Il fiume che sfama. Il fiume luogo di crescita. Ora che la riscoperta del Bardello, grazie al completamento della pista ciclopedonale lungo le sue rive, opera dell’amministrazione comunale, permette a migliaia di utenti di godere della bellezza di luoghi mai apprezzati prima, è significativo ascoltare chi ne ha assaporato i più profondi palpiti fin da bambino e per lui è stato simbolo di vita. Ieri (29 maggio) i poeti dialettali Francangelo Gianella, 74 anni e Sergio Moreni, 78 anni, hanno avuto un contesto privilegiato per raccontare la loro esperienza a contatto del fiume nell’ambito della rassegna “Fiume in piena”, organizzato dalla Compagnia Duse, in collaborazione con il Comune: lungo le stesse rive, di fronte a chi passeggiando si è fermato ad ascoltare. Così è stato come se il Bardello avesse sfogliato le pagine della sua esistenza. Quella che noi non potevamo immaginare. Con gli occhi della mente si sono visti i bambini che lo consideravano palestra di vita e d’estate vi trascorrevano giornate intere, nuotando nei canali creati dagli stabilimenti che traevano energia dalle acque, belle e pulite. Senza dimenticare l’altro divertimento: quello della pesca. I ragazzi si limitavano a una canna di bambù, un filo con un tappo della bottiglia in cui, come amo, inserivano uno spillo. Ma era la pesca effettuata dai nonni e dai papà era quella importante: si sono illuminati gli occhi a tutti e due i poeti quando sono entrati in questo argomento, memori dei ricordi di famiglia: “Il Bardello ha contribuito al sostentamento delle nostre famiglie. Quando in tempo di guerra non c’era nulla da mangiare -ha ricordato Moreni- mio nonno prendeva il “casciafund”, una specie di bilancia e i cavedani, i barbi, le anguille, le trote, le carpe erano a disposizione”. “O anche il guadino, un tipo di imbuto a doppio fondo”, ha spiegato Giannella. Rabbia e tristezza si sono fuse negli occhi di Moreni quando ha ricordato un giorno del 1958 in cui per uno scarico nel fiume da parte di una ditta “un patrimonio millenario è scomparso e i pesci galleggiarono morti fino al lago Maggiore”. Le immagini di vita sono riprese con il ricordo delle donne che scendevano al fiume a lavare, simbolo di fatica, con le ceste di vimini, cariche di panni. D’inverno invece il luogo prescelto era il lavatoio, generalmente alimentato da sorgenti che mitigavano la temperatura. “L’acqua scorreva meglio di adesso – è intervenuto Giannella- al punto che dalla Bozza, dove è posizionata la foce, al Marzotto di Brebbia il fiume era navigabile: i proprietari tagliavano le piante lungo le acque per evitare che vi cadessero dentro e i tronchi venivano trasportati in un punto dove li aspettavano i carri trainati dai buoi”. E’ un ricordo vivo quello del ghiaccio che si formava nelle insenature verso il lago Maggiore. Era prezioso: arricchiva le ghiacciaie. Un ennesimo dono del fiume.
Federica Lucchini