Il lavoro riempie la vita, la rasserena, le dà un senso, permette di crescere sul piano umano, razionale, sentimentale, fisico e culturale, fa capire quanto sia importante condurre fuori quelle energie che madre natura ci ha donato senza riserve, con la certezza che prima o poi le avremmo scovate, portate alla luce, ammirate, usate, conservate e migliorate. Non per nulla la nostra Costituzione, ampia, profonda e comprensiva, lo mette al primo posto e non solo, afferma con sicurezza che il lavoro è atto ufficiale di fondazione della nostra vita e della società che ci accoglie. Potrebbe sembrare una forzatura politica, in realtà è la convinzione morale di uomini e donne che hanno capito quale sia il terreno fertile su cui far crescere una società e uno stato convinti della loro investitura, della loro missione, di quale banchetto convenga approntare perché tutti, indistintamente, possano partecipare e dare il meglio di se stessi. Se il lavoro è il vero, unico, indivisibile collante di una comunità che vuole essere rispettosa delle proprie regole, non solo sul piano delle promesse scritte, ma anche nell’azione quotidiana, bisogna che possa contare sempre sulla collaborazione di chi lo ama.
Dunque il lavoro è il punto di partenza, la cinghia di trasmissione di una comunità che ricerca la coesione, la collaborazione, che vuole dare un senso compiuto alla propria presenza, allontanando in tal modo ogni tormento eversivo, ogni tentativo di convertire la libertà in schiavitù morale e sociale. Ma proprio per questo, il lavoro ha bisogno di incontrare comprensione, amabilità e fermezza, deve potersi esprimere in tutta la sua legale e giustificata ampiezza, senza cadere nella retorica di una macchina politica che lo manipoli al punto di farlo diventare meta prediletta di un egoismo di fondo. Il lavoro è il volano di una società matura, che sa posizionare il fine e lo scopo del suo pensiero e della sua azione, di cosa occorra fare per offrire dignità, perché la mente dell’uomo possa coltivare un’adeguata pedagogia del diritto. Il lavoro ha cambiato l’assetto sociale, ha rinvigorito lo spirito democratico, ha creato le basi di una sicurezza sociale ampia e convinta, ha aperto le porte a un sistema di relazioni sociali di natura più democratica, ha gettato le basi per una crescita della nostra popolazione, permettendole di diventare sempre più consapevole e di cambiare in meglio le cose. Per garantire la forza innovativa del lavoro però, lo si è dovuto difendere da chi cercava di sfruttarlo, di addomesticarlo per farlo diventare strumento di ricchezza personale e di sfruttamento delle classi povere, quelle che ancora oggi ne soffrono la mancanza, perché chi avrebbe dovuto avere il dovere/diritto di costruirlo e realizzarlo, ha pensato troppo a se stesso, lasciando cadere nel nulla la forza della persuasività democratica del lavoro stesso, la sua capacità di cambiare in meglio non solo lo spirito di una popolazione, ma anche la sua dotazione identitaria, in particolare la dignità. In troppe occasioni, infatti, il lavoro non ha ricevuto quell’attenzione che gli avrebbe consentito di andare oltre, di prepararsi per tempo, di vedere più chiaro, di convincersi di esser veramente l’anello di congiunzione necessario, il punto di partenza e quello di arrivo, la possibilità, forse l’unica, di dare un senso compiuto all’esistenza.
Lo si è trattato come se fosse un nemico, un avversario da tenere sotto controllo, elemento disgregativo, socialmente pericoloso, lo si è marginalizzato in ambiti più di natura classista, a tratti persino razzista e spesso si è trovato a essere protagonista di filosofie che lo hanno categorizzato, incasellato, inquadrato, impedendogli di godere di quell’ampiezza che gli avrebbe consentito di poter sviluppare la sua articolata e stimolante natura elaborativa. Invece di spronarlo verso nuove mete e nuovi orizzonti lo si è tenuto al guinzaglio, si è cercato di padroneggiarlo, di sottometterlo, di non lasciargli compiere quella necessaria maturazione democratica che avrebbe mutato in meglio la consapevolezza culturale e sociale di una popolazione troppo vincolata a regole e leggi create più per una sorta di paura ancestrale, invece di essere risposta ferma a una società da rivedere, da rilanciare, da indirizzare verso una visione meno personalizzata e più comunitaria. Nella nostra tradizione politica ha sempre prevalso la contrazione partitica. Abbiamo sostanzialmente imprigionato la dignità del lavoro, l’abbiamo fissata nelle nostre regole, non volendo neppure immaginare che fosse figlio del tempo, di mutate condizioni sociali e culturali, di rimescolamenti razziali, di incroci interreligiosi, di spinte sociali diverse da quelle che ritenevamo irripetibili e irrinunciabili. Così il lavoro invece di progredire, di animarsi di nuova creatività e di nuove consapevolezze, si è lasciato imbrigliare dal complesso bancario, dall’idea che la banca e i soldi fossero l’unica possibilità che gli venisse riconosciuta per farsi amare, apprezzare e valere. Tutto si è piegato a una fissità sociale, a visioni di natura conflittuale, a personalismi, all’idea che non ci potesse essere nulla oltre la forza e la strategia del prestito bancario. Il mondo del lavoro ha perso per strada la sua autorevolezza, la sua forza, la sua capacità di far sognare, di incoraggiare, di dimostrare sul campo che l’uomo è il vero motore trainante di tutto. Invece di potenziare i livelli di umanità, di definire meglio i rapporti tra salariati e imprenditori, di rafforzare l’autorità culturale e morale della prassi lavorativa, si è cercato di puntare sull’aspetto monetario, dividendo il mondo in ricchezza e povertà e relegando tutto a un contratto di natura prettamente materialista. Il lavoro parte innanzitutto da una condizione umana, in cui confluiscono materia e spirito, dedizione e consapevolezza, autorità e serietà, volontà e libertà, consapevolezza e senso di responsabilità. Al lavoro ci si prepara, non basta essere esecutori aggiunti, bisogna diventarne protagonisti, essere cioè attenti a quello che si fa e a come lo si fa, al perché lo si fa, bisogna dare un senso, trovare significati, stabilire un orizzonte entro il quale definire la nostra vita. Chi è stato per molto tempo nel mondo del lavoro ne conosce gli aspetti positivi e quelli negativi, sa che non basta avere delle garanzie; le garanzie vanno verificate ogni giorno, ogni ora, con grande passione e buona volontà. In molti casi gli esseri umani non sanno approcciarsi al lavoro, non lo sanno cogliere, lo vivono come un espediente, come strumento di guadagno e di consumo, perché non sono stati abituati a pensare e a vivere con autorità e prestigio la loro condizione, non hanno incontrato sulla propria strada chi aprisse loro gli occhi, chi fornisse un’indicazione più vera, più seria, più umanamente onesta. Il mondo del lavoro deve valorizzare, deve dare spazio a chi è bravo, a chi si impegna, a chi fa le cose con coscienza senza rubare, sfruttare, violentare, depredare, l’onestà deve essere una costante e lo spirito deve puntare sempre sull’autorevolezza del servizio, un servizio che va ben oltre il benessere personale. Il lavoro deve essere un autorevole strumento di crescita umana, culturale e sociale, va insegnato, coltivato, definito, fatto amare e apprezzare, evitando di ridurlo a un semplice spazio o a un ben definito tempo in cui la bellezza rimane imprigionata e non gode di quella libertà di cui ha bisogno per esprimersi e realizzarsi. Incoraggiare vuol dire dimostrare che c’è terreno per chi vuole lavorare bene, con determinazione, fantasia, creatività, per chi ha un animo aperto sulla vita e i suoi tesori. Nel lavoro c’è anche l’aspetto economico, che è pur tuttavia fondamentale, ma non basta se non viene supportato da un ordine di natura morale che ne sovrintende e ne armonizza le potenzialità e il servizio. Riaprire al merito è fondamentale, perché è la natura umana stessa che lo richiede. Chi lavora vuole essere apprezzato, vuole sentire una voce che riconosca privatamente o pubblicamente la sua identità. Bisogna dunque far amare il lavoro, evitando le defezioni, gli allontanamenti di persone che nel lavoro credono, ma che non trovano condizioni per poterlo dimostrare. Come diceva san Benedetto ogni uomo deve essere valorizzato per quello che è, riconoscendogli quelle capacità di cui madre natura l’ha dotato. La bellezza del lavoro non è solo un problema di quanto guadagno o di quale carica mi avranno riservato, ma cosa posso fare per dimostrare le mie capacità, la mia voglia di esserci, di saper rispondere in modo adeguato alle necessità di una comunità che sa guardare avanti riconoscendo i diritti e i doveri di tutti.