“Non ho saputo dimostrarvi il mio bene, ma ve ne ho voluto tanto!”. Ilaria Ossola, vicesindaco di Barasso e figlia di Luigi (Cicci) Ossola, mitico terzino del Varese che contribuì a portare la squadra in seria A negli anni Sessanta, ha gli occhi lucidi: parlare di quel padre così presente nel corso della sua vita, pilastro silenzioso della famiglia, significa ricordarlo anche nel periodo della malattia, quando lei ha conosciuto quel mondo interiore che il genitore teneva chiuso in sé. Ne scaturisce un ritratto di estrema dolcezza e di grande sensibilità che arricchisce la conoscenza di quest’uomo, cestista e calciatore: “Due carriere racchiuse in vent’anni -scrive di lui Franco Giannantoni- Una vita intensa ricca di successi e di amarezza, gestita sempre con grande equilibrio, premiata in entrambi i casi dall’ambito traguardo della serie A. Prima nel basket con la Prealpi, diretta erede della Robur et Fides, la squadra dell’oratorio di san Vittore di via san Francesco, culla di una disciplina che negli anni ’50 iniziava a diventare popolare, poi con il Varese Football Club, l’Associazione Calcio Roma e il Mantova”. “Stava bene con i ragazzi, in particolare con quelli che manifestavano fragilità -spiega Ilaria- Pur di poche parole anche con loro, li affascinava con la sua attenzione, la sua pazienza. Perché anche lui era stato un bambino fragile”, spiega. C’è una foto che lo rappresenta nel marzo del 1949 -non aveva compiuto ancora undici anni, essendo nato a Varese nel giugno 1938- con un viso intriso di dolore mentre guarda la bara del padre Gino (morto in un incidente automobilistico) sorretta dai giocatori del Torino (si vedono molto bene Valentino Mazzola e Guglielmo Gabetto), la squadra dove giocava il fratello maggiore Franco, a cui è intitolato lo stadio nella nostra città. Due mesi dopo avrebbe partecipato alle esequie di quest’ultimo, caduto a Superga con il grande Torino. E cominciò quel bisogno di silenzio che non gli fece mai raccontare quel dolore racchiuso in lui. “Quando cominciò la malattia che lo avrebbe condotto alla morte il 7 luglio 2018, caddero i freni inibitori e io, con la mamma Lalla, che lo seguì come la sua ombra per tutto il lungo periodo, e con i miei fratelli Francesca e Giovanni conobbi un altro volto di mio padre -continua- Chiamava il nonno, “vedeva” lo zio Franco -aggiunge- Quel mondo che si era tenuto dentro riaffiorò come un fiume in piena e noi capimmo il motivo di quel silenzio carico di dolore. Era felice con noi, ci siamo abbracciati, parlati”. Ilaria apre un vecchio album. Preziosissimo. Racchiude le foto autografate di calciatori della fine anni Quaranta, raccolte tramite l’ausilio del fratello Franco. Ce n’è una che commuove, di Valentino Mazzola, capitano del grande Torino, ritratto con due figli piccoli, Sandro e Ferruccio. Accanto con una stilografia aveva tracciato delle righe, dando origine ad un quadrato nero. Sotto: “Ti auguro sia questa la sola pagine nera della tua vita”. “Al piccolo Gigi, perché diventi un grande asso del calcio”, aveva scritto a Torino il 7 luglio 1947, il calciatore della Juve, di origini varesine, Pietro Magni. Poi l’ultima cartolina, spedita da Lisbona e scritta dal fratello il 3 maggio 1947, giorno prima della tragedia di Superga. “Si disperava mio padre al pensiero di non aver potuto più ritrovare una cartolina spedita dalla stessa città qualche giorno prima con tutti gli autografi dei calciatori”. Era un papà che ha conosciuto profondamente il valore dell’amicizia: “Persone che ha frequentato fino alla morte -continua Ilaria- Tanti li aveva conosciuti nella sua adolescenza, compagni di squadra che avevano giocato con lui nell’oratorio di san Vittore. Poi nella “Robur et Fides”. Quando si ammalò arrivò da Roma, il figlio del gestore della trattoria, dove lui tra il 1966 e il ’67 con i compagni di squadra andava a pranzare. In realtà non lo vedeva da una vita, ma con lui i rapporti erano rimasti sempre solidi. Ci confermò quello che nostro padre ci aveva sempre detto: la squadra era una grande famiglia. Spesso i giocatori uscivano, chiamavano dei ragazzini e facevano una partitella con loro. Così, come un gesto normale”.
Federica Lucchini