Nell’immaginario collettivo il lavoro è quasi sempre visto come un corpo estraneo, qualcosa di ingeneroso e impietoso da dover adottare per sopravvivere. In passato succedeva che diventasse una sorta di incentivo per diventare uomini e donne maturi, pronti ad affrontare con una certa sicurezza i guai e le gioie della vita. Ci si arrivava dopo la scuola primaria, secondaria, dopo gli istituti tecnici, magistrali e il liceo, dopo l’università. La differenza sostanziale tra il lavoro scolastico e quello ordinario era che l’uno non veniva pagato mentre l’altro sì e permetteva di soddisfare le aspirazioni: la moto, la vespa, la macchina, la discoteca, insomma si poteva manifestare fino in fondo la propria libertà. La libertà, però, ha sempre avuto un prezzo. Certo sono pochissime le persone che parlano con benevolenza del lavoro nella sua dimensione etica, morale, sociale, umana, culturale. In passato capitava spesso che lo presentassero come un regolatore di conti che avrebbe messo fine ai capricci, alle sfrontatezze, ai vizi e a tante altre cose negative, come ad esempio perdere tempo inutilmente. C’è stato poi un momento in cui, a seconda delle ideologie politiche,diventava passionario, incendiario, rivoluzionario, paritario, costituzionalista, democratico, tirannico. Erano davvero in pochi a sostenerlo nei suoi aspetti migliori, quelli legati all’intelligenza, alla fantasia, all’immaginazione, all’organizzazione, al lavoro come maturazione intellettuale e sociale dell’individuo. C’è stato persino chi, sul lavoro, ha costruito la sua filosofia personale, sostenendo che gli uni avrebbero disarcionato gli altri e avrebbero così instaurato la pax sociale, la tanto sospirata parità, quella cosa che mette tutti sullo stesso piano di fronte alla legge, come se la cultura e le capacità individuali non fossero ghiotte occasioni per dimostrare che la forza di un lavoratore non dipende tanto dalla sottomissione o dalla costrizione, ma dalla sua capacità di saper interagire con se stesso e con la realtà nella quale vive. Il lavoro è la massima espressione della condizione umana, è l’energia con cui le persone si attivano, la capacità di essere sintoniche e coordinate, di dimostrare quanto sia bello e importante portare in luce quelle risorse che madre natura ha voluto donare perché diventassero un insieme proficuo sotto ogni punto di vista. Nel lavoro si esprime la vera ricchezza, la capacità di essere dentro la storia, portando quel contributo che rende unici e irripetibili. Dunque il lavoro va fatto conoscere e amare, mai disprezzare. Va insegnato, costruito, realizzato con passione e con entusiasmo, stimolato, avviato, condotto, consolidato e potenziato. Nel lavoro, anche in quello più semplice e naturale del mondo, ci siamo noi con la nostra personalità, il nostro modo di essere, la nostra aspirazione, le nostre capacità. Amare il lavoro significa farlo bene, mettendoci tutta la buona volontà e la determinazione di cui siamo capaci. Nel lavoro bisogna crederci, perché è l’unica vera occasione che abbiamo per vivere con dignità la nostra esistenza, quello spazio identitario che abbiamo ricevuto in dono e che dobbiamo cercare di rafforzare. Quando ascoltando la televisione o la radio o leggendo un giornale ci imbattiamo nei guai del mondo del lavoro proviamo una profonda tristezza, perché dentro quei guai apparentemente individuali o di gruppo c’è l’anima di una comunità che crede fermamente nel lavoro, che desidera confermare la propria presenza e la propria autenticità. E’ difficile troncare con quella voglia di essere e di fare che moltiplica le risorse, che rende più autorevole e piena l’esistenza, è davvero triste spegnere la voglia di creare e di fare che anima la vita, è davvero incredibile come una società che si dichiari apertamente democratica non sappia o non voglia promuovere la felicità attraverso il lavoro. Amare il lavoro è amare il lavoratore, fare in modo che la sua coscienza sia piena, consapevole, convinta, che si senta amata e invogliata. Il lavoratore è prima di tutto persona e come tale ha bisogno di sentire che la società civile gli stia vicino e lo sostenga nella buona e nella cattiva sorte. Chi pensa di prolungare l’età pensionabile, senza valutare la condizione umana, morale, mentale, sociale e materiale del lavoratore compie un grossolano errore. Lavorare più a lungo si può, ma valorizzando al massimo l’esperienza del lavoratore. Se il mondo del lavoro fosse davvero un mondo aperto alla crescita individuale e collettiva sarebbe un ottimo compagno di viaggio sempre, anche nei momenti difficili della vita. C’è un altro problema fondamentale nella vita di un lavoratore: il merito. Si lavora non solo per una ragione di carattere esistenziale o istituzionale, ma anche per essere gratificati nella realizzazione del bene individuale e di quello della comunità in cui si è inseriti. Il lavoro è sempre stato, nella sua massima accezione costituzionale, un toccasana per la salute fisica e mentale, per questo va garantito, protetto, conservato e promosso sempre.
Grazie al lavoro si stabilisce un complesso e articolato sistema di relazioni con la vita, aprendo le porte a quei sentimenti e a quelle emozioni che altrimenti rimarrebbero orfani. Lavorare è star bene con sè stessi e con il prossimo. Per tutte queste ragioni deve poter diventare strumento di crescita e non di frustrazione, come molto spesso è accaduto e continua ad accadere. La maggior parte dei lavoratori soffre il lavoro, lo vede e lo sente come una forzatura, un peso, come qualcosa che si deve fare, che stravolge la spontaneità, l’inventiva, la natura umana e i suoi slanci, è su questi punti che forse conviene fare una riflessione profonda, per cercare di umanizzarlo e di fare in modo che contribuisca alla rinascita di una società decadente, riconoscendone la valenza morale. C’è dunque un aspetto che deve essere valutato seriamente se si vuole che sia un grande momento di libertà, di valorizzazione personale e collettiva, la libertà del lavoratore, la sua voglia di sentirsi al centro e quindi protagonista della sua vita. Per questo la politica deve aprire nuove strade, dare nuove certezze, deve rafforzare l’aspetto etico del lavoro, evitando la mummificazione morale e salariale di chi crede nella sua missione abilitativa e riabilitativa.