INTERVISTA A UN PROFESSORE di Felice Magnani
Professore, nella sua scelta professionale è stato determinante l’amore per i giovani?
L’amore è la chiave di lettura dell’animo umano. Ho imparato a mia spese che prima di spiegare Leopardi o Manzoni occorreva creare una disponibilità fisica e mentale, quell’armonia che concilia e favorisce il passaggio emotivo della comunicazione. Ho conosciuto docenti molto preparati, che non riuscivano a insegnare. Il loro vero problema era il rapporto con i ragazzi, l’incapacità di stabilire il contatto, di accendere la luce, di capire i loro problemi, le loro ansie e le loro attese. L’esperienza vissuta con i giovani degli Ospizi Civili di Piacenza mi ha fatto capire molte cose, ma ho imparato strada facendo, mettendomi spesso in discussione e cercando dentro di me le risposte più adeguate. Scavare dentro se stessi significa compiere un importante percorso di apprendimento cognitivo, perché i segreti sono dentro di noi e il nostro compito primario è quello di individuarli e conoscerli, proprio come ha insegnato uno dei più grandi filosofi della storia, quel Socrate che insegnava ai giovani di Atene l’importanza di conoscere se stessi La mia esperienza professionale è stata contrassegnata da episodi che sono diventati gl’indicatori di tutta la mia attività. Spesso i docenti si limitano a un giudizio sommario, fondato sulla estemporaneità di un’interrogazione o di un giudizio, dettata dall’inquietudine di un impulso. A volte si pensa che i giovani insegnanti siano i meno attrezzati, la verità è che ci sono docenti che non cambiano, neppure dopo trent’anni d’insegnamento. Ho conosciuto colleghi che limitavano il loro intervento a un freddo passaggio di nozioni, di giudizi e sanzioni. Ho conosciuto docenti che si nascondevano dietro esacerbati formalismi. Credo che l’amore a tutto campo sia la chiave che permetta di conoscere e di capire bene, fino in fondo, l’animo umano.
Lei ha parlato di episodi, ce ne descriva qualcuno.
Giunge una telefonata che rompe una sfibrante attesa. Dopo giorni e giorni di speranza, finalmente arriva il lavoro e la possibilità di guadagnare. La scuola è grande, periferica, il preside è un ometto grassottello, con un bel viso rubicondo, due occhietti penetranti e un paio di occhiali da vista, appoggiati sulla gobba del naso. Mi fa accomodare. Mi racconta di due classi terribili, di insegnanti che hanno provato e se ne sono andati. Senza mezzi termini mi sputa in faccia la verità e conclude: “Se le va è così, altrimenti…”. Esco dallo studio confuso e disorientato. La mattina seguente entro in terza. I ragazzi sono seduti sui davanzali, le sedie sono vuote, i banchi pure, nell’aula regna un clima da ammutinamento. “Per cortesia, andate al vostro posto!”. Nessuno si muove. L’atmosfera è incandescente. Gli sguardi sono assassini. Non risolvo nulla. Torno a casa distrutto. Sono solo agl’inizi. Il primo impulso è quello di cambiare mestiere, poi la luce si accende e il cuore detta le sue leggi. Le prediche non aiutano, serve una iniziativa che favorisca il dialogo e la comprensione. Penso a Leopardi, a Ungaretti, a Manzoni, a tutti quei bravi autori letti e riletti in anni di studi, ma nessuno di loro è in grado di aiutarmi. Cerco disperatamente dentro di me e finalmente arriva lui, il pallone. Parlo di calcio e invito tutti a giocare una bella partita sul campetto dell’oratorio del loro quartiere. Centro l’obiettivo. Qualcuno afferma: “Finalmente un insegnante che capisce.”. La partita di calcio è l’inizio di un cammino. Tra una sfida e una discussione, spuntano stupende sensibilità e un rapporto bellissimo, destinato a far gridare al miracolo il preside, i miei colleghi e l’amministrazione. E’ stata dura, ma ho vinto la battaglia per la sopravvivenza. Da allora non ho più avuto dubbi, il dialogo, la ricerca e l’empatia sono il viatico di ogni relazione, l’umiltà, la passione, l’entusiasmo e la fantasia sono armi potentissime che possono cambiare le sorti di una battaglia.
C’è sempre qualcosa di inafferrabile che può cambiare la nostra vita
Non avrei mai immaginato di diventare insegnante, eppure lo sono diventato. Sono sicuro che dentro di me ci fossero tutte le condizioni necessarie, ma non ero pronto a raccoglierle, forse ero troppo distratto, ero troppo preso dal mio amore per lo sport in generale, calcio e ciclismo in particolare. Poi succede qualcosa che cambia la vita. Ci si rende conto che la strada è quella e che non sarebbe potuta essere altrimenti. Ho capito che stavo bene con i giovani e che avrei potuto fare qualcosa di importante per loro, soprattutto per quelli meno fortunati, quelli che di solito vengono messi da parte, perché considerati non adatti. Da studente mi rendevo conto che molti alunni venivano emarginati con giudizi dettati da un brutto voto o da comportamenti inadeguati. Nella maggior parte dei casi l’insegnante si limitava a un giudizio matematico, in molti casi rifiutava di mettersi in discussione. Durante la mia vita scolastica ho incontrato alunni considerati inadeguati, diventare lavoratori bravissimi e altrettanto bravissimi padri di famiglia, mentre al contrario, ho visto alunni celebrati e protetti, diventare degli emeriti falliti. Credo che un buon insegnante debba imparare a conoscere molto bene i propri alunni, partendo dal presupposto che tutti abbiano delle qualità che devono essere coltivate e stimolate con la giusta attenzione. Le soddisfazioni più belle non sono mai quelle scontate. Il bravo è bravo e basta, finisce sempre promosso con dei bei voti. E’ meraviglioso quando ti rendi conto che gli ultimi del girone fanno di tutto per dimostrarti il loro impegno e le loro capacità. Una volta, durante l’esame di terza media, un alunno, che durante tutto l’anno aveva fatto il lavativo con gran parte della classe docente del corso, pretese di essere interrogato sugli autori della letteratura italiana, perché voleva dimostrare la sua intelligenza, il suo affetto e la sua riconoscenza. I colleghi rimasero scioccati. Erano partiti con l’idea di aver a che fare con un alunno con dei limiti e invece hanno scoperto un giovane diverso, capace di spiegare con proprietà di linguaggio i contenuti d’esame.
Com’erano i rapporti tra colleghi?
Negli anni settanta molto buoni. Il clima risentiva dei riverberi della goliardia. Si scherzava e si sdrammatizzava, anche se ogni tanto la politica faceva capolino. Non era comunque la politica dell’odio di classe, del pregiudizio ideologico, sperimentata nelle aule universitarie, durante la rivoluzione sessantottina, era un istinto all’autodifesa da parte di una classe docente che non condivideva sempre la personalità dei vecchi presidi, quelli col panciotto, le lenti fortissime e l’abito classico. Negli anni ottanta le cose cominciavano a cambiare. Si è assistito a un allentamento della pressione statale e a un progressivo decorso verso forme di responsabilità periferiche, sotto forma di sperimentazioni. Gli anni ottanta sono stati decisivi ai fini di un radicale cambiamento dei rapporti interpersonali tra docenti, docenti e dirigenti, docenti e alunni. I rapporti con i colleghi sono stati improntati a forme di solidarietà sociale. Ci sentivamo al centro di un grande cambiamento e quindi uniti nell’affrontare il radicalismo esponenziale di una grande riforma. Di fronte alle profonde mutazioni di costume e di contenuto ci si sentiva un po’ spiazzati e si cercava di trovare la giusta armonia per risolvere le difficoltà. Il dirigente non era più il vecchio preside tutto casa e cultura, ma l’uomo nuovo, cresciuto tra le utopie del sessantotto, tutto preso dalla smania di dimostrare la sua volontà di cambiamento. Gli anni novanta sono stati caratterizzati dal consolidamento di alcuni cambiamenti avviati nel decennio precedente. Anni di assestamento e proprio per questo non sempre facili. Il rapporto con i colleghi si è di nuovo dimensionato su divergenze d’impostazione sulle nuove linee didattiche, in modo particolare nei confronti di quelle educative. La classe non era più soltanto dell’insegnante di lettere, entrava una nuova figura, l’insegnanti di sostegno, in molti casi un pò incerto sul da farsi, non sempre per colpa sua. Il tempo prolungato cambiava in molti casi l’ordine temporale e strutturale, con adattamenti non sempre facili, sia per mancanza di locali adeguati sia per l’inadeguatezza rispetto ai nuovi criteri d’insegnamento delle discipline alternative. Il rapporto con i colleghi è stato spesso contrassegnato da punti di vista diversi, ma sostanzialmente convergenti. Alla fine degli anni novanta sono subentrate innovazioni che hanno di nuovo creato situazioni di panico e di disorientamento, mi riferisco alla politica degli accorpamenti e alla formazione degl’istituti comprensivi. Molte scuole sono state accorpate, perdendo la presidenza e la funzione amministrativa. Sono diventate dipendenti, con tutte le difficoltà di ordine comunicativo, educativo e di rapporti interpersonali. Nella maggior parte dei casi però, l’autonomia è stata voluta senza avere le basi necessarie per poterla reggere in modo adeguato. Per questa ragione alcune scuole hanno dovuto affrontare diverse difficoltà. I rapporti tra colleghi sono diventati più complicati, si è creata una profonda frattura tra vecchi e nuovi insegnanti, a causa di radicali diversità di valutazione sui tempi in questione. La democrazia è stata sostituita da forme di verticismo decisionale. I dirigenti sono diventati capi indiscussi di realtà disorientate, sempre più divise sul piano dell’impostazione scolastica. La crisi delle relazioni interpersonali ha avuto il suo apice con la richiesta di collocazione a riposo di numerosi docenti, stroncati da un accanimento senza precedenti.
Parliamo dei ragazzi. Che tipo di cambiamento si è verificato, in particolare sul piano educativo, dagli anni settanta al duemila ?
Il cambiamento è stato radicale. Negli anni sessanta, settanta e ottanta gli alunni sentivano ancora il peso educativo della famiglia e della scuola. Era molto difficile che si lasciassero trascinare da comportamenti trasgressivi, perché erano consapevoli che la risposta sarebbe stata adeguata. In qualche caso i problemi ci sono stati, ma si risolvevano abbastanza velocemente e senza strascichi di carattere disciplinare. La famiglia era coesa e la scuola era amata e rispettata. In seguito la famiglia ha allentato la presa e la scuola ha perso d’autorità. I ragazzi hanno capito che potevano diventare padroni del campo e lo hanno fatto, con la complicità di un mondo adulto alle prese con la più grande crisi esistenziale della sua storia. Famiglie in difficoltà, riforme che hanno in parte divelto quei paletti disciplinari che avevano caratterizzato i decenni precedenti. Via il voto di condotta, via gli esami a ottobre, i ragazzi si sono sentiti padroni della situazione, mettendosi sul piano di uno scontro frontale con il potere. A questa situazione hanno contribuito anche docenti non adatti a svolgere il loro ruolo, in particolare sul piano dell’applicazione di quei principi disciplinari che sono la base per una corretta convivenza civile. A tutto questo va aggiunto l’inserimento “selvaggio” di alunni extracomunitari, privi delle più elementari conoscenze della lingua italiana. Nella maggior parte dei casi i docenti hanno dovuto inventarsi la scuola, non avendo strutture e infrastrutture adeguate alle esigenze di un sistema in rapida evoluzione. La società civile in tutto questo ha le sue colpe, perché ha fornito modelli negativi: garantismo portato all’esasperazione, iper protezionismo, frantumazione di alcuni valori tradizionali, superficialità e inadeguatezza di comportamenti hanno creato i presupposti di un sistema sempre più fragile e poco credibile. I giovani hanno capito che quel mondo adulto diventava sempre più fragile, così ne hanno assorbito gli aspetti deteriori. Nella mia ultratrentennale esperienza ho visto scene assurde e mi sono chiesto come certi insegnanti potessero resistere. Parolacce, intimidazioni, bestemmie, assoluta mancanza di rispetto, trasgressioni e prevaricazioni hanno caratterizzato l’esperienza scolastica di molti docenti. In alcune scuole italiane ed europee si sono sviluppate forme di delinquenza minorile che hanno trovato nella scuola stessa il loro habitat ambientale. Alcuni paesi come la Francia e la Gran Bretagna hanno dovuto fare ricorso a decisioni legislative estreme, per arginare questo tipo di fenomeno, mentre l’Italia si è accontentata di delegare tutto il peso educativo alla classe insegnante, priva naturalmente del decisivo supporto della famiglia, diventata nel frattempo prevaricante rispetto alla classe insegnante. In moltissimi casi la famiglia si è opposta al docente, rafforzando la trasgressività dei propri figli. Mi è capitato di essere spettatore di aggressività perpetrate da genitori nei confronti di docenti colpevoli di aver agito con fermezza per tutelare la propria incolumità fisica e la propria dignità personale.
Mi sembra di capire che ai docenti siano mancati gli strumenti per tutelarsi dagli attacchi del mondo esterno. E’ così?
L’unica vera arma dell’insegnante è la sua capacità di saper interagire con alunni, genitori, dirigenti scolastici, bidelli e apparati amministrativi. Oggi più che mai si richiede un’ottima capacità di mediazione. L’insegnante deve sapersi confrontare con le problematiche e trovare le soluzioni adeguate. Credo di poter affermare che sia finita l’epoca del giustizialismo castale, oggi occorre possedere una buona dose di psicologia comunicativa, di empatia soprattutto. Se un docente si lascia trasportare dal mito del ruolo, è finito. Il mondo che gli sta davanti è intransigente e irremovibile e, soprattutto, è sempre pronto ad attaccare, in molti casi per nascondere le proprie fragilità. Le punizioni sono ridotte all’osso, hanno un valore molto relativo e non creano le condizioni di un effettivo cambiamento di carattere educativo. Il calo d’autorità e di autorevolezza che ha permeato la società italiana, ha attraversato il sistema scolastico, lasciando sul campo idealismi ridotti a brandelli. E’ assolutamente necessaria una scuola con più entusiasmo, con più passione, con più voglia di mettersi alla prova sulle sfide della vita e della storia, una scuola che sappia interagire quotidianamente con la società civile, mettendo in campo tutta la sua forza creativa. La scuola deve fare la sua parte, così come tutte le agenzie educative presenti sul territorio. Fermezza e decisionismo sono necessari per rimediare le inadeguatezze di un sistema basato troppo spesso sulla paura e sul superpotere di una parte rispetto all’altra. Bisogna che ci siano una classe docente e una classe dirigente molto preparate e dotate di tutti gli strumenti necessari per ricreare un sistema per troppo tempo abbandonato a se stesso.
Professore, non pensa che l’educazione fisica sia ridotta ai minimi termini e che lo sport potrebbe essere il rimedio a tanta aggressività?
Due ore settimanali servono a poco. L’educazione fisica dovrebbe avere un ruolo fondamentale nella crescita fisica, mentale e culturale delle giovani generazioni, mentre invece è stata relegata a un ruolo subalterno, privata di protocolli seri, senza strutture adeguate. Qualcuno deve essersi dimenticato del famoso detto latino: “Mens sana in corpore sano”. Lo sport rappresenta un grande antidoto al disagio dilagante che si è impadronito del sociale in generale e della scuola in particolare, occorre quindi che si proceda a una revisione radicale del modo di essere all’interno della società, manca infatti una cultura dello sport che permetta agli alunni di conoscere e di capire verso quale disciplina orientarsi, è assolutamente necessario rivedere i protocolli, in modo tale che l’attività motoria produca quegli effetti benefici che cambiano in meglio la vita stessa delle persone. Lo sport favorisce una crescita equilibrata, scarica l’aggressività, orienta i giovani a una gestione equilibrata dei livelli emozionali, dà sicurezza, insegna ad affrontare con la giusta razionalità le sconfitte e le vittorie, allena il fisico e la mente, allontana lo stress ed alimenta il benessere della persona. Per tutte queste ragioni è assolutamente necessario che lo stato dia delle indicazioni precise, anche di tipo costituzionale se necessario, per migliorare la qualità di vita dei suoi cittadini. Credo sia necessario adeguare il sistema scolastico alla necessità di poter contare su palestre attrezzate, su aree verdi e ambienti dentro i quali poter sviluppare varie forme di socialità, la scuola sente fortemente la necessità di uscire da quegli schemi preconfezionati in cui è stata relegata per parecchio tempo, sente il bisogno di essere parte viva e operativa di una società che ha bisogno dei giovani e della cultura per rispondere positivamente ai bisogni di un mondo che cambia. E’necessario che il mondo torni a parlare un linguaggio che entusiasmi, che sappia interagire positivamente, che unisca le volontà nel rispetto delle diversità, che faccia sentire i giovani presenza viva e attiva all’interno della società civile. E’ necessaria una scuola più dentro la storia, che sappia collaborare alla costruzione del nuovo che avanza. I giovani hanno fantasia, passione ed entusiasmo da vendere, hanno solo bisogno di una scuola che li sappia avviare verso una più approfondita presa di coscienza delle proprie potenzialità, che li sappia valorizzare e stimolare con la giusta determinazione e la giusta fermezza.
Professore, cosa pensa delle riforme scolastiche post gentiliane ?
Sono state spesso dei fallimenti, perché realizzate in fretta e con il solo scopo di dimostrare un certo tipo di efficienza politica. Sappiamo benissimo che se la politica è di parte, deve dimostrare innanzitutto l’efficienza di quella parte. Io sono sempre stato convinto che le riforme debbano coinvolgere tutti. La scuola è un patrimonio nazionale, per cui tutti i suoi rappresentanti dovrebbero concorrere alla creazione di una corretta riforma, fuori da pregiudiziali di ordine ideologico e partitico. Una buona riforma richiede tempo, sia nella fase ideativa, elaborativa, sia in quella applicativa e realizzativa. Le cose fatte in fretta per compiacere hanno sempre prodotto e continuano a produrre cattivi risultati. Spesso le riforme sono partite da presupposti sbagliati, non hanno potenziato a sufficienza il ruolo docente, perno del sistema scolastico. I nostri politici non hanno capito che se un insegnante è valido ed è ben motivato, risolve al novanta per cento i problemi, con buona armonia di tutti: alunni, famiglie e società civile. Se si creano persone frustrate non c’è riforma che tenga,i problemi continueranno a frenare la voglia di crescere dell’intero sistema scolastico. Il docente è stato per troppo tempo vilipeso, sbeffeggiato, preso in giro, è diventato oggetto di una satira impietosa, è stato spesso sottoposto a varie forme di aggressività da parte di genitori, alunni, ha vissuto e vive costantemente in uno stato di paura, in molti casi non sa più come esercitare il proprio ruolo, come uscire da un circolo vizioso che gli impedisce di essere se stesso, di poter dimostrare il proprio carattere, la propria cultura e il proprio valore sociale. La cultura italiana ha fatto poco o nulla per valorizzare la figura dell’insegnante. Il docente povero era e povero è rimasto. Se è fortunato vive bene, altrimenti tira la cinghia e cade la sua base vocazionale e missionaria, l’unica che possa fare di un laureato un bravo insegnante. Le riforme tendono a spingersi in avanti, a voler dimostrare che la libertà e la democrazia non hanno confini, che l’impegno conta più del salario mensile, che la telematica risolve tutti i problemi e regala la felicità. L’utopia imprenditoriale del terzo millennio è che l’alfabetizzazione del mondo passi attraverso il computer. Il profitto ha lanciato la sua sfida, creando le condizioni di una pianificazione assolutoria che metta d’accordo tutti, bravi e cattivi, letterati e illetterati. Uno straordinario patrimonio di fantasia creativa, di manualità e di abilità motoria sta per essere sepolto da incredibili forme di dipendenza e di sudditanza. I soloni della politica sbraitano contro il fenomeno delle dipendenze e poi sono i primi a crearlo. Credo che le riforme post-gentiliane abbiano completamente dimenticato l’educazione, la disciplina, lo spirito di sacrificio, l’autorevolezza del docente, la bellezza della cultura e soprattutto l’importanza della nostra lingua italiana. La quantità si è sostituita alla qualità, l’assillo occupazionale ha stravolto rapporti consolidati, il problema più importante è fare tutto e il contrario di tutto, dimostrare al mondo la propria multietnicità, la propria vocazione linguistica europea, la propria attitudine tecnologica. Verrà un giorno in cui non avremo più poeti e scrittori, filosofi e pensatori, ma soltanto robot che si muoveranno su comando. Le riforme hanno trascurato la ricerca, la vocazione all’approfondimento educativo, il profilo lavorativo, il merito, l’applicazione, la collaborazione, il valore stesso della ricerca. La storia del docente è priva di gratificazioni morali e materiali. Ho conosciuto ottimi insegnanti, che avrebbero potuto fare la fortuna della scuola, segregati in vergognose apartheid.
Professore, mi sembra di capire che i problemi veri della scuola non siano solo gli alunni, come qualcuno vorrebbe far credere .
Gli alunni diventano problemi se tutto il resto è problematico. Di solito un insegnante in gamba non ha problemi, perché sa trovare sempre il modo di risolverli. Non ha bisogno di psicologi, di medici e di sociologi, le sue rogne se le gratta da solo e diventa un vincente. Se un insegnante non ha voglia di impegnarsi a fondo o non è adatto diventa lo zimbello della classe e vive un’espiazione infinita, fatta di lacrime, di nevrosi acute, di scatti incontrollati e di assenze prolungate. Una buona riforma scolastica dovrebbe essere in grado di capire chi è in grado d’insegnare e chi no, chi può continuare e chi dovrebbe trovare soluzioni alternative. I problemi della scuola non sono gli alunni, ma l’organizzazione generale dell’istituzione. Una scuola che non cura l’aspetto relazionale non è una buona scuola, una scuola che non dà importanza all’educazione non prepara buoni cittadini, una scuola che delega tutto o quasi al computer crea dipendenza e robotizzazione, una scuola che trascura la nostra tradizione culturale per favorirne altre viene meno alla propria identità e alle proprie tradizioni, una scuola che mette in secondo piano la storia e la poesia come strumenti formativi è una scuola senz’anima che condanna la vita stessa dei sentimenti, la parte più bella della nostra tradizione nazionale, a una ignobile decadenza. Molti pensano che la scuola debba diventare la ruota di scorta del sistema imprenditoriale, affiliata all’icona tecnologica, senza rendersi conto che la formazione della personalità passa attraverso la conoscenza di sé e del mondo, nelle sue mutevoli diversità. Andare a scuola significa diventare cittadini consapevoli, coscienti del proprio ruolo, persone che imparano a conoscersi e a valutarsi. I veri problemi della scuola nascono da chi non l’ama e pretende di costruirla a propria immagine e somiglianza, pensando che i problemi dei ragazzi si possano risolvere con la lingua inglese e un bel computer perennemente a disposizione. Non è così. La scuola è anche molto altro. E’ umanità che si dispiega nella bellezza del suo divenire, assunzione di comportamenti responsabili, che trovano riscontri nella vita reale. Forse i nostri politici non sanno che se i giovani non hanno di fronte a sé esempi credibili, cresceranno confusi e arrabbiati. Scuola e società devono interagire, devono incontrarsi e riconoscersi, devono imparare a collaborare se vogliamo costruire un futuro solido, privo di ipocrisie e di inaffidabilità. Credo che occorra fare molto per ridare forza ed entusiasmo al nostro sistema scolastico, in particolare agl’insegnanti, pagandoli meglio e mettendoli al riparo da diverse forme di aggressività sociale. Un bravo insegnante deve guadagnare un buon salario e deve poter fare carriera sia nel campo della ricerca sia in quello delle responsabilità scolastiche generali. E’ turpe e vile condannare all’immobilismo persone dotate di ampi margini di cultura e di capacità operative. Il docente deve poter accedere a una carriera, deve poter operare con modalità diverse, così come succede nei paesi europei come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, se vogliamo che la scuola diventi un cantiere aperto di idealità, di creatività, di ricerca, di interesse e di entusiasmo operativo. La scuola italiana è piuttosto fragile e proprio per questo incapace di rispondere con fermezza e determinazione alla domanda di un mondo in continua e rapida evoluzione.
Professore, lei ha quasi sempre insegnato nella scuola media inferiore con ottimi risultati, non ha mai pensato di fare un salto di qualità?
Non ho mai creduto e continuo a non credere che la soddisfazione di un insegnante dipenda da un ordine gerarchico. Essere insegnanti significa dedicarsi con passione ai giovani, ai loro bisogni umani e culturali, al loro desiderio di apprendere e di sentirsi parte viva e attiva di una società. L’insegnante è colui il quale si batte con generosità e professionalità per il ben-essere dei suoi alunni, indipendentemente dalla loro età e da tutte quelle sovrastrutture di carattere pregiudiziale che penalizzano l’essenza stessa dell’attività lavorativa. Diceva M.L.King, l’indimenticabile eroe dell’emancipazione dei neri d’America, che tutti i lavori hanno pari dignità sociale e che la differenza sta nell’impegno e nella dedizione con cui si fa il proprio dovere. Io sono felice di aver insegnato nelle scuole medie inferiori, ho avuto molte soddisfazioni e i giovani sono sempre stati la mia arma vincente. Inferiore, non significa minor capacità culturale, non è un’appartenenza sociale, una forma di catalogazione razzistica, è l’esplicitazione di una fondamentale fase di transizione, che ne precede altre. Ogni passaggio ha bisogno di specialisti di settore, perché ogni età ha delle peculiarità che richiedono specificità di ordine pedagogico, psicologico, culturale e dialogico. E’ più facile che un docente delle scuole medie inferiori possa insegnare alle superiori e non viceversa, per sottilissime ragioni di ordine pedagogico. Noi italiani siamo ancorati a modi di pensare assolutamente assurdi. E’ tempo che impariamo ad abbandonare tutti quei pregiudizi che hanno contribuito a determinare la divisione della nostra società in caste. Non è assolutamente vero che chi insegna alle superiori o all’università è più intelligente o più preparato di un docente che insegna alle elementari o alle scuole medie inferiori, è solo una questione di scelta, di vocazione, di responsabilità individuali, di inclinazioni verso una parte della costruzione educativa. L’importante è essere professionalmente preparati, adatti a svolgere i propri compiti con la dedizione necessaria, con la giusta passione, con il giusto entusiasmo, consapevoli che siamo tutti indispensabili, nessuno escluso. Per questa ragione non dovrebbero esistere discriminazioni economiche o di altro genere. Il lavoro è unione di energie che si collegano in una solidale complementarietà. Ogni lavoro è importante, non esistono lavori di serie A e di serie B. Sarebbe veramente assurdo discriminare i cittadini per quello che fanno, semmai per come lo fanno. Sono un profondo ammiratore degl’insegnanti delle scuole materne e delle scuole elementari, a cui va tutta la mia umana solidarietà. Sono persone preparatissime e il loro compito è estremamente delicato. Sono i pilastri della costruzione educativa della scuola. Credo che il maestro e la maestra siano figure irripetibili. Mi è capitato di incontrare persone che avevano una stranissima filosofia di vita, secondo la quale chi occupava il gradino più alto era riverito, amato e rispettato. Niente di più falso. Molto spesso siamo spettatori di persone che occupano posti molto elevati nella scala sociale e che gestiscono malissimo il potere. Spesso l’intelligenza si trova a fare i conti con l’invidia, la cattiveria, l’egoismo, con tutte quelle negatività che la rendono impotente. Capita sempre più di frequente che negli ambienti di lavoro circoli il “mobbing”, l’isolamento programmato di lavoratori molto apprezzati e molto bravi. Viviamo in una società che fa molta fatica e i nostri giovani lo sanno bene. La loro rabbia è reazione all’incoerenza del mondo adulto, un mondo che parla bene e razzola male. I giovani sanno stimare, voler bene, apprezzare, mentre il mondo degli adulti è spesso incapace di svolgere con una giusta e adeguata determinazione il proprio lavoro, lasciando troppo spesso ampi spazi a varie forme di frustrazione.
Mi racconti un momento particolarmente bello della sua vita d’insegnante.
I momenti belli sono tanti, per fortuna. Ce n’è uno, in particolare, che porto nel cuore, perché mi ha toccato profondamente e mi ha fatto capire molte cose. M. era un ragazzino vivacissimo, esuberante, incontenibile, era la disperazione dei docenti della classe in cui era stato inserito. Era un giovane con tanti problemi. Viveva in una roulotte, in montagna, non aveva nessun genere di conforto, neppure l’acqua per lavarsi, doveva arrangiarsi. Il suo vero problema era quello di dover imparare a sopravvivere in un mondo che gl’impediva di vedere chiaro e lontano. Cercavo di fargli capire che la scuola non era una prigione gestita da guardiani senz’anima, ma un luogo dov’era possibile cercare e trovare delle risposte a molti dubbi e incertezze, con l’aiuto di una figura un po’ strana: l’insegnante. I ragazzi con dei problemi, in molti casi sono più svegli degli altri, hanno una rapidità di percezione eccezionale. M. ha capito al volo che qualcosa nel suo percorso stava cambiando in meglio. Lo incoraggiavo, lo valorizzavo, gli facevo capire in tutti i modi possibili che avrebbe dovuto essere lui l’artefice di un radicale cambiamento del suo carattere, se avesse messo in pratica alcuni insegnamenti fondamentali. Lo facevo sentire importante, anche a costo di dimenticarmi un pochino dei bravissimi della classe, quegli alunni senza intoppi familiari, con l’unico problema del voto più bello. Lo andavo a trovare spesso, in bicicletta. Mi raccontava le sue difficoltà e io cercavo di in tutti i modi di fargli capire che il suo futuro era a portata di mano e che lui solo ne era l’artefice. Lo stimavo, cercavo insomma di fargli comprendere che la matematica e la storia non erano tutto nella vita e che se si fosse impegnato con grande determinazione sarebbe diventato un bravo lavoratore e un apprezzato cittadino. Mi ascoltava, capivo che apprezzava moltissimo la fiducia che riponevo in lui. Mi ripagava scrivendo cinque, sei, sette pagine di tema, poi alzava la mano perché voleva leggerle davanti a tutti, ci teneva tantissimo. Dopo la terza media, ogni tanto lo vedevo spuntare. Bussava e veniva a trovarmi, rinnovandomi la sua stima. Poi un giorno è arrivato con un “regalino”. “Prof, mi sposo, desidero che sia presente al mio matrimonio”. Mi sono commosso, ho trattenuto a stento le lacrime. Infierire su ragazzi in difficoltà è pazzesco, condurli verso un porto di quiete e di speranza è un dovere morale e sociale. Se Matteo non mi avesse incontrato forse si sarebbe perso. Insegnare è un’arte, non basta giudicare un allievo sulla base di interrogazioni formali, occorre aiutarlo a conoscersi, con la giusta fermezza se necessario. M. è stato un banco di prova straordinario, grazie a lui ho imparato qualcosa di molto importante del mio lavoro. Spesso l’insegnante pensa di esser lui l’unico a insegnare, non si rende conto che è il primo a dover imparare, i giovani sono dei comunicatori abilissimi e non è sempre facile apprendere i loro segnali, la loro voglia di trasmettere emozioni e sensazioni, la loro disponibilità all’apprendimento. I giovani vogliono contare, vogliono essere protagonisti della realtà che li riguarda, desiderano essere trattati da uomini e donne, non amano atteggiamenti di condanna o di emarginazione, in molti casi sono stati messi da parte dalla vita stessa, pertanto cercano una rivincita sociale nella scuola, nell’affetto di insegnanti che si prendano a cuore del loro desiderio di aiuto e di comprensione. Molti alunni sono cresciuti detestando la scuola, perché sono stati trattati senza la giusta attenzione. Spesso le ferite non si rimarginano, nemmeno col passare del tempo, in molti casi rimangono aperte per sempre e questo è un vero peccato.
Parliamo della severità. Su questo tema si dibatte molto e i pareri sono molto diversi. Lei cosa pensa?
Io sono passato alla storia per essere stato un insegnante severo, temuto e rispettato. Mi è capitato spesso di ascoltare colleghi i quali affermavano che i miei alunni stavano zitti perché avevano paura, temevano le mie reazioni. In alcune circostanze hanno persino tentato di far diventare colpa una virtù. In questo hanno avuto l’appoggio di qualcuno un po’ invidioso del fatto che godessi l’appoggio dei genitori. Nella mia ultratrentennale esperienza educativa non ho mai avuto problemi con la classe, ho sempre stabilito un ottimo rapporto con gli alunni, rispettandoli e facendomi rispettare. Il primo passo che un insegnante deve fare, con grande sincerità e spontaneità, è rispettare le persone che gli stanno di fronte. Rispettare significa stabilire un dialogo basato sulla fiducia reciproca, privo di ipocrisie, fondato soprattutto sulla chiarezza e sulla lealtà. Ho sempre pensato che i miei alunni fossero degni di tutta la mia stima e che dovessi trattarli con tutta l’attenzione possibile. Con loro parlavo della scuola e della società civile, parlavo soprattutto di me, delle mie gioie e delle mie difficoltà, del passato e del presente, creando un confronto generazionale molto costruttivo. Non ho mai fatto distinzioni, non ho mai avuto preferenze, ho sempre trattato tutti allo stesso modo, ho cercato di fa vivere la storia, la fiaba, la poesia, il racconto, la vita di tutti i giorni con i suoi pro e i suoi contro. Spesso drammatizzavo situazioni e personaggi, per creare la giusta ilarità, una sorta di coinvolgimento empatico che stuzzicasse la loro voglia di sentirsi chiamati direttamente in causa. Non ho mai lasciato tempi vuoti, ho riempito ogni attimo, cercando di coinvolgerli in prima persona nella soluzione dei problemi. C’erano colleghi che si lamentavano di questo e di quello, volevano una classe piuttosto di un’altra, un alunno bravo al posto di uno vivace, io ho sempre accettato tutti e ho sempre aiutato tutti. In che cosa consisteva la mia serenità? Nel saper stare con i ragazzi senza lamentarmi e senza che loro avessero motivi per lamentarsi del loro insegnante. Non ho mai messo note sul registro, non ne ho mai avuto bisogno, (forse una, inevitabile per non far gridare allo scandalo un consiglio di classe troppo nervoso). Ho sempre pensato che le note fossero il fallimento educativo dell’insegnante. La miglior punizione doveva essere un pacato confronto educativo, improntato sulla costruzione di una ferma razionalità e di un maturo rispetto reciproco. Avevo dei colleghi che pretendevano la classe su un piatto d’argento: tranquilla, attenta, silenziosa, interessata. Secondo loro l’insegnante di lettere doveva essere il mago della situazione, l’uomo della bacchetta magica, colui il quale doveva risolvere sempre i problemi di tutti, forse non si rendevano conto che ogni insegnante è fondamentale e che grazie al contributo di tutti la famiglia e la scuola diventano trainanti sul piano della formazione.
Professore, nel corso della sua carriera ha avuto molti presidi, uomini e donne, mi può dire con chi si è trovato meglio e perché?
Dal settantotto in poi ho avuto quasi sempre presidi donne. Non sono mai stato maschilista, ho sempre pensato che l’uomo e la donna dovessero godere di pari opportunità. Credo che l’impegno direttivo di una donna sia doppiamente faticoso, perché se ha una famiglia dovrà sicuramente occuparsi dei figli, anche se oggi esistono strutture pubbliche che possono supportare molto bene gl’impegni dei genitori, mi riferisco agli asili nido, alle scuole materne e a varie forme di coinvolgimento sociale. Il vecchio preside, quello col panciotto per intenderci, era una figura di prestigio. Arrivava al posto di comando quasi al termine della carriera, dopo anni di servizio integerrimo e con la fama di persona estremamente colta, equilibrata e decisa. Era l’unico e indiscusso riferimento della scuola, l’autorità che incuteva disciplina e rispetto un po’ a tutti, alunni, docenti, genitori, bidelli e personale amministrativo. Era avvicinabile, ma secondo stili e forme molto precisi. Era il vero capo della scuola. Il suo potere, dettato in gran parte dal suo elevato budget culturale, lo metteva su una sorta di piedistallo, in virtù dell’esperienza che aveva accumulato, sapeva conciliare benissimo tutti i problemi della scuola, soprattutto quelli più difficili da gestire. Non era ancora spuntato il potere sindacale, con la sua forza mediale e contrattuale. All’inizio degli anni settanta docenti sindacalizzati iniziavano a controbattere posizioni ritenute troppo autoritarie. Il preside col panciotto ha resistito in modo eroico, ribattendo colpo su colpo, ma poi ha dovuto ammorbidirsi, convinto di non riuscire a tenere testa a un fronte troppo vasto. Si è arrivati ai primi compromessi, ai primi tentativi di riforme, alla sindacalizzazione del sistema scolastico, con la conseguente perdita di potere del vecchio preside, il quale cominciava a pensare sempre più spesso alla pensione, come porto franco di una situazione diventata ormai insostenibile. Io ero affezionatissimo al vecchio preside, piuttosto burbero e preciso, al quale avevo spesso tolto le castagne dal fuoco. Mi apprezzava e mi portava come esempio non solo ai colleghi più giovani, ma anche ai più anziani, che non vedevano di buon occhio questa forma di sbilanciamento. Ero giovane e lo ascoltavo con grande interesse, perché il suo stile comunicativo mi affascinava. Era saggio, sapeva contemperare le varie esigenze e sapeva essere molto obiettivo nelle sue valutazioni. Ho avuto presidi donne molto intelligenti e anche molto preparate, sapevano sempre come affrontare un problema e come risolverlo con buona pace per tutti. E’ stato un inizio molto interessante, vissuto all’insegna della fiducia e della speranza. A un certo punto, per ragioni di carattere personale, ho cambiato regione e ho dovuto ricominciare tutto da capo, mantenendo però molto ben fermo l’aspetto educativo del mio metodo, che puntava soprattutto sulla capacità dei giovani di saper sognare, di sapersi emozionare, di far uscire allo scoperto quello straordinario mondo interiore che è capace di modificare radicalmente in positivo i caratteri delle persone. Ho continuato con la certezza che il rispetto reciproco fosse la base fondamentale sulla quale costruire un giusto e significativo rapporto relazionale.
La qualità? Lei l’ha provata, mi può esprimere il suo punto di vista?
La parola qualità ha fatto scattare il desiderio di avere a disposizione spazi adeguati, aule grandi, una bella palestra, una mensa adeguata, un bel giardino per la ricreazione dei ragazzi, un’organizzazione più efficiente, insegnanti pagati bene e sostenuti dagli apparati amministrativi e politici dello stato, attrezzature adeguate. Nessuno pensava che la qualità fosse una montagna di scartoffie burocratiche.
Com’è stata la sua esperienza con gli alunni extracomunitari?
Molto buona. In generale ho incontrato ragazzi educati e motivati, non mi hanno mai creato problemi e mi hanno sempre dimostrato stima e affetto, quindi il giudizio è ampiamente positivo. Ho incontrato problemi nell’organizzazione scolastica, perché la scuola non è mai riuscita a creare forme di recupero e di orientamento adeguate. La scuola italiana si è trovata impreparata a gestire situazioni completamente nuove sotto tutti i profili. Nella maggior parte dei casi si è optato per l’ammissione alla scuola media, adottando come unità di misura l’età degli alunni. 11 anni prima media, 12 anni seconda media, 13/14 anni terza media. Spesso, però, gli alunni non conoscevano la lingua italiana, quindi si è reso necessario far leva sulla disponibilità umana e vocazionale di quei docenti che dovevano completare l’orario. Le ore a disposizione erano molto limitate, gli strumenti molto carenti e non tutti i docenti accettavano. Io ho sempre dato una parte del mio tempo agli studenti extracomunitari, per una ragione di attenzione umana e culturale. Aiutare il prossimo è sempre una bella cosa, ancora di più quando questo prossimo si presenta con il sorriso ingenuo e onesto di ragazzi che si stanno aprendo alla vita. Anche dal punto di vista religioso non ci sono mai stati problemi. Abbiamo parlato e discusso di tutto, ma sempre con grande rispetto e curiosità culturale. I giovani saranno i veri protagonisti del nuovo mondo, perché stanno insieme senza pregiudizi e imparano a convivere con le diversità, in modo costruttivo. Nei giovani c’è una grande voglia di pace e di tranquillità, desiderano studiare, lavorare, costruirsi un futuro solido e sicuro, confrontarsi e capirsi. La strada è tracciata, è solo questione di tempo.
La pedagogia ha ancora un’importante funzione educativa ?
La pedagogia insegna che la cultura è una virtù e che va coltivata con saggezza, perché possa diventare strumento di redenzione morale, sociale, economica ed educativa di un paese. L’educazione richiama l’uomo all’assunzione di stili e comportamenti di vita rispettosi, pone al centro il tema della ricerca come momento di riflessione e di verifica, stimola la critica e l’autocritica, determina l’evoluzione di dinamiche introspettive, il tema dell’interazione e dei rapporti interpersonali, propone la ricerca e la sperimentazione come momenti di approfondimento educativo, studia strategie compatibili, cause ed effetti, crea le condizioni di un ripensamento di sistemi dati per scontati. Una democrazia matura dovrebbe avere dentro di sé una forte vocazione pedagogica, cioè la volontà di sottoporsi a giudizio educativo, di verificare costantemente i propri metodi, i propri sistemi, le proprie certezze. L’educazione è un processo dinamico e come tale soggetto a strategie e soluzioni che richiedono lo spazio del confronto, del dialogo e della discussione costruttiva. La politica ad esempio è un grandissimo strumento educativo, forse il più nobile e il più grande, perché riassume in sé i bisogni e le necessità dell’essere umano, ma sembra che sia diventato più facile far finta che non esista, per dare il via libera all’egoismo umano, intollerante di ogni forma di controllo. I grandi politici sono stati dei grandi educatori, hanno insegnato ad amare l’impegno, la fatica, la patria, la scuola, la famiglia, la fede, l’onestà, il rispetto. Gran parte della storia e della politica risorgimentale e quindi dell’unità nazionale è fondata sui grandi temi e valori dell’educazione. Poeti, scrittori, patrioti, politici e religiosi si sono sentiti responsabili di un profondo rinnovamento morale del nostro paese, adottando la funzione educativa come unica e vera risorsa del cambiamento. Il confronto politico deve avere una forte base pedagogica. Confrontarsi non vuol dire armare macchine da guerra per dimostrare chi è il più forte, ma semplicemente collaborare per costruire insieme il futuro della società. In un sistema democratico vero, fondato sul rispetto delle regole e sulla solidarietà sociale, non ci possono essere giovani che distruggono ciò che è stato costruito con fatica. La violenza è il frutto di stili e comportamenti che non tengono conto dell’etica umana. Compito della pedagogia politica è quello di risolvere alla radice ciò che genera odio e rancore, perché gli esseri umano imparino a convivere civilmente. Giustizia e legalità sociale devono essere i cardini della nuova società e la ricchezza deve essere al servizio della povertà, in un quadro di radicale trasformazione di costume. Il lavoro può essere la svolta decisiva. La cultura non deve spaccare le coscienze, mettendole le une contro le altre, ma deve fare in modo che tutte si sentano protagoniste di un grande cambiamento. Non giova alla politica urlare, sbeffeggiare, sfidare, oltraggiare, aggredire, perché la violenza riverbera su chi la ascolta e la osserva, generando inquietudine e turbamento. Da più parti si afferma che la nostra società sforni troppi comunicatori, la verità è che gli aspiranti sono tanti, ma sono veramente pochi coloro i quali fanno della comunicazione un’arte per cambiare in meglio le condizioni di vita delle persone. Chi si affaccia alla politica deve farlo con la consapevolezza di avere un grandissimo compito da svolgere, un compito che è innanzitutto e soprattutto di pubblico servizio e di esempio per tutti.
Professore, non crede di essere un po’ troppo pessimista ?
Credo che la cosa migliore sia quella di dire sempre la verità, anche quando la verità può sembrare noiosa, pesante. Dire la verità è una grande virtù, perché permette all’uomo di riflettere e di migliorarsi, di non commettere più gli errori del passato. Capisco che dire la verità in una società come la nostra significhi alienarsi le simpatie, fare una scelta di libertà che può comportare l’emarginazione, ma credo ne valga la pena. Dire la verità non significa fare del vittimismo o del catastrofismo, se affermo che l’insegnante vive una vita difficile, credo d’interpretare, con molto realismo, quella che è la sua condizione attuale. Non ho mai sentito, nel corso della mia ultratrentennale esperienza scolastica, insegnanti entusiasti, felici, appagati, realizzati. Ho raccolto, spessissimo, frustrazioni, frustrazioni e poi ancora frustrazioni. Se mi permette, qualcosa che non funziona in questa benedetta macchina dell’istruzione ci deve pur essere, altrimenti non esisterebbero frustrazioni così dilatate e radicalizzate nel costume docente. Non nego che ci siano anche delle soddisfazioni, ma il prezzo da pagare è altissimo e in molti casi il gioco non vale la candela. La grande fortuna del docente è che vive una perenne utopia, l’idea di essere l’artefice dei grandi cambiamenti epocali, paladino di una civiltà che umanizza con la sua bacchetta magica, creando le basi di una rinnovata saggezza. Guai se l’insegnante non avesse dentro questa inestimabile vocazione alla speranza e alla missionarietà, guai se non vivesse anche di utopie, in certi casi non troverebbe motivazioni sufficienti per arrivare alla fine del mese. La scuola, per essere gratificante, deve creare entusiasmo e l’entusiasmo nasce da una condizione di sicurezza economica e dalla possibilità di far carriera, di poter vivere ogni giorno con gioia e con la giusta dose di motivata passione. L’insegnante ha bisogno di sorridere. Se non si creeranno queste condizioni, avremo una classe docente sempre più stanca e frustrata. Il futuro parla soprattutto il linguaggio dell’educazione, di una riappropriazione di stili e modalità di comportamento che il benessere ha indebitamente tolto. Solo attraverso una profonda opera di rieducazione potremo dimostrare al mondo l’importanza di certi valori che abbiamo abbandonato per strada cammin facendo, solo così potremo sostenere il confronto costruttivo con le altre civiltà. Dobbiamo ricostruire la famiglia, la sua identità, la sua sacralità, il suo ruolo determinante nella vita dello stato e della società civile. L’insegnamento deve tornare a essere autorevole, sia negli strumenti sia nei contenuti. Il mondo degli adulti deve saper trasmettere esempi positivi, deve tirar fuori il meglio di sé, se vuole che i giovani crescano nel rispetto. La legge ha una grande funzione orientativa, regolativa e riabilitativa, ma non serve a nulla se non si preparano le coscienze, perché la legge possa trovare la sua sorgente in ciascuno di noi, nella nostra volontà positiva. La scuola ha una straordinaria funzione educativa e formativa, per questo deve potersi aprire in tutta la sua articolata complessità, mettendo in condizione i giovani di fare scelte di vera libertà culturale. In molti casi le difficoltà di comprensione nascono da forme di individualismo estremo, dettate da un culto sfrenato della personalità.
Professore, passiamo ai ricordi belli. Quale preside ricorda con particolare affetto e quale collega ?
Senza ombra di dubbio quello col panciotto e gli occhialini appoggiati sulla gobba del naso. All’inizio lo detestavo, poi ho imparato a stimarlo e a volergli bene. Era un piacentino nato e cresciuto, con tutti i pregi e i difetti della mia gente: diffidente, permaloso, chiuso, di poche parole, un po’ scontroso, ma estremamente intelligente e dotato di un grande senso del dovere. Per me è stato un esempio di professionalità. Mi ha insegnato la sofferenza, la fatica, il coraggio, l’amor proprio e la felicità di una conquista. Era affezionatissimo alle persone che lavoravano nella sua scuola e, anche nei momenti di maggior tensione non perdeva mai le staffe, cercava sempre di ricondurre i problemi nell’alveo di una pacata ragionevolezza. Lo ascoltavo volentieri e lui ascoltava volentieri me. Era molto pignolo, molto preciso. Controllava sistematicamente i registri dei verbali e voleva che si compilassero per esteso, fino all’ultima riga. Io ero il suo insegnante più giovane, mi apprezzava perché gli avevo risolto un problema piuttosto grosso, la disciplina di due classi terribili. Prima di me c’erano stati altri docenti che avevano gettato la spugna. Io no ceduto all’aggressività giovanile. Con testardaggine e determinazione gli ho tolto le castagne dal fuoco, rendendolo euforico. Mi portava spesso come esempio, anche a quegl’insegnanti piuttosto anziani che facevano lezione per metà in aula e per metà fuori, intimoriti dal carattere rivoluzionario delle classi. Ricordo che il clima del consiglio di classe era bellissimo. Si scherzava, si usciva insieme, ci si lanciavano battute ironiche, si strizzava l’occhio, ci si voleva veramente bene. Il clima era di natura squisitamente goliardica. Lui era un preside della vecchia guardia, arrivato al comando per anzianità di servizio, per la positività della sua carriera di docente e, naturalmente, per aver superato l’esame di concorso. Era un uomo di grande cultura. Aveva un pregio: usava un linguaggio semplice e diretto, per non mettere in imbarazzo l’interlocutore. Sono passati quasi trent’anni, non l’ho più visto, ma la sua immagine manzoniana mi è rimasta nel cuore. In quel consiglio di classe ho incontrato il collega che reputo ancora oggi, il miglior insegnante che abbia mai incontrato. Era il segretario cittadino della UIL. Siamo diventati amici per condivisione educativa. Lui approvava i miei metodi e io i suoi. Avevamo una passione in comune: risolvere i casi difficili. Molto spesso le nostre iniziative convergevano, perché mettevamo sempre davanti a ogni giudizio il fattore umano. Per noi gli alunni erano soprattutto persone, anche quando si comportavano male. A differenza dei nostri colleghi, che tendevano a “vivisezionare” le classi, noi cercavamo sempre di trovare il lato buono in ogni alunno, quello che ci avrebbe permesso di uscir fuori vincenti anche dalle situazioni più difficili. Voleva un bene dell’anima agli sbandati, a quei ragazzi che passavano le ore più belle della giovinezza tra bar di prostitute, ideologie rivoluzionarie e violente di ogni tipo. Con Camillo ci si capiva al volo, non c’era bisogno di spiegazioni o di approfondimenti, quando emergeva il problema sapevamo già come affrontarlo. Per questa ragione ci siamo trovati spesso in minoranza, rispetto a chi avrebbe voluto adottare metodi più sbrigativi poi, alla fine, anche i nostri detrattori, però, dovevano retrocedere di fronte ai risultati che riuscivamo a ottenere.
Professore, ma quel mondo con il quale ha lavorato per tanti anni, si ricorda di lei?
La riconoscenza è un sentimento molto particolare e non tutte le persone la posseggono. La gente è molto individualista, pensa che tutto sia dovuto, che i lavori siano uguali, che la gratitudine appartenga ad altri pianeti, che l’insegnante sia una persona come tutte le altre. Le colpe non sono tutte dei ragazzi o dei genitori, è la società stessa che è diventata estremamente superficiale, presuntuosa, arrogante, non si è mai preoccupata di mettere bene a fuoco il valore e il significato dell’insegnante. L’insegnante è abituato a sopportare le sue frustrazioni in silenzio, perché da buon intellettuale sa stare al di sopra delle parti, insomma non vive di solo pane. Credo che le nostre gioie siano tutte interiori.
Ce n’è uno, però, al quale ha voluto veramente bene, uno di Varese.
Don Tarcisio è stato un amico, un vero amico. Forse avrei dovuto ascoltarlo di più, ma col senno del poi…Ci siamo conosciuti nel mese di giugno del 1978. Mi ha accolto al Convitto “De Filippi” di Varese, dove ho trascorso tre mesi indimenticabili, con un sacerdote imprevedibile, dotato di una natura straordinaria. Con lui non c’era tregua, era stupendo, aveva sempre mille cose da fare e mille parole importanti da dire. Il 14 di settembre ha unito in matrimonio me e Giuliana nella chiesetta romanica di Gemonio. Era un pomeriggio luminoso, fresco e ventilato. Monsignore è arrivato puntuale con Mumba e Mawalla, i suoi due fidi lettori, uno zambiano, l’altro tanzano. Due lettori, due studenti con i quali avevo condiviso l’ultimo piano del Collegio, quello riservato agli africani. Erano due tipi molto diversi, che godevano la protezione di un padre bianco sempre pronto a offrire la sua compagnia e il suo aiuto. Mumba era piccolo e tarchiato, festaiolo e spendaccione, Mawalla aveva la nobile fierezza di uno sciamano, era bellissimo, un Harry Belafonte tanzano, alla bellezza univa straordinarie doti di serietà e di intelligenza. E’ diventato l’architetto più affermato della Tanzania. Don Tarcisio mi ha dimostrato fin dall’inizio grande simpatia e riconoscenza, me lo ha fatto capire in mille modi. In un momento di particolare affetto, davanti a Don M. e al dottor S., disse quello che il cuore gli suggeriva:“Ho pensato al professor Magnani come vice direttore del Convitto”. Ho provato una gioia immensa, anche se mi sono subito reso conto che la volontà del rettore non sarebbe bastata a scuotere chi coltivava simpatie diverse. Con don Tarcisio ho conosciuto le gioie e le miserie umane, la forza del potere e quella dell’amore, le persone che lo circuivano per affetto e quelle che approfittavano della sua magnanimità, per fare il proprio interesse. Con me non aveva segreti. Spesso, in macchina, mentre andavamo a confessarci in quel di Como, dopo il Rosario, si confidava, mi raccontava le difficoltà che aveva incontrato, prove dure, a volte drammatiche, ma vissute con la certezza che la Madonna lo avrebbe aiutato a superare tutto. Il sacerdote simbolo della Varese dinamica ed ecumenica, era l’espressione dell’impegno e della dedizione cristiana. Doveva essere sempre dappertutto, nei luoghi dove poteva esprimere con entusiasmo il suo grande amore per la vita. Amava i poveri, i senzatetto, i diseredati, voleva che i potenti lo aiutassero a realizzare ciò in cui credeva, amava immensamente la sua città. Durante le celebrazioni si metteva sempre in fondo alla chiesa, come se volesse umiliarsi, ma gli occhi dei varesini lo cercavano. Era il simbolo di una Varese che sapeva guardare lontano, senza dimenticare il suo patrimonio umano e intellettuale, una Varese dal cuore grande, aperta, molto attenta alle sue tradizioni alpine e montanare, alla generosa bellezza delle Prealpi, dei laghi, dell’attivismo economico della sua gente. E’ stato un amico sempre, in ogni circostanza. Mi stimava moltissimo come insegnante, sognava per me un avvenire molto importante in terra varesina. Ha tentato più volte di forzarmi la mano, di orientarmi, ma il mio carattere riflessivo e riservato gli ha sempre impedito di regalarmi quello che considerava un giusto riconoscimento. Non importa, ho fatto l’insegnante fino all’ultimo, portando sulle spalle il peso di molte iniquità, ma anche l’amore di tanti giovani ai quali ho aperto la mia mente e il mio cuore.
Professore, qual è stato l’aspetto più interessante del suo insegnamento?
L’aver usato i contenuti per insegnare anche un po’ di catechismo. Il miglior testo che abbia mai avuto in dotazione? I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, un testo davvero straordinario, davvero unico nel suo genere. Mi ha permesso di parlare dei miei argomenti preferiti: Dio, la fede, la famiglia, l’amore, l’amicizia, il bene e il male, la giustizia, la legalità, la fame e la malattia, il tutto in una visione provvidenziale della storia. L’opera di Manzoni è rivelazione quotidiana della presenza di Dio nella vita dell’uomo, presenza che cambia radicalmente il modo di vivere e di pensare, restituendo quella fiducia e quella speranza che spesso l’irriverenza della gente si porta via. In nessun altro testo letterario ho percepito Dio così vicino, così vero e unico nella sua infinita misericordia. Quando la mia vita diventava preda temporanea di una frustrazione, bastava la lettura di qualche pagina del romanzo ai miei alunni, per ritrovare la pace dell’anima, per ricomporre l’entusiasmo cristiano della vita. Ricordo sempre le sante parole del cardinal Federico Borromeo, nell’incontro con l’Innominato, le più belle in assoluto che abbia mai sentito proferire da un prete. Abituato alla noiosa ripetitività di parole e frasi fatte ascoltate nelle penombre di confessionali e a quelle di circostanza delle messe domenicali, la lettura del romanzo mi riconciliava con la fede, mi restituiva la certezza che c’era e c’è sempre una speranza per tutti. Insegnare ad amare un’opera dell’Ottocento non è impresa facile, ma una volta trovata la chiave, le porte si spalancano aprendo un mondo di emozioni, un alternarsi di storie e di avventure che trovavano la loro radice profonda nell’animo umano, nella sua voglia di conoscersi e di conoscere, di ricomporre quell’armonia che solo la fede è in grado di cementare.
Professore, tra i tanti autori del passato che lei ha studiato e spiegato, quale sente più vicino al suo modo di intendere la vita?
Io sono un innamorato della poesia italiana e del romanzo italiano. Leggere, parlare, recitare e drammatizzare era una condizione che scuoteva tutto il mio essere. Non una sola parte di me rimaneva insensibile e la voce riassumeva le intonazioni sentimentali presenti nell’ansia liberatoria dello scrittore. Ogni autore è stato un’autorevole fonte educativa, sorgente di rivisitazioni e scoperte, di antiche e sempre nuove aspirazioni. Ho amato moltissimo Alessandro Manzoni, i suoi travagli, la sua determinazione all’approfondimento intellettuale, la sua naturale aspirazione alla lealtà e alla verità, in un mondo dominato dalle altalenanti teorie della speculazione filosofica e dalla disperata ricerca di una identità. Di Manzoni ho amato la pedagogia dell’educazione, quel suo saper entrare nel cuore dell’uomo, con la dirompente affezione di chi ama la rappresentazione e i suoi personaggi, di chi vuole guidare le creature alla conoscenza di sé, attraverso le infinite sfaccettature dell’animo umano. Manzoni è il Dante dell’Ottocento, lo scrittore della presa di coscienza, il ricercatore critico e perseverante, che scandaglia gli angoli bui, per restituirli alla loro luce naturale. Manzoni è stato considerato uno dei pionieri del Romanticismo italiano, l’intellettuale della passione unitaria. Non un passionario utopico, ma un pragmatico e autorevolissimo rappresentante della nuova cultura italiana. L’italianità di Manzoni è straordinaria e lo ancora di più oggi, in un paese che fatica a riconoscersi nei suoi valori, nella sua storia e nella sua straordinaria creatività. Ogni pagina dei Promessi Sposi è una lezione che impone riflessioni serie e profonde. Credo che gl’Italiani dovrebbero riprendere il romanzo e leggerlo con lo stesso amore e lo stesso trasporto sentimentale che animava i patrioti del Risorgimento. Se tornassimo alle origini della nostra letteratura, forse riusciremmo a vedere il mondo animati da una tensione diversa, avremmo di nuovo il rispetto di tutti, prima di tutto dei giovani, che rappresentano la parte nobile della nostra popolazione, quella destinata a perpetuare i grandi valori della tradizione italiana.
Professore, lei si sente italiano, malgrado tutto ?
Essere italiani è una grandissima responsabilità, perché significa essere esempi di una civiltà che ha dominato il mondo, non soltanto con le legioni romane, ma con la forza della sua straordinaria cultura e genialità. Lei mi sta chiedendo se mi sento un esempio? Non voglio sembrare presuntuoso e neppure masochista, credo di essere un cittadino dotato di una buona dose di maturità, di formazione solida, di amore per il mio paese. Ma l’amore, quando è vero amore, fa soffrire, perché si vorrebbe dare sempre tutto e ci si rende conto di avere dei limiti che ci impediscono di realizzare per intero le nostre volontà. Soffro quando mi rendo conto che siamo governati da persone che non rispettano le regole della democrazia, quando i giovani non rispettano gl’insegnanti, gli anziani e gli adulti in genere, quando le famiglie si sfasciano e i figli sono costretti a diventare grandi senza punti di riferimento. Soffro quando vedo la maleducazione che governa le vie e le piazze dei nostri paesi e delle nostre città, quando in nome della pace si usa violenza contro l’uomo e l’ambiente. Soffro quando vedo i venditori di morte che corrompono il nostro costume e il nostro spirito, soffro quando vedo un educatore che predica la povertà e vive nella ricchezza. Soffro quando ragazzini poco più che adolescenti mancano di rispetto a un professore o a un medico o a un operaio. Soffro quando vedo miliardari del pallone che esibiscono con protervia la loro arroganza in segno di sfida, quando la televisione offre spettacoli osceni, privi di qualsiasi contenuto educativo. Essere italiani oggi è difficile, perché mancano esempi, modelli a cui ispirarsi, valori solidi e sicuri su cui fare affidamento per il futuro. Viviamo un’epoca di grandi incertezze. Il sospetto e l’antagonismo hanno preso il posto della fiducia e della collaborazione, ognuno vive nel proprio mondo, pensando che sia il migliore dei mondi possibili. Se fossi più giovane me ne andrei in cerca di fortuna in altri paesi, come hanno fatto i nostri emigranti nel secolo scorso. Sono affascinato dall’America, dall’Inghilterra, dall’Australia. So che altrove gl’insegnanti occupano un ruolo sociale importante, sono ben pagati e rispettati. Per fortuna l’uomo può ancora sognare. Nonostante tutto amo il mio paese.
Parliamo della famiglia in generale, assistiamo a sovvertimenti radicali.
La famiglia ha attraversato e sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia. La crisi ha radici lontane e nasce da un’interpretazione del tutto arbitraria dei due concetti chiave della cultura istituzionale italiana: democrazia e libertà. La dilatazione a macchia d’olio del consumismo, la convinzione che bastasse essere ricchi per poter disporre a proprio piacimento dei diritti costituzionali, la corruzione istituzionale degli strumenti legalitari, quelli che avevano sostenuto l’antifascismo e la costruzione dell’Italia democratica, la convinzione che la legge fosse una materia interpretabile e confutabile in base a ideologie di potere, un diffuso stato d’ignoranza e una corsa sfrenata al piacere, come rivincita personale su anni di “ repressione” clericale, ha creato le premesse per una caduta di quei valori sui quali avevamo costruito il boom economico postbellico. La morale clericale non ha retto il confronto “culturale” con quella laica, in molti casi si è dovuta allineare. A tutte queste situazioni si sono sommate lacerazioni profonde nel tessuto stesso della chiesa cattolica, costretta a fare i conti con preti sposati, vescovi ribelli, pedofilia e omosessualità. Tutto ciò che nell’oscurantismo postbellico veniva sottaciuto per paura di ritorsioni, improvvisamente scoppiava tra le mani di chi lo aveva creato, come la bomba di un kamikaze. A questa già precaria situazione si è aggiunta l’immigrazione mussulmana, con esigenze e professioni di fede molto determinate. Chi per anni aveva dominato la scena, tirando le fila, si è visto costretto a dover fare i conti con le “vittime” delle crociate, in casa propria. La scuola ha dovuto abbandonare per un attimo Manzoni e Leopardi e si è dovuta spesso allineare alle richieste di una cultura più di carattere universale. Manzoni ha avuto una fortissima crisi d’identità, ha visto di nuovo la sua Italia diventare teatro di strane commistioni, soffrire di paure e di sudditanze già sperimentate. La sua crisi è salita al massimo livello quando si è reso conto che quella lingua italiana così sospirata e voluta era diventata un fiume di vocaboli e inflessioni, a tratti un’irrespirabile commistione fonetica. Guardando la sua Lombardia, dalle vette innevate del Resegone, ha visto camini fumanti, colline e montagne sventrate, file interminabili di macchine e nuvole di gas tossici salire minacciose oltre le vette a lui care, credo che tutto ciò lo avrebbe fatto soffrire parecchio.
Professore, qual è il personaggio che ha avuto il peso maggiore nella sua formazione e per quali motivi ?
Ho conosciuto la vita di Francesco d’Assisi grazie all’eredità di una cugina morta di un male incurabile. Mi ha lasciato dei libri e ne ho scoperto uno che parlava della vita dei santi. Era un periodo molto particolare della mia vita, sentivo vibrare una forte vocazione al misticismo contemplativo, vedevo nella straordinaria bellezza della natura, l’immagine di un Dio che inseguivo osservando il sole, la forza della sua luce, le notti stellate. Lo amavo pedalando tra i sentieri di campagna, ascoltando il canto di un usignolo nelle notti d’estate, in uno dei borghi medievali più suggestivi della mia provincia. Lo amavo osservando con entusiasmo la primaverile esuberanza dei platani e delle loro foglie, che si esibivano in vere e proprie danze propiziatorie. Amavo soprattutto la bellezza che mi circondava: un cielo azzurro, un fiore, gli animali della stalla, un campo di frumento, l’erba alta accarezzata dalle brezze primaverili. Nel mio animo si conciliavano vocazioni naturali con altre che erano il frutto di sentimenti affinati grazie a bellissime lezioni di docenti che si stupivano davanti a nuvole di fiocchi di neve che si posavano sui davanzali delle finestre della scuola, si stupivano al punto che aprivano il loro cuore alla poesia dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, valorizzando al massimo la recitazione. Se ho amato la poesia e se sono riuscito a farla amare ai miei ragazzi è per merito loro, di quelle magnifiche figure che avevano il dono della comunicazione sentimentale, che riuscivano a far passare nei nostri cuori e nelle nostre menti la straordinaria intensità dell’emozione. Mentre leggevo la vita di Francesco capivo che usciva allo scoperto il mio amore per la natura. Anch’io come lui non sopportavo il peso di un’educazione troppo rigida, vincolata a un pragmatismo che bruciava la ricchezza intellettuale e il bisogno di libertà. Ho apprezzato la sua forza decisionale, che l’ha portato ad abbandonare la sudditanza paterna. Un aspetto che mi colpiva in modo particolare era la sua voglia di cantare, di manifestare le sue personali convinzioni senza nascondersi dietro l’abito di un falso perbenismo borghese, cantava e basta, perché lui era fatto così. Per molti anni ho cantato con i miei alunni, sfidando le umane incomprensioni. Francesco era un idealista. Sfoderava anche la spada, perché era vivo in lui il senso dell’onore e della libertà. Detestava coloro che ostentavano il loro benessere sottratto alla causa della povertà. Per anni ho letto, recitato, cantato e spiegato il Cantico delle Creature, per anni ho cercato il sole nelle aule obsolete e scure della scuola, sfidando lo stupore dei miei alunni, che spesso non capivano il valore della luce. Ho incontrato lo spirito francescano ad Assisi, in gita con i miei ragazzi. Francesco è stato l’ispiratore di tutta la mia azione educativa.
Professore, cosa pensa del problema immigrazione ?
L’immigrazione è un grande fenomeno sociale, che deve essere affrontato con molta serietà e con molta determinazione. L’errore più grande che si possa commettere è quello di usare in modo demagogico e strumentale il fenomeno migratorio. Penso che tutti gli stati del mondo debbano concordare un codice di comportamento comune, teso a migliorare le condizioni materiali, morali e sociali degli stati e delle popolazioni, ricreando le basi di una collaborativa convivenza civile.
Professore, passiamo alla sua vita privata. Ha qualche ricordo del suo passato, qualche fatto o avvenimento che vuole ricordare?
Ho frequentato le Scuole Elementari alla “Pietro Giordani”di Piacenza. I miei ricordi sono legati alle aste, ai puntini, agli esercizi di bella calligrafia, ai pennini e alle cannucce, alle gomme, che amavo e desideravo come nessun’altra cosa al mondo. Mi piacevano quelle morbide, compatte, che servivano per cancellare gli errori delle matite e le macchie d’inchiostro. Della prima elementare ricordo il pianto disperato di un ragazzino magrissimo, con due enormi occhiali da vista che lo facevano apparire ancora più emaciato e denutrito. Piangeva disperato e voleva la sua mamma. Mi domando in quale parte del mondo si trovi. Mi piacerebbe rivederlo, parlare con lui. Ricordo una maestra anziana, che amava in modo straordinario la Patria. Ricordo le preghiere del mattino e l’attenzione di mia madre che, prima di uscire di casa, mi passava in rassegna, per vedere se ero ben pettinato, se il grembiule era a posto, se la farfalla era stata annodata dignitosamente e se le scarpe erano lucide. A scuola si lavorava parecchio, non c’era posto per la noia e la monotonia. Si disegnava, si cantava, si facevano esercizi di bella scrittura, si imparavano tantissime poesie. Si facevano delle bellissime gare a squadre, che tenevano alto l’impegno individuale e collettivo. Non esistevano grembiuli firmati, erano tutti della stessa stoffa e di colore nero. Le borse, invece, facevano la differenza. C’erano quelle in cuoio e quelle in pelle. Avevano un vantaggio: i quaderni e i libri rimanevano intatti, non c’era pericolo che si rovinassero. Erano rigide. Anche l’educazione era rigida. I genitori amavano la maestra, la veneravano, non si sarebbero mai permessi di mettere in discussione le sue decisioni. Bacchettate, tirate d’orecchi, flessioni, e qualche schiaffetto erano all’ordine del giorno. Gli alunni se ne guardavano bene dal riferire a casa, perché le avrebbero prese di santa ragione. Cantavamo spesso Fratelli d’Italia e l’Inno del Piave, sull’attenti, come bravi soldatini. La maestra guidava il concerto con la bacchetta. Si faceva tutto con grande entusiasmo. La maestra era insegnante, mamma e amica, le volevamo un bene dell’anima. In terza, quarta e quinta ho avuto un maestro. Era molto buono e paterno, ma non molto psicologo, nel senso che si lasciava spesso condizionare dagli eventi. Ricordo le aule con i pavimenti rossi passati con la cera, i davanzali delle finestre, simili alle panchine di un parco, i lunghissimi corridoi e i bidelli, straordinarie figure paterne, che amavano l’edificio scolastico come la propria casa. Avevano sempre lo strofinaccio in mano e salutavano i maestri e le maestre con riverenza e grandissimo rispetto. Le mie materie preferite erano la storia e la geografia, la ginnastica, il canto e il disegno. Mi piacevano moltissimo le poesie a memoria. La recitazione è sempre stata la mia passione. Odiavo i problemi di matematica e i numeri. Li trovavo freddi e distaccati, lontani dal calore dei personaggi storici che lottavano per valori importanti. La mia classe era formata dai figli della ricca borghesia cittadina. Il mio compagno di banco delle ultime classi delle Elementari si chiamava Giorgio, era un compagno dolcissimo. E’ diventato un bravo medico. Di quei tempi ricordo l’educazione, che aveva un ruolo primario rispetto al resto. Ho avuto insegnanti bravissimi e alcuni meno seriamente impegnati. Nonostante tutto sono sopravvissuto. Credo che un buon insegnante debba fare tesoro delle proprie esperienze, per cercare di tirar fuori il meglio.
Professore, l’ho sentita parlare di poesia, non le sembra di essere un po’ fuori moda?
La poesia non ha età, non ha confini e non ha colori, è l’essenza stessa della vita, perfetta sintesi di vocazioni linguistiche che trasformano la materia in musicalità e armonia, in pura genialità creativa. La poesia non è fuori dal mondo, è dentro di noi, nella leggerezza dei nostri sentimenti, nel geniale raccordo tra l’essere e l’intuizione, nella libertà espressiva che accompagna il nostro cammino. E’ la più elevata manifestazione dell’atto comunicativo e per questo richiede qualità molto particolari, come la sensibilità, la forza dell’analisi introspettiva, una forte capacità d’osservazione, che sappia cogliere tutto ciò che sfugge alla normale lente d’ingrandimento. Ho imparato ad amarla ascoltandola dalla viva voce di insegnanti che avevano il dono della comunicazione che sapeva emozionare. Ogni volta che li ascoltavo mi emozionavo, era come se quelle evocazioni scatenassero una bufera d’immagini, di ricordi, di affetti e purezze abbandonate troppo in fretta. Mi sono immedesimato spesso nelle frustrazioni del poeta, figura spesso contraddittoria, costretto a combattere contro il pregiudizio di una certa critica, contro gli schemi aprioristici della gerarchia borghese e contro il materialismo storico della civiltà industriale. Se qualcuno pensasse di sostituire la scienza alla poesia, decreterebbe la morte spirituale dell’essere umano, costringendolo a un imbarbarimento progressivo della sua interiorità. Uno dei grandi problemi del mondo moderno è quello di non riuscire più ad armonizzare sentimento e ragione, passione e razionalità. E’ come se improvvisamente due mondi che sembravano dormienti, si ripresentassero sul palcoscenico della storia per chiedere la restituzione di un primato. Illuminismo e Romanticismo chiedono i loro conti, con l’arroganza di chi è convinto di aver vinto la partita. Il razionalismo industriale si ciba di futurismo, delegando a un sottile e sofisticato gioco di onde elettromagnetiche il potere della seduzione, mentre l’Umanesimo difende la specularità della natura umana, grande protagonista della conoscenza e del sapere. Vivere la poesia significa capirsi e capire, snidare la parte più nobile che giace latente negli angoli remoti della nostra coscienza e nelle vie ramificate del nostro sistema vascolare, accendere la luce dell’universalità della natura umana, sviluppare generosi rapporti relazionali con noi stessi e il mondo esterno. Il poeta è colui che stempera i contrasti, che dirime le contraddizioni, che ripropone l’umanità del lavoro, il giusto rapporto tra anima e pensiero. La poesia è la voce della nostra cultura, l’unica che sia ancora in grado di elevare l’uomo dalla barbarie dell’omologazione.
Qual è la poesia che porta nel cuore?
Davanti San Guido. In lei ritrovo i turbamenti e le inquietudini della mia vita, gli umori della mia terra, le voci e i sussurri che hanno accompagnato le mie notti giovanili, l’eterna dicotomia che si dibatte tra il sogno e la realtà, l’essere e l’avere, il presente e il futuro. Davanti San Guido è filosofia in versi, è un testo teatrale pronto per la drammatizzazione. Carducci si lascia trasportare dalla leggerezza dei sentimenti, ritrova la sorgente della vita, la magia della fanciullezza, trascorsa in un carnale connubio con la natura. Amo questa poesia perché riconcilia l’umanità con la civiltà contadina, con le cose semplici, con i racconti dei nonni, con la vita degli animali domestici, con la voglia di non dimenticare mai la bellezza di tutto quello che abbiamo ricevuto in dono, la amo perché mi richiama al senso di responsabilità, con l’indulgenza musicale del verso poetico. Mi riconosco nello spirito di Carducci, nel vigore umorale dei suoi ricordi, nella forza che lo spinge ad affrontare la realtà, a essere presente nella storia, nella bellezza di tutto ciò che ci ruota attorno. Nelle sue umane inquietudini si riflette l’ansia dell’uomo di oggi, diviso tra un austero richiamo bucolico e l’ansia di una ricercata conquista tecnologica. Credo che nella bellezza della poesia di Carducci vibri il genio della creatività italiana, la sua capacità di saper traghettare quella voglia di non dimenticare che è parte integrante dello spirito conservatore di un popolo, intimamente legato ai propri valori.
Come vede il futuro della scuola italiana?
Credo che la scuola debba recuperare la sua serenità, non debba sentirsi schiava di convenzioni create apposta per soddisfare egoismi o appetiti politici. Il carattere essenziale dell’istruzione è l’universalità, la libertà è il suo vincolo. La scuola deve ritrovare la sua fantasia, la sua capacità di far sorridere, di far crescere una gioventù convinta che la vita sia un bene straordinario. Occorre quindi ricreare la cultura della vita e ridurre l’illusione che tutto si possa con il denaro. Molti dei nostri guai derivano da una concezione errata della ricchezza, da una insensata politica del profitto, da chi pretende di usare un bene che, per sua natura, non può e non deve diventare prodotto di parte. La scuola italiana deve convincersi che l’uomo si forma per essere in armonia con tutto ciò che lo circonda, per conoscersi e conoscere, per rendere più gradevole la sua temporanea permanenza sul pianeta. Quale dovrebbe essere, dunque, il fine dell’istruzione? La felicità della persona, la realizzazione della sua dignità, la costruzione di una scuola che sapesse interpretare e comprendere i bisogni e le necessità dell’essere umano. Per fare questo è necessario motivare la classe docente, fare in modo che essere insegnante sia qualificante e che l’educazione abbia un ruolo primario nella costruzione della città dei valori. L’educazione è la base e l’istruzione è l’energia che la corrobora, rendendola patrimonio di tutti. Se un bravo docente scoppia e pianta la scuola, vuol dire che qualcosa non ha funzionato, vuol dire che il sistema respinge invece di attirare, non permette di crescere, di far maturare i talenti, di mettere in campo entusiasmo e passione. Se un docente amato e stimato cerca la via della pensione, dopo aver tentato in tutti i modi di proporsi per una valorizzazione in chiave educante del proprio patrimonio culturale, significa che la società in cui vive è priva di fantasia, è una società che invece di stimolare reprime.
Professore, non si può negare la storia!
Il passato è parte di noi, della nostra di vita, ci appartiene. E’ un docente straordinario, ma bisogna saperlo leggere e interpretare con assoluta obiettività. Troppe persone vorrebbero appropriarsi della storia, farla diventare strumento distintivo, conquista personale. Io credo che la storia, con le sue virtù e i suoi errori, sia un patrimonio del genere umano, è una bravissima maestra e come tale degna di essere studiata, ricordata e vissuta con molto rispetto. Sono convinto che nella vita della società ci sia spazio per un nuovo modo di vivere i rapporti e le relazioni, per una comprensione che vada oltre i muri del passato, oltre le barriere del rancore e dell’odio. Nella storia ci deve essere spazio per tutti, soprattutto per i capaci e i meritevoli, per chi è amato e stimato dalla gente, anche se non è figlio del professionista di turno. La storia ha bisogno di molta educazione, per questo la scuola può diventare trainante, quotidiana lezione di onestà intellettuale e di lealtà.
Lei è un convinto assertore del ruolo sociale dell’educazione, è così?
L’educazione è la struttura portante di tutta la nostra vita, caratterizza i nostri comportamenti, dà vigore e sostanza alle nostre azioni, definisce i nostri rapporti interpersonali e soprattutto qualifica il nostro livello di appartenenza alla comunità nella quale viviamo. In questi anni abbiamo assistito a un fenomeno pericoloso, al concetto di collaborazione si è sostituito quello di predazione, l’individualismo ha preso il posto di una sana collaborazione sociale. Siamo diventati un po’ tutti dei predatori, cancellando tutto ciò che potesse essere un freno al raggiungimento del massimo piacere individuale. La maleducazione alligna un po’ ovunque, nelle famiglie, nelle scuole, nelle vie, nelle piazze, negli oratori, nei posti di lavoro. Credo sia quanto mai opportuno fare un’ analisi molto dettagliata della nostra condizione, per riconsegnare alla vita il suo senso, il suo significato, la sua dimensione. Per fare questo è necessario che la società si affidi a bravi educatori, a persone che abbiano conservato la voglia di lottare per l’affermazione del senso del dovere, come base comune sulla quale costruire la rinascita comunitaria. Sono sempre più convinto che l’umanità abbia bisogno di essere accompagnata a ritrovarsi, a riconoscersi, ad assaporare l’importanza delle buone regole e delle buone leggi che governano la nostra esistenza. E’ necessario rimettere in moto la coscienza, farla funzionare al massimo delle sue potenzialità. Creare una forma di scuola permanente per tutti, potrebbe essere un’ottima soluzione.
Professore, si andava meglio quando si andava peggio?
L’età dell’oro non è mai esistita. Chi lo pensa o è un illuso o è falso. Ogni epoca ha dovuto affrontare i suoi problemi, le sue difficoltà, le sue guerre, i suoi momenti difficili. Non amo i confronti, anche se in qualche caso possono aiutarci a capire meglio il senso della storia. Credo sia importante capire il proprio tempo, evitare che ci sfugga e che ci lasci nella convinzione di non aver combinato nulla di buono
Professore, pensa che il lavoro possa essere elemento qualificante della crescita umana, materiale e spirituale di un popolo?
Assolutamente sì. Il lavoro è la vera forza di un popolo. Non dimentichiamoci che anche la scuola è lavoro, lavoro intellettuale, morale, sociale, educativo, che richiede un’equa distribuzione del tempo e dello spazio. La scuola è presa di coscienza, formazione, creatività, produzione, collaborazione, autonomia, indipendenza, libertà, capacità di aderire alle aspirazioni e alle attese di una società che guarda ai giovani per capire come potrà o dovrà essere il futuro. Per questo scuola e famiglia devono collaborare, creando le basi di un’autonomia forte e duratura. Il lavoro è fondamentale, ma è necessario ricreare l’idea di una filosofia un pochino più pragmatica, che rilanci l’entusiasmo e la passione, la creatività e l’immaginazione. Il lavoro non deve trasformarsi in qualcosa di alienante, privato di slanci, di individualità meritocratiche, deve poter far leva sulla fantasia, sulla capacità degli esseri umani di mettere in campo la loro energia positiva e la loro bravura. Il lavoro è conquista quotidiana, gestione di volontà e di talenti che cercano il giusto spazio per la loro affermazione. La Costituzione italiana è estremamente garantista sul tema del lavoro ed è giusto così, ma occorre restituire al lavoro quella dignità che consente alle persone di essere protagoniste della propria vita.
Professore, crede nell’amicizia?
Credo nel rispetto reciproco, nella capacità di saper ascoltare, nella possibilità di stabilire buoni rapporti personali con tutti, credo nella collaborazione, certo l’amicizia è una cosa seria. Diceva un vecchio proverbio:“Chi trova un amico trova un tesoro”. Sono convinto che i tesori esistano, ma che siano molto rari. Viviamo in una società molto individualista, conta chi occupa ruoli dominanti. Capita spesso di parlare con padri e madri innamorati dei propri figli. Quando chiedo cosa fanno nella vita, mi rispondono che sono diventati dirigenti, che occupano posti importanti, che hanno comprato una villa, che vanno in giro per il mondo, che hanno una bella macchina. Nulla da eccepire, ma non trovo nessuno che mi risponda: “Sono contento che mio figlio sia in buona salute”, oppure: “Sono felice perché mio figlio mi viene a trovare spesso” oppure: “E’ contento del suo lavoro”oppure ancora: “Si dà molto da fare per la famiglia e cerca di farsi voler bene da tutti”.
Cosa pensa dei giovani?
I giovani sono il nostro futuro, quindi meritano tutta la nostra attenzione. Famiglia e scuola giocano un ruolo fondamentale nella loro crescita affettiva, morale, sociale, culturale e intellettiva. In tempi complicati come quelli che stiamo vivendo è assolutamente necessario valorizzare il mondo dei giovani, supportarlo e attrezzarlo perché possa competere positivamente per il rilancio di una affettività e di una cultura che con il passare del tempo hanno perso di autorevolezza.
Qual è il valore che le sta particolarmente a cuore?
Senza alcun dubbio l’onestà. Si tratta di una eredità genitoriale. La mia mamma e il mio papà erano due persone profondamente oneste. Posso dire che il viso di una persona onesta è pulito, gioioso, può anche essere temporaneamente corrucciato, ma è sempre contraddistinto da una solidale fierezza, dalla voglia di dimostrare agli altri che la vita è un dono meraviglioso e che per questo va coltivata, amata, protetta e conservata. L’onestà consente anche di sbagliare, ma trasmette immediatamente la forza di rimediare, di dimostrare che il bene fornisce sempre le energie necessarie per uscire indenni da ogni forma di sudditanza a ogni tipo di errore.
Professore, parliamo della televisione. Qual è il suo giudizio in merito?
La televisione è un grande strumento di comunicazione, sappiamo quanto sia importante parlare a tutti. La televisione parla alle donne, agli uomini, ai bambini, ai maggiorenni, ai minorenni, alle persone di cultura e anche a coloro che non sono in grado di decodificare un messaggio, di normalizzarlo e che, proprio per questo, in molti casi lo subiscono passivamente. In molti casi la violenza televisiva, propinata con frasi, parole, immagini e situazioni, può creare seri danni a chi non ha ancora acquisito una capacità critica adeguata. Gli adulti hanno, proprio per questo, una enorme responsabilità educativa, quella di condurre i giovani alla comprensione del valore e del significato dello strumento televisivo, senza diventarne dipendenti. Uno dei grossi problemi di oggi è la dipendenza televisiva, l’assunzione passiva d’immagini, parole e linguaggi che possono alterare lo stato emotivo delle persone. Molti giovani rimangono per ore davanti allo schermo in uno stato ipnotico, che non lascia spazio al pensiero e all’analisi critica. Si tratta di situazioni negative che creano danni non solo di natura morale o psicologica, ma anche di natura fisica. Un’esposizione eccessiva alle radiazioni, l’uso prolungato della vista, un eccesso di sedentarietà possono comportare l’insorgenza di patologie piuttosto serie. La famiglia ha un ruolo educativo molto importante, soprattutto nella scelta dei programmi. La televisione può essere di validissimo supporto all’apprendimento scolastico, ma perché ciò avvenga occorre che i genitori e i docenti accompagnino i giovani a capire in che modo i programmi possono diventare un valido strumento di crescita responsabile delle nuove generazioni.
Professore, chi è l’insegnante?
Mi sono posto spesso questa domanda e ho cercato delle risposte. Forse è un discepolo tra i discepoli, creatura che cresce insieme ad altre creature o forse è un giovane che cammina insieme ai giovani, scoprendo i propri limiti, i propri difetti, le proprie sofferenze, ma anche la gioia di condividere un percorso, di indicare una via, di collaborare per la creazione di un mondo migliore. L’insegnante è una persona a cui spetta il delicatissimo compito di far scoprire al prossimo le straordinarie bellezze della natura umana, le sue contraddizioni, quel suo inesauribile patrimonio di affetti e di sentimenti che spesso ci sfugge. Io ho insegnato tra vecchi muri malinconici e malconci, in aule dove si faceva fatica a respirare tanto erano piccole, mi bastavano un sorriso e uno sguardo per trasformare l’inferno in un piccolo paradiso. Ho incontrato docenti che non vedevano l’ora di “fuggire” dalla classe, altri che si prendevano i bravi e lasciavano i “cattivi”, altri ancora che entravano in classe con stampate sul viso smorfie di dolore. Ho visto docenti arrivare già stanchi alle otto del mattino, li ho visti sbuffare con gli occhi stravolti, immersi in una terribile inquietudine esistenziale, rifiutare inconsciamente il suono della campanella, ne ho visti altri sognare e poi cadere delusi in profondi stati di frustrazione, ne ho visti di allegri e di sorridenti, di appassionati e di entusiasti, di volenterosi e di sognatori. Insegnare è un dono, un dono prezioso che nasce da un cuore che non conosce sconfitte, perché la fiducia è la sua forza, il coraggio e la consapevolezza, la sostanza. Il docente è un personaggio che urla la sua volontà, sperando che il mondo si accorga di lui e lo ami, come si ama chi dona tutto se stesso per comunicare agli altri i segreti importanti della vita, quelli che non ci lasceranno mai soli. L’insegnante è una persona che ha la pretesa di dare forma a mondi senza forme, di stimolare la ricerca di quell’armonia che danza tra le pareti ovattate della nostra coscienza e del nostro cuore, restituendo alla materia la sua verginità, all’uomo la sua dignità, alla società il suo spirito di verità. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, perché la sua umanità è vita per tutti. Una democrazia che si rispetti deve mettere davanti a tutto la scuola, i docenti, gli alunni, i genitori, deve fare in modo che i giovani crescano senza la paura del voto, ma con la certezza di essere parte viva di un miracolo meraviglioso, quello di poter entrare nelle vie del mondo per conoscerle, per capirle, per dare un senso alle parole, ai sentimenti, alle emozioni, togliendo poco alla volta tutti quei veli che madre natura oppone per una umanissima forma di rispetto, per fare in modo che gli uomini imparino a cercare la verità, a investigare sulle cose del mondo, per renderle ancora più belle, più cariche di stupore e di felicità. Amiamo l’insegnante e facciamo in modo che possa vivere con dignità questa sua straordinaria parentesi d’amore e di speranza.