? E’ così difficile unire le proprie forze per dare anima a uno dei beni fondamentali della nostra vita individuale e collettiva? Nel lavoro, quello vero, non c’è spazio per la ripetitività, c’è solo consapevolezza di ruoli, di vocazioni, di impegno, di perseveranza, di sacrificio, ma anche di bellezza, perché ogni lavoro, anche il più complicato e misconosciuto porta dentro di sé il dono della bellezza umana, il problema è solo quello di saperla individuare, sollecitare, promuovere, animare.
Il lavoratore non è un automa, un suddito, un prodotto o peggio ancora un robot, ma è un essere umano che vive con gioia la sua parte che va riconosciuta e aiutata, ammirata, conservata, stimolata, valorizzata. Quanto poco si valorizza nella società di oggi, in molti casi si è solo capaci di criticare, di trovare il pelo nell’uovo anche là dove la freschezza ideale è di casa e si propone per un mondo diverso, migliore, a cui ciascuno possa attingere. Ecco cosa dice Paolo VI a proposito del lavoro: ““Che cosa vi serve chiamarvi col tal nome o col tal altro, entrando nel campo del lavoro? Si potrebbe dire: “Non serve a niente”, e invece voi sentite che portando il vostro nome nel campo del lavoro portate la vostra coscienza, la vostra persona, il ricordo della vostra famiglia, e i collegamenti che voi avete con la società”. “Troverete tanta amarezza, tanto rancore, alcune volte della rabbia, alcune volte dello sdegno, quasi sempre della volgarità nel mondo del lavoro in cui entrate; specialmente dove il lavoro è materiale e pesante troverete tante insidie; ebbene, se conservate l’anima luminosa di fede e di speranza cristiana, voi invece potrete diffondere in tutto questo vostro nuovo campo di vita, una certa serenità, una certa allegria, una certa gioia: la gioia di lavorare non soltanto per dei fini immediati ed economici, ma di lavorare per la vostra vita, di lavorare per il vostro perfezionamento, proprio per compiere questo dovere che vi allinea sopra il cammino che conduce da questa terra al destino eterno a cui la vostra esistenza è destinata e diretta”.
Paolo VI è stato grande anche in questo, negli aspetti concreti della vita, quelli che sembravano terreno di conquista per varie forme di ideologie, assegnando al lavoro quel ruolo di intelligenza umana e divina insieme, che rendono l’esperienza umana più degna di essere vissuta. E’ in questa ottica culturale che il lavoro va rivisto, riconsiderato, rimesso sotto la lente d’ingrandimento e valorizzato, non solo nella sua identità istituzionale, ma nella sua identità culturale, nella sua capacità di essere per davvero il sale della vita umana, quella possibilità terrena di dare spazio all’entusiasmo e alla gioia. Non più quindi un lavoro figlio del peccato originale, ma un lavoro che renda più bella la vita umana, facendola uscire da quegli stati di sudditanza che l’hanno resa schiava e priva di senso, per troppo tempo. Forse è arrivato il momento di ridestare l’uomo, di fargli capire che non è una pedina nelle mani di qualcuno che lo usa a proprio piacimento, ma una realtà immensa che merita di essere amata e promossa per quella che è, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.
Fino a quando gli uomini si faranno la guerra per stabilire dei primati, ci sarà poco spazio per il genere umano, il problema vero è quello di ridare dignità a chiunque voglia essere parte viva di un grande cambiamento morale e culturale. Ripartire dal lavoro significa ripartire dall’animo umano, quell’animo che è stato per troppo tempo usato e sfruttato da gente senza cuore, che ha pensato più a se stessa che agli altri. Oggi forse qualcosa si sta muovendo, ma occorre che tutti ne siano convinti e che si faccia quel passo decisivo che vada oltre la demagogia, il razzismo e ogni forma di prevenzione nei confronti di quella natura umana che ha mille modi e mille forme per sorprendere ed entusiasmare.