Il lavoro non è una condanna, ma un impegno che cambia in meglio la vita dell’uomo. Se chi lo ha creato nel corso della storia ne avesse capito fino in fondo l’importanza, forse non saremmo arrivati alle reazioni di piazza, alle lotte sindacali, alle rivolte contro il potere, gli uomini ne avrebbero capito il significato più vero e profondo e lo avrebbero accolto come una benedizione. Il problema è che non basta scrivere belle parole e belle frasi, spennellare la Costituzione di articoli bellissimi, abbandonarsi a lunghi e convincenti monologhi scolastici, sono le persone con il loro esempio che devono testimoniare il valore di ciò che è stato scritto con dovizia di particolari. E’ vero che la storia è maestra di vita, ma ha bisogno di conferme quotidiane, di valori che si aggiungano a valori, di testimonianze che rendano effettivo ciò che spesso rimane costretto in un’idea o in un teorema o in una volontà. Il lavoro realizza, completa, permette alle persone di capire qualcosa di più di sé, della propria identità, di poter esprimere la propria personalità. Il lavoro è libertà cosciente, consapevolezza interiore, esplorazione e gratificazione. Chi lo ama lo promuove, lo valorizza, lo fa vivere, lo rende autentico, ne favorisce l’autonomia, l’indipendenza, lo rende gradevole e appassionante anche quando chi lo esercita e lo promuove non è uno scienziato, ma un semplice cittadino. Ogni lavoro ha una sua precisa identità, una sua importantissima ricaduta sociale, consente di fare un passo avanti senza il timore di guardare al futuro con terrore o sospetto. Quanta psicologia c’è nel lavoro, nella sua capacità di trasformare la vita delle persone, di creare relazioni, stabilità, equilibri, rapporti interpersonali rispettosi e collaborativi, il problema è che non sempre la fonte dalla quale zampilla è cristallina, trasparente, capace di educare e di informare, di incoraggiare e di gratificare, di dare una pacca sulla spalla dicendo anche solo: “Coraggio!”. Il lavoratore non è un automa e neppure un sottomesso, ma una persona che presta un servizio in cambio di un salario che gli serve non per sopravvivere, ma per vivere dignitosamente. Ci sono persone che hanno lavorato per ben oltre trent’anni, con passione, impegno e buona volontà e che non hanno mai ricevuto neppure un semplicissimo grazie, quel grazie che avrebbe contribuito a creare gioia, riconoscenza. Gli esseri umani non sono dei robot, hanno un’anima, la facoltà di pensare, di riflettere, di voler bene, di amare, certo è che le facoltà vanno stimolate, valorizzate, fatte conoscere, consolidate e potenziate. In che modo? Trattando gli esseri umani con rispetto, perché dentro quella presenza c’è la sostanza del mondo, quel mondo di cui siamo tutti una piccolissima ma importantissima parte. Le grandi rivoluzioni della storia sono sempre state determinate da varie forme di stupidità umana: odi, rancori, interessi, sopraffazioni, ambizioni, l’uomo ha sempre cercato di sottomettere l’altro, trasformandolo, in molti casi, in un asservito al potere dominante. Ogni volta che vediamo uomini e donne senza fissa dimora, senza un lavoro stabile, uomini e donne che attraversano i mari per cercare condizioni di vita accettabili significa che chi avrebbe dovuto provvedere non ha provveduto. Alla base dei grandi problemi dell’umanità ci sono sempre radicali inadempienze, responsabilità mai assunte, ricchezze mai distribuite, volontà non rispettate. Non considerare l’essere umano, trattarlo come fosse un servo, usarlo e poi abbandonarlo è un atto vile, privo di qualsiasi forma di rispetto. Il lavoro era e resta un’ immensa opportunità di vita, ma come tale va coltivato, stimolato, insegnato, fatto vivere e fatto amare. Chi usa il prestatore d’opera come oggetto di consumo non rispetta la condizione umana, non gli consegna quell’ identità che è patrimonio universale di ogni essere vivente. Oltre ai diritti nazionali esistono infatti diritti e doveri di natura universale, che riguardano tutti e di cui l’autorevolezza umana deve tener in debito conto ogniqualvolta fa il proprio esame di coscienza. Forse sta finendo l’epoca delle colonizzazioni selvagge, delle arroganze razziali, delle irrispettose utopie che hanno massacrato la storia e forse sta iniziando un periodo in cui i confini non sono prigioni, ma ragioni di ordine storico e morale da cui partire per arricchire la storia di un mondo sempre troppo piccolo per crescere e maturare. Il lavoro, anche nella sua forma di pura e semplice gratuità, ha bisogno di gratificazioni morali, di dimostrare che il bene era e resta un valore ampiamente apprezzato.
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