INCONTRO CON L’EMPATIA.
UMBERTO, UN FISIOTERAPISTA CHE PARLA DELL’ANIMA, RESTITUENDO AL CORPO LA SUA MOBILITA’ E AL CUORE L’INNATA VOGLIA DI VIVERE
di felice magnani
L’empatia è un’amica straordinaria, ma come tutte le amiche vere la devi coltivare, devi bussare alla sua porta e attendere. Gli amici e le amiche si riconoscono nel momento del bisogno. Il bisogno non è mai solo di natura fisica, lo è soprattutto nella sua veste morale e spirituale. Non è facile incontrare l’empatia, ma spesso è dietro l’angolo che aspetta, aspetta che qualche anima attenta si accorga di lei e l’accompagni verso una visione più chiara e più limpida della realtà. Chi ha insegnato sa quanto importante sia l’arte dell’ immedesimazione, la capacità di mettersi nei panni degli altri, di provarne su se stesso le gioie e i drammi, quanto sia bello e importante capire che qualcuno spesso ci viene incontro offrendo un aiuto. Chi lavora senza empatia è come se negasse l’umanità delle persone. L’ho incontrata mentre camminavo nella corsia di una casa di cura, mentre osservavo il movimento a tratti frenetico e a tratti misurato del personale medico, paramedico e infermieristico, la passeggiata riabilitativa di ammalati alle prese con la parte più faticosa della ripresa, quella che precede il ritorno alla propria casa e alla propria intimità. Ero colpito soprattutto dagli sguardi, da quella loro incessante ricerca di equilibrio fisico e mentale. E’ lì che ho conosciuto Umberto. Chi è Umberto? Un fisioterapista che parla dell’anima, restituendo al corpo la sua mobilità e al cuore l’ innata voglia di vivere, un professionista che si mette in gioco raccontando se stesso, per trasmettere fiducia e allegria ai pazienti. Quanta gioia in quel viso, quanta umanità in quello sguardo, quanto amore famigliare in quelle parole e in quelle frasi pronunciate con l’espressiva cadenza di una lingua passata alla storia grazie a uomini illustri come Totò, Eduardo, Peppino, Titina e tanti altri. Abbiamo fatto amicizia parlando di tutto, prendendo spunto dalla poesia di Totò, ‘A Livella.
L’INTERVISTA
Umberto, parliamo di quella bellissima poesia di Totò, intitolata ‘A Livella, una poesia che le sta molto a cuore e che lei ha spesso recitato con grande passione
In questa stupenda poesia l’autore preme con forza sul senso della vita, mettendo in evidenza l’energia pianificatrice della morte. Da una parte siamo testimoni di una ricchezza ostentata e aggressiva, dall’altra di una povertà assoluta. ‘A Livella è la bolla che usano i muratori, quello strumento che mette in linea tutti allo stesso modo, creando una sorta di pacificatrice rigenerazione morale, tra coloro che avevano immaginato di poter esercitare un incondizionato diritto di “prelazione”. Mi capita spesso di rileggerla, di recitarla, di proporla ai miei pazienti, perché trovo che induca l’animo umano a riflettere su chi siamo realmente, su quei valori che spesso trascuriamo, pensando di esserne diventati arbitri indiscussi.
Lei è un appassionato di teatro, si sa che il teatro aiuta moltissimo a scoprire la forza e la bellezza dell’immedesimazione.
Sono un appassionato, da sempre, del teatro di prosa. Il teatro napoletano con i suoi autori, mi riferisco naturalmente a Totò, a Eduardo, al fratello Peppino e alla sorella Titina, ha una straordinaria vitalità propulsiva e propositiva, entra nell’animo umano con la forza della naturalezza e della semplicità, lo scuote e lo interroga, lo scandaglia, cerca di coglierne gli aspetti più inquieti e quelli più remoti, portando in luce tutta l’energia evocativa della natura umana. Recitare è interpretare, è entrare con gioia e con passione nella nostra natura emozionale, favorendo l’espressione più vera e profonda dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni, è un tuffo profondo nell’umanità che incontriamo ogni giorno nei suoi alti e bassi, nella sua bellezza, ma anche nella sua aggressività.
In che misura, secondo lei, la poesia entra nel carattere appassionato del cuore napoletano?
La stessa lingua napoletana è poesia. Noi napoletani, lo dico senza presunzione, possiamo persino permetterci di dire che non parliamo in dialetto. Quella che noi parliamo è una vera e propria lingua, perché evoca umori, colori, aromi, profumi, modi di essere e di pensare, possiede una umanissima capacità espressiva che spunta fuori supportata da gesti ed espressioni che amplificano al massimo la nostra visione del mondo, la nostra capacità di far passare un messaggio, di manifestare uno stato d’animo. E’ una lingua dotata di una forte vibrazione caratteriale, che veicola nel modo più naturale gli stati d’animo delle persone. Grazie a lei riesci a capire che cosa uno prova nel momento stesso in cui parla. Noi pronunciamo, ad esempio, la parola “ammore” invece di amore, mettiamo un rafforzativo vocale per far capire a chi ci ascolta quanto sia importante, bella e profondamente vera questa parola. Quella napoletana è una lingua dinamica, piena di energia, capace di fondere arte e musicalità, è una lingua teatrale, capace di interpretare in pieno il nostro carattere, il nostro modo di essere. La nostra lingua rafforza il dinamismo semantico della parola, lo libera dalle incrostazioni psico-sociali e gli conferisce un potente senso di libertà.
Umberto, il tema della morte ha sempre suscitato un grande interesse teatrale e letterario. Francesco d’Assisi, ad esempio, considera la considera una sorella di cui non si deve avere paura, perché ha la grande capacità di consegnare all’uomo quella pace che il materialismo umano gli sottrae. Qual è il suo pensiero in proposito?
Noi napoletani siamo incredibili, perché riusciamo a scherzare con la morte, non la prendiamo sul serio o forse, avendola conosciuta molto da vicino, ne abbiamo assorbito il respiro, l’essenza, al punto che non la temiamo. Ricordo che mio nonno, morto a 82 anni, ne aveva una grande paura. Da ragazzino gli dicevo spesso dandogli del Voi: “Ma nonno non dovete preoccuparvi, la morte è un attimo”. Lui mi rispondeva in napoletano, razionalizzando il tutto in una scandita sequenza di atti. “Bussa alla finestra e con grazia ci invita a seguirla”. La morte su invito insomma, fine ed elegante, gentile e molto umana, capace di non creare panico in chi l’attende. Napoli ha vissuto la morte in migliaia di modi. Siamo stati dominati dagli spagnoli e dai francesi, popoli che hanno in parte contaminato la nostra lingua. Abbiamo subito ingiustizie e sopraffazioni, abbiamo avuto tanti condannati a morte, uomini e donne che per la conquista e la difesa della libertà hanno affrontato tutto senza paura, animati da quell’orgoglio e da quella fierezza, tutta napoletana, che da sempre contraddistingue il nostro carattere. Chi combatteva per la libertà era convinto di quello che faceva, era animato dalla convinzione che bisognava opporsi all’ingiustizia, soprattutto nei confronti di chi la esercitava per una falsa idea di grandezza. Quando si tocca il fondo della sofferenza, o vieni temprato o ti lasci andare alla depressione più assoluta e puoi persino pensare al suicidio. Bisogna reagire. Per me reagire significa affrontare la vita di petto, senza paura, portando il sorriso a chi soffre nel corpo e nell’anima. C’è sempre infatti una sottile connivenza tra il corpo e l’anima e la malattia mette molto bene in luce questo dualismo. Il nostro compito è quello di curare il corpo, non dimenticando mai che la cabina di regia da cui arrivano i comandi è il nostro cervello. Credo che un paziente si senta molto meglio se, mentre viene accompagnato nel suo cammino riabilitativo, impara a scoprire la bellezza di quell’ottimismo che vive dentro ognuno di noi. Parlare col paziente, raccontare, far vivere, far scoprire, mettersi in gioco, far capire che, in fondo, c’è qualcosa di più, qualcosa che accende di speranza le nostre attese e i nostri sentimenti, soprattutto nei momenti difficili.
Umberto, oggi forse si parla poco di Totò, di questo grande personaggio che ha saputo far sorridere in tempi complicati, quando uno dei temi fondamentali era quello della sopravvivenza. Come mai secondo lei?
Totò ha fatto tante opere di bene e non solo agli esseri umani, ma anche agli animali. Nota era la sua attenzione per i cani. Aveva un canile con oltre duecento cani. Nel film Uomini o Caporali, scinde il genere umano in categorie proprio come nel titolo. Gli uomini sono quelli veri, quelli che sanno esprimere con forza la loro indole e la loro natura, mentre i caporali sono i cattivi, quelli che commettono ingiustizie, che sono al di sopra della povera gente, della quale non nutrono rispetto alcuno. C’è nel film di Totò una distinzione, che trova un’eterna corrispondenza nella realtà, dove molto spesso il potente comanda e impone, mentre il povero è costretto a subire. Spesso Totò amava sottolineare le sue riflessioni con l’espressione: “Più conosco gli uomini e più amo gli animali”, espressione che invita a riflettere sui nostri vizi e sulle nostre virtù.
Umberto, come vede un cuore napoletano come il suo, questo nord a volte un po’ freddo e velato di nebbia?
Quando sono arrivato qui ventuno anni fa circa, cercavo di smaterializzare quei normalissimi interrogativi che spesso animano le persone che per ragioni di lavoro o altro sono state costrette a emigrare in luoghi mai conosciuti prima. Ero animato da quella curiosità tipica di chi cerca di rendere meno vuoto quel mondo che ti si presenta davanti per la prima volta e al quale cerchi di conferire una umanità che lo renda più vero e più adatto alle attese. Non ho mai creduto che ci fosse freddezza nella gente del nord. Io sono una persona che non si è mai permessa di giudicare, dico soltanto che c’è un po’ di diffidenza, ma si tratta di un sentimento personale, mio e di nessun altro, è quello che io ho notato e che noto alcune volte. A questo proposito ho incontrato qualcuno che mi ha detto: “Scusi, ma lei è meridionale?” e io gli ho subitamente risposto: “No, io sono napoletano”. Credo che sopravviva una certa forma di pregiudizio nei confronti della gente del sud. Siamo stati spesso oggetto di luoghi comuni, di teorie assurde, di credenze messe in atto con superficialità. Posso dire che chi viene a visitare Napoli ne resta affascinato. Napoli è una città monumentale di una straordinaria bellezza artistica e naturalistica, è una città viva in ogni sua parte, è caratterialmente ospitale e sa mettere a proprio agio i visitatori che cercano nei suoi vicoli e nei suoi quartieri quell’aria allegra e scanzonata che rende più gradevole una visita. L’allegria napoletana è contagiosa e con la sua naturale bellezza offre un campo visivo di prim’ordine. Quando i miei colleghi vanno a Napoli spesso mi dicono cosa ci faccio al nord. Rispondo che io ho fatto una scelta che non era dovuta soltanto al lavoro fine a se stesso, ma a qualcosa che ha coinvolto tutta la mia famiglia, mia moglie e i miei due figli, una scelta che mi ha consentito una maggiore tranquillità economica, la certezza di avere sempre lo stipendio sicuro a fine mese.
Umberto, lei comunque è un innamorato del suo lavoro, è così?
Per educazione famigliare ho sempre portato un grande rispetto per le persone, a qualunque ceto sociale appartenessero. Per me non esiste l’idea di un lavoro privilegiato, che divide invece di unire, di un lavoro che spacca la società in classi, la cosa bella che mi hanno insegnato i miei genitori è che ogni lavoro ha una sua dignità e che, in quanto tale, meriti di essere amato e rispettato. Oggi, lo dico a malincuore, si dà molta più importanza a quello che si ha, rispetto a quello che si è. Viviamo in una società in cui il figlio del potente gode di maggiori attenzioni rispetto al comune cittadino, per non parlare dei tanto vituperati intrallazzi politici che complicano la vita delle persone normali, quelle che non avendo legami e conoscenze sono costrette a sottostare sempre alla legge del più forte. Spesso ci chiediamo come mai i ragazzi che hanno delle capacità se ne vanno all’estero. Io amo moltissimo il mio lavoro, l’ho sempre svolto con grande attenzione, ho sempre cercato di metterci tutto me stesso. Quando ero impegnato con i bambini mi mettevo sempre in seria discussione, persino durante la notte ero assalito dal dubbio di non aver magari fatto tutto quello che avrei potuto, mi arrovellavo per trovare le soluzioni più adatte, modalità più consone alle necessità. Una cosa è certa, i pazienti hanno bisogno di grande professionalità, ma soprattutto di molta umanità.
Quanto conta la condizione mentale del paziente nella fase riabilitativa?
Quando mi capitavano dei pazienti che erano giù di corda, facevo notare loro l’importanza anche del minimo progresso, senza però mai creare false aspettative. Certo l’aspetto psicologico è fondamentale, è necessario che il paziente abbia fiducia in se stesso. La psicologia del fisioterapista gioca un ruolo fondamentale nella ripresa del paziente. Quando incontri pazienti gravi, che fanno fatica a seguire, non bisogna demordere, diventa importante conquistare la loro fiducia, far scattare quella molla che diventa illuminante e che improvvisamente apre le porte di una comunicazione più diretta, più empatica, più profondamente umana. L’empatia è un valore aggiunto. Chi sa mettersi nei panni degli altri, chi sa entrare con garbo e rispetto nel vissuto del paziente è senza dubbio più capace di comprenderne i bisogni e le necessità. Il lavoro ha bisogno di umanità, soprattutto nel nostro caso è fondamentale capire bene fino in fondo chi si ha di fronte, per definire una linea di condotta adeguata.
Che cosa le hanno passato i pazienti che ha incontrato?
La voglia di non perdere mai il desiderio di riemergere dopo una malattia. Questo vale soprattutto per gli anziani. Per i bambini il discorso è un po’ diverso, spesso arrivano con patologie particolari, di cui sono ignari, portando con sé le aspettative dei genitori e di tutto l’éntourage famigliare, formato dai fratelli e dalle sorelle, dai nonni, dagli zii e dalle zie, ciascuno con aspettative diverse. Se tratti un bambino con una paralisi cerebrale infantile senti il soffio della mamma su collo, ne avverti tutta l’apprensione e il clima può diventare pesante, non perché non conosci il tuo lavoro, ma perché dall’altra parte spesso non ti lasciano la giusta tranquillità per operare. Tutti vorrebbero subito un miglioramento che ci sarà, ma a tempo debito, seguendo un percorso condiviso di cure. A volte ci si trova di fronte a reazioni genitoriali che non sono sempre in linea con quella che dovrebbe essere una matura capacità affettiva. Una madre un giorno, con riferimento alla patologia del proprio figlio se ne uscì con la frase: “Sarebbe meglio se morisse?”. All’inizio ho dato una risposta secca che, forse, era anche fuori luogo, poi ho elaborato quell’atteggiamento e mi sono reso conto che quella madre molto giovane aveva espresso un giudizio che, nella sua irrazionale immediatezza poteva anche essere comprensibile, ma che andava sicuramente analizzato e riportato nell’alveo di una consulenza affettiva adeguata. Chi lavora con i pazienti, deve mettere in campo un’acuta operosità psicologica, creando le condizioni di una concreta speranza nei confronti della vita.
Umberto, come vede il futuro dei giovani in una situazione turbolenta come quella che stiamo vivendo?
I ragazzi oggi non hanno sempre le idee molto chiare, in molti casi hanno bisogno di credere, di avere davanti esempi credibili, hanno bisogno di un mondo che si accorga di loro e che non giri loro le spalle ogniqualvolta bussano per trovare coraggio e comprensione. I giovani hanno bisogno di molta empatia da parte dell’adulto, non per essere compatiti come in qualche caso succede, ma per trovare dentro se stessi la forza necessaria per affrontare la vita. Totò, nella poesia ‘A livella, cerca di aprire gli occhi al popolo, di farlo riflettere, di abituarlo a vedere il mondo con una maturità più attenta, più vera, più capace di leggere i propri bisogni e quelli dell’altro. ‘A livella? Una poesia unica, bellissima ed estremamente didattica, sulla quale vale la pena soffermarsi per far capire a chi ci sta davanti quanto sia utile, bello e interessante scoprire i vizi, per ridare vita alla forza rianimatrice della bellezza.