Immaginare di vivere nell’eden, in una condizione di assoluta passività morale, materiale, intellettuale e sociale sarebbe pazzesco, sarebbe come rinunciare a incontrare l’esistente, quello che si lega ai rapporti umani, alla vita di relazione, sarebbe come rinunciare all’intelligenza. Certo saper usare l’intelligenza non è facile, non tanto nella sua dimensione tecnica o scientifica, quanto in quella umana, là dove si richiedono doti molto particolari, come l’amore, la stima, l’altruismo, la capacità di dare un senso compiuto alle cose che si realizzano. Ecco che arriva il lavoro, non come una maledizione come qualcuno ha cercato di far credere, ma come fonte di approvvigionamento di una felicità altrimenti impossibile. Certo far fatica non piace a tutti, ma se la fatica porta a dei risultati positivi, ecco che diventa benemerita. Lavoro uguale fatica dunque? E’ difficile raggiungere un traguardo se non con un impegno sistemico e costante, che comporta anche qualche goccia di sudore sulla fronte. Immaginiamo come sarebbe stata la nostra società civile senza il lavoro, senza quell’impegno personale che spesso diventa collettivo e che dà un senso quotidiano alla nostra vita e a quella della comunità in cui viviamo. La nostra comunità umana si fonda su una rete di impegni individuali e collettivi che creano una incommensurabile fonte di guadagno e di realizzazione e in cui tutti possono trovare una intelligente modalità di inserimento. Non è sempre facile, bisogna infatti mettere in campo qualità, risorse e talenti che dovrebbero facilitarne l’approccio. Nel rispetto delle qualità morali e intellettuali di chi lo gestisce, il lavoro prende forma, diventa espressione viva di una personalità attenta alla conoscenza di sé e pronta a offrire un contributo di valore alla società umana in cui è inserito. Nel lavoro, anche in quello all’apparenza meno coinvolgente, c’è una meravigliosa dose di associazionismo, di mistero creativo, di fascino attitudinale, di dilatazione amorosa che coinvolge anche le parti affettive che contano, come le emozioni, i sentimenti, le sensibilità e quelle volontà che pur sembrando lontane, all’improvviso, grazie al lavoro si rivelano e si dilatano nella loro autenticità. Lavorare è un miracolo, è scoprirsi poco per volta, strada facendo, passando attraverso percorsi non sempre preordinati o precostituiti, che rappresentano la chiave di volta della felicità. Lavorare significa impegnare il corpo e la mente in un viaggio attraverso la condizione umana, di cui si scoprono strada facendo quei tesori che diventano terreno conquista. Non c’è lavoro che non sia espressione di una vocazione, di una tensione, di una capacità di saper scoprire ciò che la natura umana riserva. Non esiste un lavoro colpevole, esiste un lavoro rigenerante, liberatorio, che introduce all’energia vitale del mondo in cui si ha l’onore di vivere, amare e operare. Se il lavoro reprime è perché non viene fatto conoscere abbastanza, non se ne ha coscienza, viene presentato come una colpa da espiare, una condizione di servilismo sociale, in cui predominano scadenze di ordine materiale. Molto spesso manca una cultura del lavoro, che sappia individuare e stimolare la vocazione di un carattere, aprendo le porte alla valorizzazione, alla conferma che nulla avviene per caso e che ogni impegno vale una conquista, come risposta a quell’intelligenza dinamica che ci coinvolge e ci proietta verso forme cognitive sempre più ampie e profonde. Il lavoro ha anche un valore pecuniario, a seconda di come lo si realizza e lo si promuove. Non è qualcosa di statico, di inamovibile, di maledettamente coercitivo, se lo si sa apprezzare e vivere diventa la fonte di cambiamenti straordinari, di realizzazioni impensate, è una sorta di bacchetta magica con la quale si può dare un significato vero e profondo alla nostra vita. Credo sia sbagliato distinguere i lavori in buoni e cattivi, usuranti e non, il lavoro richiede attitudine, comprensione, attenzione, volontà, determinazione, resta pur sempre l’unica vera via di una redenzione e di una riconciliazione con la propria voglia di fare, progettare, realizzare. Dunque il lavoro va prima di tutto amato anche quando parrebbe inadeguato e indisponente, non adatto alle nostre aspettative. E’ difficile trovarne uno che sia tagliato perfettamente per noi, chi lo ha provato sa che prima di arrivare a qualcosa di buono bisogna lottare, pazientare, rinunciare, provare e riprovare, non basta mettersi seduti ad aspettare. Troppe volte assistiamo a varie forme di attendismo fatalistico, di persone che aspettano di essere baciate dalla fortuna. Nella maggior parte dei casi la fortuna bisogna crearsela. Le persone che ce la fanno ci hanno creduto, non hanno lasciato nulla al destino, ma hanno fatto di tutto per conquistarlo. A volte il lavoro arriva servito su un piatto d’argento, a volte si fa desiderare come una bella donna, a volte sembra non arrivare mai, creando spazi di frustrazioni e depressioni, in certi casi si fa persino odiare per la violenza con cui viene fatto conoscere. Manca spesso un approccio positivo al lavoro, qualcosa che lo renda espressione di una cultura personale e sociale di grande spessore etico e morale. E’ prassi comune che il lavoro abbia una fondamentale funzione morale, chi non lo trova lo sa molto bene, vivere aspettando è una delle condizioni più avvilenti, è come se il mondo si fosse dimenticato di noi, della nostra dignità, della nostra vita, della nostra vocazione naturale alla partecipazione, può così diventare fonte di molte malattie sociali. Chi non lavora vive nella povertà e nella solitudine, non ha possibilità alcuna di realizzare ciò per cui è stato creato. Chi parla di famiglia oggi senza pensare o lavorare per aiutarla a trovare la sua fonte di approvvigionamento materiale e quindi morale, non sa quello che dice, non conosce a fondo i diritti e i doveri del genere umano, si comporta con disprezzo. Eppure basterebbe poco, basterebbe forse uscire di casa e guardarsi attorno, magari negli angoli più nascosti, dove la povertà si trincera dietro varie forme di pudore, dove la disuguaglianza è sfrontata e dove anche chi dovrebbe risolvere è assente, perché troppo impegnato a inseguire il proprio egoismo. Partire dai lavori più piccoli per arrivare a quelli più grandi, togliere tasse e balzelli inutili, alleggerire il mondo del lavoro, eliminare la burocrazia con tutte le sue trappole e le sue iniquità, aprire le porte a chi ha buona volontà e voglia di fare, di essere creativo, di voler dimostrare la propria intelligenza, guardarsi attorno e ricominciare con una cultura del lavoro più forte, più aperta, meno padronizzata e sindacalizzata. Insegnare la cultura del lavoro a scuola, insegnare cose pratiche, creare scuole attrezzate con laboratori annessi e con personale specializzato capace di trasmettere le nozioni della sopravvivenza, favorire l’apprendimento in tutte le sue forme, avvicinare la scuola al mondo della lavoro e non solo, trasformandola in un lavoro vero e proprio, dove l’umanesimo e la letteratura aiutano l’essere umano a migliorare la conoscenza di sé e quella del mondo che lo circonda. C’è un concetto fondamentale che è alla base di tutto, s’impara amando, trasmettendo entusiasmo, passione, arricchendo il prossimo di nuove speranze, risvegliando il cuore e la mente sulle cose belle che occorre fare. Fino a quando il lavoro rimarrà nelle mani di chi lo utilizza come strumento per le proprie ambizioni personali, politiche o imprenditoriali, sarà sempre portatore di conflitti e di disuguaglianze sociali. C’è un grande bisogno di chi lo faccia apprezzare, di chi gli restituisca il suo significato profondo, la sua straordinaria funzione costruttiva e innovativa, non dimenticando mai che il lavoratore è prima di tutto un essere umano e che, come tale, è degno di essere amato e apprezzato a qualunque ordine sociale appartenga. Un lavoro senza umanità diventa servitù, condizione servile, coercizione, reprime e annulla, privando l’uomo della sua identità naturale, del suo essere cuore e anima, corpo e spirito, parte integrante di quell’intelligenza divina da cui ha ricevuto in dono le opportunità per incontrare una seppur piccola porzione di paradiso. Dunque prima del lavoro deve cambiare la mentalità di chi lo amministra. Non è più il tempo delle lotte di classe, del buono e del cattivo, del bello e del brutto, è forse quello di insegnare all’essere umano che la sua umanità non è merce di scambio, ma dono prezioso e fondamentale, senza la presenza del quale tutto il resto diventa alienazione, robotizzazione, povertà e solitudine esistenziale.
“Il lavoro è vita”
IN ITALIA MANCA UNA POLITICA DEL LAVORO BASATA SU UN SISTEMA EDUCATIVO CHE ORIENTI IL LAVORATORE A ESSERE FELICE E FIERO DI QUELLO CHE FA. di Felice Magnani
Se vuoi capire che tipo di rapporto esiste tra lavoro e lavoratore, fermati magari all’angolo di una strada e senza dare nell’occhio osserva con attenzione. La prima cosa che colpisce è che, in qualche caso, tra i due non esista nessun tipo di rapporto, di solito i gesti sono sprezzanti, accompagnati da parolacce, a tratti violenti, privi di qualsiasi nesso logico, per questo ti chiedi come mai qualcuno non abbia fatto capire al lavoratore l’importanza di quello che fa, del perché lo fa, di quali siano i vantaggi che un lavoro fatto con coscienza e determinazione possa comportare nella crescita umana e responsabile della persona. Lavorare non è solo un dovere, è soprattutto un’arte, soprattutto quando sembra che questa arte abbia uno scarso peso intellettuale. Ogni lavoro è portatore di ricchezza, è somma di fisicità e di intelligenza, di preparazione e di volontà. Nulla è mai per caso, tutto nasce da uno stato di necessità e da un fine che, per quanto apparentemente meno nobile di un altro, è pur sempre indispensabile, determinante e proprio per questo richiede un preciso obbligo cognitivo, devi cioè conoscere bene quello che fai, devi saperlo fare, ma devi soprattutto credere fino in fondo in quello che fai e cercare di farlo bene. Il problema, come spesso succede nella società consumistica, non è quello di pensare a come fare per fregare il prossimo, ma fare in modo che il prossimo possa essere contento di ciò che riceve, per come lo riceve. Tutto ciò che è indispensabile e determinante richiede il massimo dell’impegno e dello sforzo, quindi va fatto con cura, perché rientra in una reciprocità di relazione che ha finalità non solo individuali, ma collettive, il fare bene non resta in chi lo fa, ma riverbera su tutta la comunità. Ecco perché una comunità dovrebbe dare molta importanza al lavoro, perché è il suo vero collante, è il vero motivo della sua coesione, l’ispiratore naturale della sua coscienza. Un comunità che non si preoccupa del lavoro dei suoi cittadini, che non cerca di valorizzarlo e di promuoverlo è una comunità che non vive lo spirito comunitario e spesso non basta qualche pubblica manifestazione per dimostrare che esiste, per mettere il cuore in pace. Il gioco, ad esempio, assume una valenza sociale se, facendo divertire, insegna a fare qualcosa di utile. Un tempo i genitori a Natale regalavano il meccano, i colori a olio, gli attrezzi del falegname con lastre di legno da incidere e da lavorare, cercavano insomma di stimolare con il gioco tutte quelle cose che avrebbero potuto avere un peso nella crescita dei propri figli. Oggi si pensa molto di più all’effetto tecnologico che, nella maggior parte dei casi, immobilizza la capacità di immaginare, fantasticare, scoprire, inventare, creando molto spesso degli automi vittime del video. Nella maggior parte dei casi il lavoro rientra in una pianificazione di forze e di progetti, quindi non è mai per caso o fine a se stesso, ha bisogno di verifiche e di controlli, un po’ come si fa a scuola quando per sapere il livello di conoscenza di una materia si fanno i compiti in classe, per vedere qual è il livello raggiunto dall’alunno. In fondo siamo un po’ tutti alunni e lavoratori o lo siamo stati nel nostro passato di persone professionalmente attive, ma se ci soffermiamo per un attimo a meditare, ci rendiamo conto che il lavoro non è mai rientrato in una meritocrazia riconosciuta, non è mai stato seguito con il giusto interesse, è sempre stato un problema, anche quando con un’ attenzione più accurata da parte di tutti sarebbe potuto diventare una ricchezza economica, morale, sociale e culturale. La scuola, ad esempio, non è mai stata considerata, un lavoro, eppure del lavoro aveva ed ha tutte le caratteristiche fondamentali, perché prepara alla vita concreta. Il lavoro è infatti soprattutto cultura, cultura del lavoro. Cosa s’intende per cultura del lavoro? Una buona conoscenza di ciò che si deve fare e soprattutto di come lo si deve fare. Nella cultura del lavoro c’è un po’ di tutto, disciplina, conoscenza, teoria, pratica e una costante applicazione. Essere disciplinati significa dare sempre il massimo, fare in modo di essere contenti di quello che si fa, avere stima di se stessi e lottare per raggiungere un obiettivo, soprattutto quando l’obiettivo sembra impossibile. Non importa dunque che si tratti di disciplina manuale o mentale, il lavoro deve essere animato da uno spirito, da una sorta di vocazione personale, deve soprattutto coincidere con l’amore per quello che si fa, con il rispetto di se stessi e degli altri, con il rispetto delle regole societarie, quelle che riguardano tutti i cittadini indistintamente. Preoccuparsi per gli altri significa non fare cose che possono danneggiare la comunità, avere sempre come punto di riferimento l’insieme in cui si svolge la nostra vita, sia quella lavorativa sia quella affettiva. Nel lavoro c’è infatti una bella parte di vita affettiva, c’è soprattutto l’amore e il rispetto per il prossimo. Se ad esempio in una scuola un professore o una professoressa arrivano sistematicamente in ritardo non rendono una buona nomea al lavoro dell’insegnante, perché un ritardo ripetuto è come rubare i soldi allo stato, quindi ai cittadini. Il lavoro non è per sua natura classista, ma lo può diventare se la società crea le distinzioni, le diversità, le divisioni, smontando la visione d’insieme per fare posto all’interesse personale. Stimolare è giusto, far crescere l’amor proprio anche, creare le condizioni perché chi lavora si senta gratificato, mantenere alta l’attenzione sulla cultura del lavoro, insegnare a come imparare a lavorare, sono tutti passaggi necessari per far crescere la voglia di lavorare delle persone. Quando questa voglia viene meno? Quando il lavoratore si sente isolato, quando non sente quell’afflato societario che dovrebbe sorreggerlo e valorizzarlo, farlo sentire orgoglioso di quello che fa. La tendenza in molti casi è quella di isolare che è più bravo degli altri, è in questi casi che scatta quello spirito antagonista che è stato ed è la rovina di molte comunità, paesi e nazioni. Invece di stimolare e di accendere la curiosità e la forza della coerenza si tende a spegnere, a minimizzare a far passare inosservato quello che inosservato non lo è per niente. E’ un po’ il sistema il sistema mafioso, che tende a isolare le proprie vittime, ignorandole, fino all’esaurimento della propria identità. Nel mese di maggio si ricorderanno, a questo propristo, due lavoratori straordinari che hanno sacrificato la loro vita per la nazione e di cui si parla sempre troppo poco, si tratta di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, due lavoratori che fino all’ultimo hanno tenuto fede all’ideale di vita che si erano proposti e precisamente quello di difendere la giustizia e di insegnare la legalità. Dunque il lavoro va creato, ma non solo, non basta, va insegnato, va fatto conoscere molto bene, occorre creare una predisposizione etica e morale che dia valore aggiunto alla sua naturale bellezza. Preparare il cittadino al lavoro significa coinvolgerlo non solo nella sua iscrizione all’albo costituzionale dello stato a cui appartiene, ma farlo crescere con l’idea che il lavoro sia la più grande espressione della cultura popolare, una cultura che non è mai rivolta solo al sé ma soprattutto a quella comunità che spesso ha un estremo bisogno di umanità, per capire quale strada intraprendere. In questi momenti difficilissimi a causa dei danni provocati dal Covid 19, ci sono forse il tempo e lo spazio per rilanciare la forza unificante del lavoro, la sua capacità di sollevare il morale delle persone, la sua capacità di riattivare lo spirito della ricerca e dell’impegno, della voglia di aprire le porte di uno spirito che è stato per troppo tempo ostaggio di un virus. Dunque un mondo si apre al lavoro, ma lo deve fare combattendo lo sfruttamento, la demotivazione, la depressione, la frustrazione, l’idea di non potercela fare. Bisogna tornare a dare fiducia all’uomo a fargli comprendere che non è solo, che il mondo si attiva e che il lavoro non è una condanna, ma un modo nuovo di porsi, di aprirsi e di aprire agli altri quella strada che per troppo tempo è stata sbarrata dall’ignoranza, dalla superbia e dalla convinzione che l’altro fosse solo un essere da depistare e da osteggiare. Il lavoro era e resta il modo più vero e autentico per combattere l’inciviltà, la prevaricazione, l’aggressività, l’insicurezza e soprattutto quella malavita che non aspetta altro di poter mettere le mano su una popolazione lasciata sola e senza speranza in un futuro migliore. Chi ama davvero il lavoro inizia a insegnarlo ai ragazzini, evitando di lasciarli in balia del nulla o alla mercé di gente senza scrupoli, in molti casi è proprio la famiglia che si occupa dell’impegno concreto dei propri figli, che insegna loro l’arte del vivere bene, facendo leva sulle ricchezze morale di cui l’essere umano dispone. E’ dunque in una collettiva visione del mondo che gli uomini trovano le risposte a i loro bisogni e alle loro necessità, è nell’orgoglio di un lavoro riconosciuto e apprezzato che la vita diventa una bellissima occasione per tutti.